Le memorie scritte da Giosafat Barbaro, mercante di schiavi e uomo politico

Unico ritratto di Giosafat Barbaro, in un codice fa l'elemosina a un mendicante.
Unica rappresentazione di Giosafat Barbaro, in un codice mentre fa l’elemosina a un mendicante.

Giosafat Barbaro (Venezia, 1413 – Venezia, 1494) fu un diplomatico, esploratore, politico e mercante di schiavi veneziano. Apparteneva alla nobile famiglia dei Barbaro. Entrò nel senato veneziano nel 1431 e nel 1434 sposò Nona Duodo, figlia di Arsenio Duodo.
Viaggiò moltissimo in Oriente e si recò a Tana per commerciare e tornando a Venezia nel 1452, attraversando Russia, Polonia e Germania. Nel 1455 Barbaro liberò un paio di Tartari che aveva trovato a Venezia, li ospitò per due mesi e poi li rimandò a Tana.

Possedimenti veneziani in Oriente
Possedimenti veneziani in Oriente

Nel 1487 scrisse una relazione dei suoi viaggi, intitolata “Fiaggi falti da Fenezia alla Tana in Persi”, fu pubblicata per la la prima volta nel 1543 dai figli di Aldo Manuzio. Vi è incluso il raccolta di Viaggi di Giovanne Baptista Ramusio (1559) col titolo di Viaggio a Tana, Persia, India e Costantinopoli. William Thomas tradusse l’opera in inglese per il giovane re Edoardo VI dandogli il titolo di Travels to Tana and Persia includendo il racconto del compagno ambasciatore di Barbaro in Persia, Ambrogio Contarini. L’opera fu ripubblicata a Londra nel 1873 dalla Hakluyt Society.

Nel 1583 il racconto di Barbaro fu pubblicato da Filippo Giunti nel libro Delle Navigationi Et Viaggi assieme a quello di Marco Polo ed a quello di Kirakos Gandzaketsi relativo ai viaggi di Aitone I d’Armenia. Nel 1601 i racconti di Barbaro e Contarini furono inseriti nel Rerum Persicarum Historia di Pietro Bizzarri con i racconti di Filippo Buonaccorsi, Jacob Geuder von Heroldsberg, Giovanni Tommaso Minadoi e Henricus Porsius, pubblicato a Francoforte. Nel 2005 il racconto di Barbaro fu pubblicato anche in turco col titolo di Anadolu’ya ve İran’a seyahat.
Il racconto di Barbaro dimostra abilità nell’osservazione di luoghi stranieri e nella loro descrizione. Molte delle informazioni di Barbaro sul Khanato dell’Orda d’Oro, Persia, e sulla Georgia non si trovano in nessun’altra fonte.
I dispacci di Giosafat Barbaro al senato veneziano furono raccolti da Enrico Cornet e pubblicati col titolo di Lettere al Senato Veneto nel 1852 a Vienna.

Ecco il testo:

 

Di Messer Iosafa Barbaro, gentiluomo veneziano, Il viaggio della Tana e nella Persia.
La terra (secondo quello che con evidentissime dimostrazioni provano li geometri) in comparazione del firmamento è tanto picciola quanto un punto fatto nel mezo della circonferenzia d’un circolo; della quale, per esser una buona parte, secondo l’opinione d’alcuni, over coperta da acque over intemperata per troppo freddo o caldo, quella parte che s’abita è ancora molto minore. Nondimeno tanta è la picciolezza degli uomini, che pochi si truovano che n’abbiano veduto qualche buona particella, e niuno (se non m’inganno) è, il quale l’abbia veduta tutta. E quelli che n’hanno veduto pur qualche particella al tempo nostro, per la maggior parte sono mercanti, overo uomini dati alla marinarezza, ne’ quali due esercizii, dal principio suo per insino al dì presente, tanto i miei padri e signori veneziani sono stati eccellenti, che credo con verità poter dire che in questa cosa soprastiano agli altri. Imperoché, dopo che l’imperio romano non signoreggia per tutto come una volta fece, e che la diversità de’ linguaggi, costumi e religioni hanno come a dir passato e rinchiuso questo mondo inferiore, grandissima parte di questa poca la qual è abitabile saria incognita, se la mercanzia e marinarezza per quanto è stato il poter de’ Veneziani non l’avesse aperta. Tra li quali, s’alcuno è al dì d’oggi che s’abbia affaticato di vederne qualche parte, credo poter dir con verità d’esser io uno di quelli, conciosiaché quasi tutt’il tempo della gioventù mia e buona parte della vecchiezza abbia consumata in luoghi lontani, in genti barbare, fra uomini alieni in tutto dalla civiltà e costumi nostri, tra li quali ho provato e veduto molte cose che, per non esser usitate di qua, a quelli che l’udiranno, i quali, per modo di dire, non furono mai fuori di Venezia, forse parranno bugie. E questa è stata principalmente la cagione per la quale non m’ho mai troppo curato né di scriver quello che ho veduto, né eziandio di parlarne molto.

