La Storia

 

Lo scrittore americano Edgar L. Doctorow scrisse che: “La storia riguarda il presente ed è per questo motivo che ogni generazione la riscrive.” Che questa frase contenga una grossa verità lo si nota in Cina, più che altrove. La revisione del passato per essere adattato alle esigenze del presente è l’arma preferita dalla oligarchia rossa cinese per mantenere il proprio monopolio sul potere.  Per far sì che nulla cambi devono creare continuamente dei punti di tensione, per poi far leva sul nazionalismo e giustificare le loro censure e le loro repressioni. Le loro leve negli ultimi quarant’anni son state tre: il Giappone, Tibet, Taiwan.

Anche Taiwan, guidata da un ingenuo presidente Ma Yin-Jeou, pare sempre più ammaliata dal canto delle sirene cinesi e la distensione fra i due Paesi prosegue, ma solo in una direzione. Pare quasi una resa: a Taiwan hanno abolito la leva e stanno riducendo sempre di più le spese militari. La Cina, invece, continua a tenergli puntati contro più di mille missili e incrementa mediamente le spese militari del 15 per cento all’anno.

Al contadino cinese al quale è stata tolta la terra da burocrati corrotti e che si lamenta di non aver più nulla da offrire ai propri figli, il partito comunista gli manda a dire che dovrebbe preoccuparsi della costruzione d’una società armoniosa. Nella provincia dello Jiangsu si registrano 120mila morti all’anno, causati direttamente da certe sostanze chimiche inquinanti rilasciate nell’ambiente; ma il messaggio è che resta inutile stare a scriverne e a parlarne: che si scriva e si parli piuttosto dei successi cinesi in campo industriale. Il latte per i neonati è stato tagliato con melamina? Non ha importanza: meglio guardate ai grattacieli di Shanghai, di cui tutti i cinesi debbono essere orgogliosi. I genitori che hanno perso i propri figli nel crollo di scuole costruite con la sabbia nel Sichuan e che non possono sperare in un’azione penale della magistratura contro chi le aveva malamente innalzate; pensino piuttosto a essere dei buoni patrioti per contrastare l’azione dei terroristi tibetani, capeggiati da un Shylock di Dalai Lama, che vorrebbe staccare il Tibet dalla madrepatria. Dunque resta solo il Tibet, che rimane centrale nella strategia della tensione cinese volta ad attizzare le fiamme del nazionalismo e a deflettere l’attenzione del popolo dagli enormi problemi che attanagliano la nazione.  Vorrebbero certamente vedere un Dalai Lama più bellicoso e attivo all’estero, anche se dal 1979 ha accettato la “terza via” fatta di moderazione e accettazione dello status quo esistente. Un fatto che per la Cina non è sufficiente neppure per iniziare a discutere. Il Dalai Lama, che ha dichiarato di ritirarsi dalla politica, accetta il fatto che il Tibet sia cinese e garantisce che non vuole più l’indipendenza, ma rifiuta di dire che il Tibet è sempre stato cinese. Ovvero rifiuta di leggere la storia secondo l’interpretazione attuale di Pechino, perché se ammettesse questo, metterebbe una pesante ipoteca anche sulle interpretazioni future della storia tibetana. Secondo Pechino il Tibet è sempre stato parte della Cina, già a partire dalla dinastia Yuan (1279 – 1368). Questa affermazione ha in sé qualche cosa di ironico, perché i regnanti Yuan, che anche Marco Polo servì, erano di razza mongola-tibetana, ma per gli storici cinesi questo non conta. Sempre leggendo nel loro libro di storia, il Tibet si trovava in una situazione diversa da altri Paesi, tipo il Vietnam, la Corea e la Birmania, che venivano controllati grazie a una forma di vassallaggio. La Cina manteneva in Tibet delle truppe con un proprio funzionario, chiamato Amban, che possedeva poteri di veto sulle decisioni dei Dalai Lama. Sostengono anche che nel 1792 la Corte dell’imperatore dei Qing, Qianlong, emise un editto in cui stabiliva come selezionare le reincarnazioni dei nuovi Dalai Lama e dei Panchen Lama, per evitare manipolazioni anti cinesi, un po’ come il potere di veto dell’imperatore d’Austria sull’elezione di un nuovo papa durante il conclave. Questo documento è stato rispolverato recentemente dai comunisti cinesi in previsione della morte del settantaduenne Dalai Lama. Il governo tibetano in esilio in India continua però a sostenere che la prima accettazione di un diktat cinese avvenne solo nel 1951, con l’attuale Dalai Lama che firmò con Mao Tzetung un documento intitolato: “Accordo in diciassette punti per la pacifica liberazione del Tibet” e che in passato loro sono stati soggetti solo a delle dinastie mongolo-tibetane, come gli Yuan e poi i Qing, ma mai a dei cinesi di razza Han, come i Ming. Aggiungono anche, con una punta di malizia, che i mongoli, razzialmente simili ai tibetani, per un certo periodo controllarono anche Budapest, questo significa forse che anche l’Ungheria appartiene alla Cina?  La tensione su questo argomento è così alta che durante una mostra di stampe antiche disegnate dai Gesuiti italiani, tenuta a Pechino e a Shanghai, venne chiesto agli organizzatori di rimuoverne alcune, risalenti al XVII secolo, solo perché il Tibet era colorato diversamente dalla Cina continentale. Il punto focale, noi crediamo, indipendentemente dalla storia, resta che nessuno vuol far parte d’un regime repressivo e liberticida qual è quello cinese. Lo scrisse Confucio cinque secoli prima di Cristo: “I Paesi ben amministrati provocano immigrazione, quelli male amministrati provocano emigrazione.” Tutto sommato questo dimostra che la nostra Italia, che noi vorremmo perfetta, non dev’essere poi tanto male.

 

 

Angelo Paratico

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