Ma, essendo al presente astretto da preghiere di chi mi può comandare, e avendo inteso che molto più cose di queste, che paiono incredibili, si truovano scritte in Plinio, in Solino, in Pomponio Mella, in Strabone, in Erodoto, e in altri moderni, com’è Marco Polo, Nicolò Conte, nostri Veneziani, e in altri novissimi, com’è Pietro Quirini, Alvise da Mosto e Ambrosio Contarini, non ho potuto far di meno che ancora io non scriva quello che ho veduto, prima ad onor del Signor Iddio, il quale m’ha scampato da infiniti pericoli; poi a contento di colui che m’ha astretto, e a utile in qualche parte di quelli che verranno dopo noi, specialmente se averanno d’andar peregrinando dove io sono stato; a consolazione di chi si diletterà di legger cose nuove, ed eziandio per giovamento della nostra terra, se per l’avvenire avrà di bisogno di mandar qualche uno in quei paesi. Onde io dividerò il parlar mio in due parti: nella prima narrerò il viaggio mio della Tana, nella seconda quello di Persia, non mettendo però né nell’uno né nell’altro a una gran giunta le fatiche, li pericoli e i disagi i quali mi sono occorsi.

[Viaggio nella Tana]
>Capitolo 1
Del fiume Erdil, altramente detto la Volga; i confini della Tartaria; de’ fiumi Elice e Danubio; d’Alania provincia, e perché sia così detta; costume de’ Tartari circa le lor sepolture; del monte Contebbe; di Derbent città. Come l’auttore, intendendo che nel monte predetto era nascosto un tesoro, andò con alcuni mercanti e gran numero d’uomini a cavar in detto monte, e le cose maravigliose che vi trovarono.

Del 1436 cominciai andar al viaggio della Tana, dove a parte a parte sono stato per spazio d’anni 16, e ho circondato quelle parti, così per mare come per terra, con diligenza e quasi curiosità. La pianura di Tartaria, a uno che fusse in mezo di quella, ha dalla parte di levante il fiume d’Erdil, altramente detto la Volga; dalla parte di ponente e maestro la Polonia; dalla parte di tramontana la Rossia; dalla parte d’ostro, la qual guarda verso il mar Maggiore, l’Alania, Cumania, Gazaria: i quali luoghi tutti confinano sul mar delle Zabache, ch’è la palude Meotide, e conseguentemente è posta tra li sopradetti confini. E acciò che io sia meglio inteso, io anderò discorrendo in parte del mar Maggiore per riviera, e in parte infra terra, fin ad un fiume domandato Elice, il qual è appresso Capha circa 40 miglia; passato il qual fiume si va verso Moncastro, dove si truova il Danubio, fiume nominatissimo: e di qui avanti non dirò cosa alcuna, per esser luoghi assai più domestici. La Alania è derivata da’ popoli detti Alani, li quali nella lor lingua si chiamano As: questi erano cristiani, e furon scacciati e distrutti da’ Tartari. La regione è per monti, rive e piani, dove si truovano molti monticelli fatti a mano, li quali sono in segno di sepolture, e ciascun di loro ha un sasso in cima grande con certo buso, nel quale mettono una croce d’un pezzo fatta d’un altro sasso. E di questi monticelli ce ne sono innumerabili, in uno de’ quali intendevamo esser ascoso grande tesoro, conciosiaché, nel tempo che messer Pietro Lando era consolo alla Tana, venne uno dal Cairo, nominato Gulbedin, e disse come, essendo al Cairo, avea inteso da una femina tartara che in uno di questi monticelli, chiamato Contebbe, era stato nascosto per questi Alani un gran tesoro; la qual femina eziandio gli aveva dati certi segnali, così del monte come del terreno. Questo Gulbedin si mise a cavare in questo monticello, facendo alcuni pozzi ora in un luogo e ora in un altro, e così perseverò per anni due e poi morì: onde fu concluso che per impotenzia esso non avesse potuto trovar quel tesoro.

Per la qual cosa del 1437, trovandoci la notte di s. Caterina nella Tana sette di noi mercanti in casa di Bartolomeo Rosso, cittadin di Venezia: cioè Francesco Cornaro (che fu fratello di Iacomo Cornaro dal Banco), Caterin Contarini (il quale dopo usò in Constantinopoli), Giovanni Barbarigo fu d’Andrea di Candia, Giovanni da Valle (il qual morì patron d’una fusta nel lago di Garda, ma prima, insieme con alcuni altri Veneziani, nel 1428 andò in Derbent, città sopra il mar Caspio, e fece una fusta, con consentimento di quel signore, e invitato da lui depredò di quei navilii i quali venivano da Strava, che fu quasi cosa mirabile, la qual lascierò per adesso), Moisè Bon d’Alessandro dalla Giudecca, Bartolomeo Rosso e io, con santa Caterina, la qual metto per l’ottava nelle nostre stipulazioni e patti; trovandoci dico nella Tana noi sette mercanti, in casa di detto Bartolomeo Rosso, nella notte di s. Caterina, tre de’ quali erano stati avanti di noi in quelle parti, e ragionando insieme di questo tesoro, finalmente ci accordammo e facemmo una scrittura (la qual fu di mano di Caterin Contarini, la copia della quale per insino al presente ho appresso di me) d’andar a cavare in questo monte. E trovammo 120 uomini da menare con noi a questo esercizio, a ciascuno de’ quali davamo tre ducati il mese per il meno.

E circa 8 giorni dopo noi sette, insieme con li 120 condotti, partimmo dalla Tana con la robba, vittuarie e instromenti, i quali portammo su quei zenà che s’usano in Rossia; e andammo sul ghiaccio per la fiumara della Tana, e il dì seguente giugnemmo lì, perch’è sul fiume, ed è circa sessanta miglia lontano dalla terra della Tana. Questo monticello è alto da cinquanta passa e di sopra è piano, nel quale ha un altro monticello simile ad una berretta tonda con una piega a torno, sì che due uomini sariano andati un appresso l’altro su per quel margine: e questo secondo monticello era alto 12 passa, e di sotto era di forma circolare come se fusse stato fatto a compasso, e occupava in diametro 8 passa. Principiammo a tagliare e cavare sul piano di questo monticello maggiore, il qual è principio del monticello minore, con intenzione d’entrar dentro da basso fino in cima, e di fare una strada larga e d’andar di longo. Nel principio del romper il terreno, quell’era sì duro e agghiacciato che né con zappe né con manare lo potevano rompere; pur, entrati che fussimo un poco sotto, trovammo il terreno tenero, e fu lavorato per quel giorno assai bene. La mattina seguente, ritornando a l’opera, trovammo il terreno agghiacciato e più duro che prima, in modo che ne fu forza per allora abbandonar l’impresa e ritornar alla Tana, con proposito però e ferma deliberazione di ritornarvi a tempo nuovo.

Circa l’uscita di marzo ritornammo con barche e navilii, con uomini da 150, e demmo principio a cavare: e in 22 giorni facemmo una tagliata di circa passi 60, larga passi 8 e alta da passa 10. Udirete qui gran maraviglia, e cose per modo di dire incredibili. Trovammo quello n’era stato predetto che trovaremmo, per il che ne facevamo più certi di quello che n’era stato detto, in modo che, per la speranza di ritrovare questo tesoro, noi, i quali pagavamo, portavamo meglio la zivera di quel che facevano gli altri, e io era il maestro di far le zivere. La maraviglia grande ch’avessimo fu che prima di sopra il terreno era negro per l’erbe, dopo erano li carboni per tutto: e questo è possibile, conciosiach’avendo appresso boschi di salci, potevano far fuoco su tutt’il monte. Dopo v’era cenere per una spanna, e questo ancora è possibile, conciosiach’avendo vicino il canneto e potendo far fuoco di canne, potevano aver cenere. Dopo v’erano scorze di miglio per un’altra spanna, e (perché a questo si potria dire che mangiavano paniccio fatto di miglio, e aveano serbati li scorzi da mettere in quel luogo) vorrei sapere quanto miglio bisognava ch’avessero a voler compire tanta larghezza quanta era quella del monticello di scorzi di miglio, alta una spanna. Dopo v’erano squame di pesci, cioè di raine e altri simili, per un’altra spanna, e (perché si potria dire che in quel fiume si truovano raine e pesci assai, delle squame de’ quali si poteva coprire il monte) io lascio considerare a quelli che leggeranno quanto questa cosa sia o possibile o verisimile: certo è ch’è vera. Onde considero che colui il qual fece fare questa sepoltura, che si chiamava Indiabu, volendo far queste tante cerimonie, le quali forse s’usavano a quei tempi, bisognò che si pensasse molto avanti, e che facesse ricogliere e riponere tutte queste cose.

Avendo fatta questa tagliata e non trovando il tesoro, deliberammo di fare due fosse intra il monticello massiccio, le quali fussero 4 passa per largo e per alto: e facendo questo trovammo un terreno bianco e duro in tanto che facemmo scalini in esso, su per i quali portavamo le zivere. Andando sotto circa cinque passa, trovammo in quel basso alcuni vasi di pietra, in alcuni de’ quali era cenere e in alcuni carboni; alcuni erano vacui, e alcuni pieni d’ossi di pesce de la schena. Trovammo etiam da 5 o 6 paternostri grandi come naranzi, i quali erano di terra cotta invetriata, simili a quelli che si fanno nella Marca, i quali si mettono alle tratte. Trovammo ancora un mezo manico d’un ramino d’argento picciolino, ch’avea di sopra a modo d’una testa di biscia. Venuta la settimana santa, cominciò a soffiare un vento da levante, con tanta furia che levava il terreno e le zoppe ch’erano state cavate e quelle pietre, e gittavale nel volto delli operarii, con effusione di sangue: per la qual cosa noi deliberammo di levarci e di non far più altra esperienza, e questo fu il lunedì di Pasqua.

Il luogo per avanti si chiamava le cave di Gulbedin, e, dopo che noi cavammo, è stato chiamato per sino a questo giorno la cava de’ Franchi, imperoch’è tanto grande il lavoro che facemmo in pochi giorni, che si potria credere che non fusse stato fatto in quel poco tempo da manco d’un migliaio d’uomini. Non avemmo altra certezza di quel tesoro, ma (per quanto intendemmo) se tesoro era lì, la cagione che ‘l fece metter lì sotto fu perché il detto Indiabu, signore di questi Alani, intese che l’imperatore de’ Tartari gli veniva incontra, e, deliberando di sepelirlo, acciò che niuno se n’accorgesse, finse di far la sua sepoltura secondo il loro costume, e secretamente fece mettere in quel luogo prima quello che a lui pareva, e poi fece fare quel monticello.

Capitolo 2
La fede de’ macomettani, onde avesse l’origine: come i Tartari furono astretti alla fede macomettana. Come Naurus, capitano d’Ulumahemet imperator de’ Tartari, venuto in divisione andò contra esso imperatore. Il modo di mandar avanti le scolte, e costume di presentar li signori.

La fede di Macometto principiò ne’ Tartari ordinariamente, mo sono anni circa 110: vero è che per avanti pur alcuni di loro erano macomettani, ma ognuno era in libertà di tener quella fede che gli piaceva, onde alcuni adoravano statue di legno e di pezze, e queste portavano sopra li carri. Il stringer della fede macomettana fu nel tempo di Hedighi, capitano della gente dell’imperator tartaro chiamato Sidahameth Can: questo Hedighi fu padre di Naurus, del quale ne parlaremo al presente. Signoreggiava nelle campagne della Tartaria del 1438 un imperatore nominato Ulumahemet Can, cioè gran Macometto imperatore, e aveva signoreggiato più anni. Trovandosi costui nelle campagne che sono verso la Rossia col suo lordo, cioè popolo, aveva per capitano questo Naurus, il quale fu figliuolo di Hedighi, dal quale fu astretta la Tartaria alla fede macomettana. Accadé certa divisione tra esso Naurus e il suo imperatore, onde si partì dall’imperatore con le genti che lo volsero seguitare e andò verso il fiume d’Erdil, dov’era uno Chezimahameth, ch’è dir Macometto picciolo, il qual era di sangue di questi imperatori. E, communicato così il consiglio come le forze, deliberarono ambidue d’andar contra questo Ulumahemet, e fecero la via appresso Citrachan e vennero per le campagne di Tumen; e venendo intorno appresso la Circassia, aviossi alla via del fiume della Tana e al colfo del mare delle Zabache, il quale insieme col fiume della Tana era agghiacciato. E, per esser popolo assai e animali innumerabili, fu bisogno ch’andassero larghi, acciò che quelli ch’andavano avanti non mangiassero lo strame e altri rinfrescamenti di quelli che venivano dietro. Onde un capo di queste genti e animali toccò un luogo chiamato Palastra, e l’altro capo toccò il fiume della Tana nel luogo chiamato Bosagaz, che viene a dire legno berrettin: la distanzia da uno di questi luoghi all’altro è di miglia 120, e tra questa distanzia camminava detto popolo, quantunque tutto non fusse atto al cammino.

Quattro mesi avanti che venissero verso la Tana noi l’intendemmo, ma un mese avanti che venisse questo signore cominciarono a venir verso la Tana alcune scolte, le quali erano di giovani tre o quattro a cavallo, con un cavallo a mano per uno: quelli di loro che venivano nella Tana erano chiamati avanti il consolo, e gli erano fatte carezze e offerte. Domandati dove andavano e quello ch’andavano facendo, dicevano ch’erano giovani ch’andavano a solazzo: altro non se gli poteva trar di bocca, e stavano al più una o due ore e poi andavano via. E ogni giorno era questo medesimo, salvo che sempre n’era qualcuno più per numero. Ma, come il signore fu approssimato alla Tana per cinque o sei giornate, cominciorno a venire da 25 in 50, con le sue arme ben in ordine, e avvicinandosi ancor più, a centinaia. Venne poi il signore, e alloggiò appresso alla Tana per un trar d’arco, dentro una moschea antica. Incontinente il consolo deliberò di mandargli presenti, e mandò una novenna a lui, una alla madre e una a Naurus, capitano dell’esercito. Novenna si chiama un presente di nove cose diverse, come saria a dir panno di seta, scarlatto e altre cose insino al numero di nove: e così è costume di presentare a’ signori di quel luogo. Volse ch’io fussi quello ch’andasse co’ presenti, e gli fu portato pane, vino di mele, bosa (ch’è cervosa) e altre cose per insino a nove. Entrati nella moschea, trovammo il signore disteso su un tapeto, appoggiato a Naurus capitano: egli era da 22 e Naurus da 25 anni. Presentati che gli ebbe, gli raccomandai la terra insieme col popolo, il quale dissi ch’era in sua libertà. Risposemi con umanissime parole. Dopo, guardando verso di noi, incominciò a ridere e a sbatter le mani l’una nell’altra, e dire: “Guarda che terra è questa, dove tre uomini non hanno più di tre occhi”. E questo era vero, conciosiaché Buran Taiapietra, nostro turcimano, aveva un occhio solo; un Giovanne greco, bastoniero del consolo, uno solo; e colui che portava il vino di mele similmente un solo. Tolta licenza da lui, tornammo alla terra.

Capitolo 3
Il modo che tengono le scolte nel vivere; della grand’abbondanza delle vettovaglie che conducono in campo; in qual maniera cammina l’esercito de’ Tartari. Degli uccelli chiamati gallinaccie.

Se fusse in questo luogo alcuno al quale paresse manco che ragionevole che dette scolte andassero a quattro, a dieci, a venti e trenta per quelle pianure, stando lontani da’ suoi popoli le belle dieci, sedici e venti giornate, e domandasse di che possono vivere, io gli rispondo che ciascuno di questi, il qual si parte dal suo popolo, porta un utricello di pelle di capretto pieno di farina di miglio macinata e impastata con un poco di mele, e hanno qualche scodella di legno; e qualche volta pigliano qualche salvaticina, ch’assai ne sono per quelle campagne ed essi le sanno ben pigliare, massimamente con gli archi: tolgono di questa farina, e con un poco d’acqua fanno certa pozione, e con quella si passano. E quando a qualche uno ho domandato quel che mangiano in campagna, all’incontro essi mi rispondono: “E che si muore per non mangiare?”, quasi che dica: “Abbia pur tanto che si passi la vita leggiermente, non mi curo d’altro”. Scorrono con erbe e radici e con quel che possono, pur che non gli manchi il sale: se non hanno sale la bocca se gli vessica e marcisce, in tanto che da quel male alcuni se ne muoiono; viengli eziandio flusso di ventre.

Ma ritorniamo là dove lasciammo il parlar nostro. Partito che fu questo signore, incominciò a venire il popolo con gli animali: e furono prima mandre di cavalli, a sessanta, cento, dugento e più per mandra; poi furono mandre di cameli e buoi; e dietro a queste, mandre d’animali minuti. E durò questa cosa da giorni sei, che tutt’il giorno, quanto potevamo guardare con gli occhi, da ogni canto la campagna era piena di gente e d’animali ch’andavano e venivano: e questa era solamente nelle teste, onde si può considerar quanto maggior sia stato il numero di mezo. Noi stavamo su le mura (conciosiaché tenevamo serrate le porte), e la sera eravamo stanchi di guardare, imperoché, per la moltitudine di questi popoli e bestiame, il diametro della pianura che occupavano era al modo d’una paganea di miglia 120. Questa parola è greca, la qual io già, essendo nella Morea in caccia con un signorotto, ch’avea menato seco cento villani, primamente intesi. Ciascuno di loro aveva una mazza in mano, e stavano lontani l’uno dall’altro da dieci passa, e andavano dando di questa mazza in terra e gridando per far saltar fuori le salvaticine; e li cacciatori, chi a cavallo e chi a piedi, con uccelli e cani, si mettevano alle poste dove a lor pareva, e quando era il tempo gettavano i loro uccelli o lasciavano i cani: e l’andare a questo modo chiamavano una paganea. In questa maniera, com’ho detto, camminava questo infinito popolo de’ Tartari. E fra gli altri animali che questo popolo così andando cacciava, erano pernici e alcuni altri uccelli che noi chiamiamo gallinaccie, i quali hanno la coda corta a modo di gallina, e stanno con la testa dritta come galli, e sono grandi quasi come pavoni, i quali simigliano eziandio nel colore, non intendendo della coda: onde (per esser la Tana fra monticelli di terreno e fosse assai, per spazio di dieci miglia intorno, dove già fu la Tana antica) maggior numero del consueto si venne ascondere fra detti monticelli e valli non frequentate. Una cosa è, che atorno le mura della Tana e dentro a’ fossi erano tante pernici e gallinaccie che pareva che tutti detti luoghi fossero cortivi di qualche buoni massari. Li putti della terra ne pigliavano qualcuna e davanle due per un aspro, che vien l’una otto baggattini nostri.

Capitolo 4
In che modo un frate di San Francesco pigliava grandissima quantità di gallinaccie. Del gran numero di gente ch’era nell’esercito de’ Tartari. Della maniera de’ carri e delle case di quelle genti, e come si fabrichino.

Ritrovandosi a quel tempo nella Tana un frate Therino dell’ordine di S. Francesco, con un rizaglio, facendo di due cerchi piccioli un grande, e ficcando un palo alquanto storto in terra fuor delle mura, ne pigliava dieci e venti al tratto: e vendendole trovò tanti denari che di quelli comprò un garzon circasso, al quale pose nome Pernice e fecelo frate. La notte ancora nella terra si lasciavano le finestre aperte con qualche lume dentro, e alcuna volta ne venivano per sino in casa. Di cervi e altre salvaticine si può considerare quanto era il numero, ma queste non venivano appresso alla Tana.

Dalla pianura ch’occupava questa gente si potria far una descrizione del numero di grosso quanti ch’erano: che, a un luogo detto Bosagaz, dov’era una mia peschiera, dopo andato giù il ghiaccio andando con una barca (il qual luogo era lontano dalla Tana circa 40 miglia), ritrovai li pescatori, li quali dissero aver pescato l’invernata e aver salate di molte morone e caviari, e ch’alcuni di questo popolo erano stati lì e avevano tolto tutti li pesci, salati e non salati (de’ quali alcuni erano che tra noi non si mangiano), per insino alle teste, e tutti li caviari e tutto il sale, il qual è grosso come quello da Gieviza, in modo che per maraviglia non s’aveva potuto ritrovare un grano di sale; delle botti etiam aveano tolte le doghe, forse per acconciar li suoi carri; oltre di questo tre macinette ch’erano lì da macinar sale, ch’aveano un ferretto in mezo, ruppero per torre quel poco di ferro. Quello che fu fatto a me fu fatto da per tutto ad ognuno, in tanto che a Giovanni da Valle (il qual ancora aveva una peschiera, e intendendo la venuta di questo signore aveva fatto fare una gran fossa, e messo da circa trenta carratelli di caviaro in essa, e l’avea coperta di terreno, sopra il quale poi, aciò che non se n’avvedessero, aveva fatto arder legne) trovarono le scosagne e non gli lasciarono cosa alcuna. In questo popolo sono innumerabili carri da due rote, più alte delle nostre, li quali sono affelciati di stuore di canne, e parte coperti con feltre, parte con panni, quando sono di persone da conto. Alcuni de’ quali carri hanno le sue case suso, le quali essi fanno in questo modo: pigliano un cerchio di legno, il diametro del quale sia un passo e mezo, e sopra questo drizzan altri semicirculi, i quali nel mezo s’intersecano; tra questi poi mettono le loro stuore di canna, le quali cuoprono o di feltro o di panni, secondo la lor condizione. E quando vogliono alloggiare, mettono queste case giù de’ carri e in esse albergano.

Capitolo 5
Come un Edelmulgh, cognato del signore, avuta licenza entrò nella città e alloggiò in casa di messer Iosafa Barbaro, e, fatta amicizia tra loro, esso messer Iosafa andò con lui al signore, e quello che gl’intravenne fra via. Il modo ch’osserva quella gente quando va al signore per aver udienza.

Due giorni dopo, partito questo signore, vennero a me alcuni di quei della Tana e mi dissero ch’io andassi alle mura, dov’era un Tartaro il quale mi volea parlare: andai, e mi fu detto da colui come lì da presso si ritrovava un Edelmulgh, cognato del signore, il quale volentieri (piacendo così a me) entraria nella terra e si faria mio conaco, cioè ospite. Domandai licenza al consolo, e ottenuta che l’ebbi andai alla porta e tolsilo dentro con tre de’ suoi, imperoché ancora si tenevano chiuse le porte. Lo menai a casa e fecigli onore assai, specialmente di vino, che molto gli piaceva: e in poche parole stette due giorni con me. Costui, volendo partire, mi disse volere ch’io andassi con lui, e ch’era fatto mio fratello, e che là dov’egli era io potevo ben andar sicuro; disse pur qualcosa a’ mercanti, de’ quali niuno era che non si maravigliasse. Deliberai d’andar con lui, e tolsi due Tartari con me di quelli della terra a piedi, e io montai a cavallo. Uscimmo della terra a tre ore di giorno: egli era imbriaco marcissimo, imperoch’avea bevuto tanto che gettava sangue pel naso, e quando io gli diceva che non bevesse tanto faceva certi gesti da simia, dicendo: “Lasciami bere, dove ne troverò io più?” Dismontati adunque su nel ghiaccio per passare il fiume Tanais, io mi sforzava d’andar dov’era la neve, ma esso, il qual era vinto dal vino, andando dove il cavallo lo menava capitò in luogo senza neve, dove il cavallo non poteva stare in piedi, imperoché i lor cavalli non hanno ferri, onde cascò; ed esso gli dava con la scoriata (perché non portano sproni), e il cavallo ora levava e ora cascava: e durò questa cosa forse per un terzo d’ora. Finalmente, passato il fiume, andammo all’altro ramo, e passammo ancor quello con gran fatica, per quell’istessa ragione. Ed essendo lui stanco, si pose a certo popolo che già s’era messo ad alloggiare, e lì albergammo per quella notte, forniti d’ogni disagio, come si può pensare.

La mattina seguente cominciammo a cavalcare, ma non con quella gagliardezza ch’avevamo fatto il giorno avanti. E passato ch’avemmo un altro ramo di questo fiume, camminando sempre alla via ch’andava il popolo, il quale era per tutto come formiche, cavalcato ch’avemmo ancora due giornate, ci approssimassimo al luogo dov’era il signore: e quivi gli fu fatto da ognuno molto onore e datogli di quel che v’era, come carne, paniccio e latte e altre cose simili, in modo che non ci mancava cosa alcuna. Il giorno seguente, desiderando di vedere come cavalcava questo popolo e che ordine teneva nelle sue cose, viddi tante e tanto mirabil cose che reputo che, volendo scrivere di passo in passo quello ch’io potria, farei un gran volume. Giugnemmo dov’era l’alloggiamento di questo signore, il quale trovai sotto un padiglione, e d’ogn’intorno genti innumerabili, delle quali quelli che volevano audienzia erano inginocchioni, tutti separati l’uno dall’altro, e mettevano l’arme sue lontane dal signore un tratto di pietra: a qualcuno de’ quali il signore parlava, e domandando quel ch’esso voleva, tuttavia gli faceva atto con la mano che si levasse; levavasi e veniva più avanti, lontano però da lui per otto passa, e di nuovo s’inginocchiava e domandava quello che a lui piaceva. E così si faceva per insino che si dava audienzia.

Capitolo 6
In che modo si faccia ragione nel campo. Gli uomini da fatti come s’espongano a’ pericoli. Come quarantacinque Tartari andarono ad assalir cento cavalli de’ Circassi, ch’erano nascosi in un bosco per far correrie, e molti di quelli ammazzarono e gran parte ne presero.

La ragione si fa per tutt’il campo alla sproveduta, e fassi a questo modo. Quando un ha da fare con un altro di qualche differenza, altercandosi con esso di parole, non però al modo che fanno questi di qua ma con poca ingiuria, si levano ambidui, e, se più fussero, tutti; e vanno a una via dove meglio gli pare, e al primo che truovano il quale sia di qualche condizione dicono: “Signore, fanne ragione, perché siamo differenti”; ed egli subito si ferma e ode quello che dicono, e poi delibera quello gli pare senz’altra scrittura, e di quello che ha deliberato niuno parla. Concorrono a queste cose molte persone, alle quali, fatta la deliberazione, esso dice: “Voi sarete testimonii”. Di simili giudicii tutt’il campo continuamente è pieno. E se qualche differenza gli occorresse in via, osservano quest’istesso, togliendo per giudice quello che scontrano, facendolo giudicare.

Viddi un giorno, essendo in questo lordo, una scodella di legno roversciata in terra, e andai là, e levandola trovai che sotto v’era paniccio cotto. Mi voltai verso un Tartaro e gli domandai: “Che cosa è questa?” Mi rispose esser messa per hibuthperes, cioè per gli idolatri. Domandai: “E come, sonvi idolatri in questo popolo?” Rispose: “O, o, ne sono assai, ma sono occulti”.

Principierò dal numero del popolo, e dirò d’aviso, imperoché numerarli non era possibile, esplicando nondimeno manco di quello ch’io stimo. Credo e fermamente tengo che fussero anime trecentomila in tutt’il lordo, quando è congiunto in un pezzo: questo dico perché parte del lordo avea Ulumahemeth, com’abbiamo detto di sopra. Gli uomini da fatti sono valentissimi e animosissimi, in tanto ch’alcun di loro per eccellenzia è chiamato talubagater, che vuol dire matto valente: il qual nome gli accresce tra ‘l vulgo come appresso di noi savio over il bello, onde si dice Pietro tale il savio e Paulo tale il bello. Hanno questi tali una preminenzia, che tutte le cose che fanno, ancora che in qualche parte siano fuori di ragione, si dicono esser fatte bene, che, derivando da prodezza, a tutti par che facciano il suo mestiero. E di questi molti ve ne sono (se sono in fatti d’arme) che non stimano la vita, non temono pericolo, si cacciano avanti e s’espongono ad ogni rischio senza ragione alcuna, di modo che li timidi pigliano animo e diventano valentissimi. A me par questo lor cognome esserli molto proprio, perché non veggio che possa esser alcuno valent’uomo se non è pazzo. Non è, per la fede vostra, pazzia, ch’uno voglia combattere contra quattro? Non è pazzia ch’uno con un coltello sia disposto di combattere contra più, i quali abbiano spade?

Dirò a questo proposito quello ch’una volta m’intravenne, essendo alla Tana. Stando io un giorno in piazza, vennero alcuni Tartari nella terra e dissero che in un boschetto lontano circa tre miglia erano ascosti da cento cavalli di Circassi, i quali aveano deliberato di fare una correria per insino alla terra, secondo il lor costume. Io sedeva a caso nella bottega d’un maestro di freccie, nella quale era anche un Tartaro mercante, ch’era venuto lì con semenzina. Costui, inteso ch’ebbe questo, si levò e disse: “Perché non andiamo noi a pigliarli? Quanti cavalli sono?” Gli risposi: “Cento”. “Or ben, – diss’egli, – noi siamo cinque, voi quanti cavalli sarete?” Risposi: “Quaranta”. Ed egli: “I Circassi non sono uomini ma femine; andiamo a pigliarli”. Udito che io ebbi questo, andai a ritrovar Francesco da Valle, e gli dissi quello che costui m’aveva detto, tuttavia ridendo. Mi domandò se mi bastava l’animo d’andare; gli risposi di sì: onde ci mettemmo a cavallo, e per acqua ordinammo ch’alcuni nostri uomini venissero, e sul mezogiorno assaltammo questi Circassi, li quali stavano all’ombra, alcuni de’ quali dormivano. Volse la mala ventura che, un poco avanti che noi giugnessimo lì, il trombetta nostro sonò, per la qual cosa molti ebbero tempo di scampare; nondimeno, fra morti e presi, n’avemmo circa quaranta. Ma il bello fu, al proposito de’ matti valenti, che questo Tartaro, il quale voleva che gli andassimo a pigliare, non rimase alla preda, ma solo si mise a correr dietro a quelli che fuggivano. E gridandogli noi: “Ma he, torna, ma he, torna”, ritornò circa un’ora dopo; e giunto si lamentava e diceva: “Ohimè, che non n’ho potuto pigliare alcuno”, dolendosi molto forte. Considerate che pazzia era quella di costui, che se quattro di loro se gli fussero rivoltati l’averiano sminuzato; e di più, riprendendolo noi, se ne faceva beffe. Le scolte delle quali ho fatto menzione di sopra, che vennero avanti il campo alla Tana, così andavano avanti questo campo in otto parti diverse, per saper quello che da ogni lato gli avesse potuto nuocere, lontan molte giornate, secondo il bisogno del campo.

Capitolo 7
Delle uccellagioni e cacciagioni de’ Tartari; della gran moltitudine d’animali ch’appresso di loro si truovano, massime cavalli, buoi, cameli da due gobbe e altri.

Alloggiato ch’è il signore, subito mettono giù li bazzari e lasciano le strade larghe: s’è di verno, tanti sono i piedi degli animali che fanno grandissimo fango; s’egli è di state, fanno grandissima polvere. Fanno di subito (messo ch’hanno giù li bazzari) li lor fornelli, e arrostono e lessano la carne, e fanno i lor sapori di latte, di buttiro e di cacio. Hanno sempre qualche salvaticine, e massimamente cervi. Sono in quell’esercito artegiani di drappi, fabri, maestri d’arme e d’altre cose e mestieri che gli bisogna. E s’alcuno mi dicesse: “Come, vanno costoro come zingani?”, rispondo di no, conciosiach’eccetto il non esser circondati di mura tali alloggiamenti paiono grossissime e bellissime città. Ritrovandomi, a questo proposito, un giorno alla Tana, sopra la porta della quale era una torre assai bella, ed essendo appresso di me un Tartaro mercante il quale guardava la torre, gli domandai: “Ti pare una bella cosa questa?” Ed egli, guardandomi e sorridendo, disse: “Poh, ch’ha paura fa torre”. E in questo mi pare che dicano il vero.

Ma perché ho detto de’ mercanti, tornando al fatto nostro di quest’esercito, dico che sempre in esso si ritrovano mercanti che vi portano robbe per diverse vie, e ancora di quelli che passano pel lordo con intenzione d’andare in altro luogo. Questi Tartari sono buoni strozzieri, hanno girifalchi assai, uccellano a camelioni (che da noi non s’usano), vanno a cervi e ad altri animali grossi. Portano li detti girifalchi in una mano, sul pugno, e nell’altra hanno una crozzola, e quando sono stanchi mettono la crozzola sotto la mano, imperoché sono due tanto più grossi che non è un’aquila. Alle volte passa qualche stormo d’oche sopra quest’esercito, e quelli del campo tirano alcune freccie grosse un dito, storte e senza penne, le quali, come sono andate in aria tant’alto quanto la forza del braccio ha potuto, si voltano e vanno in traverso, scavezzando dove giungono e collo e gambe e ali. Tal volta pare che di queste oche ne sia pieno l’aere, le quali, per il gridar del popolo, si storniscono e cascano giù.

Dirò (poi che siamo in parlar d’uccelli) una cosa, la quale mi par notabile. Cavalcando per questo lordo, sopra una riva d’un fiumicello ritrovai uno, il quale mostrava esser uomo di conto, che stava a parlare co’ suoi famigli. Costui mi chiamò e fecemi dismontare avanti di sé, domandandomi quello ch’io andava facendo. E rispondendogli io al bisogno, mi voltai e viddi appresso di lui quattro over cinque di quell’erbe che noi chiamiamo garzi, sopra le quali eran alcuni cardellini. E comandò a uno de’ famigli che ne pigliasse uno, il quale tolse due sete di cavallo e fece un laccio e lo messe sui garzi, e ne prese uno e portollo al suo signore. Disse egli: “Va’ cuocilo”, e il famiglio presto lo pelò, e fece un spedo di legno, e arrostitolo glielo portò davanti. Costui lo tolse in mano, e guardandomi disse: “Non sono in luogo ch’io ti possa far onore e cortesia qual tu meriti, ma faremo carità di quello ch’io ho e di quello m’ha dato il nostro Signore Iddio”. E ruppe questo cardellino in tre parti, delle quali una ne diede a me, una mangiò esso, e l’altra, ch’era molto poca, la diede a colui il quale l’avea preso.

Che diremo noi della grande e innumerabile moltitudine d’animali i quali sono in questo lordo? Sarò io creduto? Sia però quel che si voglia, ch’ho deliberato di dirla. E, principiando da’ cavalli, dico che sono alcuni del popolo, mercanti di cavalli, i quali gli cavano dal lordo e gli menan in diversi luoghi: e una caravana, la qual venne in Persia prima ch’io mi partissi di lì, già ne condusse 4000. E non vi maravigliate, perché, se voleste in un giorno in questo lordo comprar mille over duemila cavalli, gli trovareste, perché sono in mandre come le pecore. E andando nella mandra si dice al venditore che si vuol cento cavalli di questi, ed esso ha una mazza con un laccio in capo, ed è tant’atto a quest’esercizio che, tanto tosto che colui che compra gli ha detto: “Pigliami questo, pigliami quello”, gli ha messo il laccio in capo e l’ha tirato fuori degli altri e messo in disparte: e in questo modo ne piglia quanti e quali egli vuole. M’è avvenuto scontrare in viaggio de’ mercanti, i quali menano questi cavalli in tanto numero che cuoprono le campagne, e par cosa mirabile. Il paese non produce cavalli troppo da conto: sono piccioli, hanno la pancia grande, non mangiano biada, e quando che gli conducono in Persia la maggior laude che gli possano dare è che mangiano biada, imperoché, se non ne mangiano, non possono portar la fatica al bisogno. La seconda sorte d’animali ch’hanno sono buoi bellissimi e grandi, in tanto numero che satisfanno eziandio alle beccarie d’Italia: e vengono alla via di Polonia, e di lì per la Valacchia in Transilvania, e poi in Alemagna, dalla qual s’indrizzano in Italia. Portano in quel paese li buoi soma e basti, quando se n’ha di bisogno. La terza sorte d’animali ch’hanno sono cameli da due gobbe per uno, grandi e pelosi, i quali si conducono in Persia e si vendono ducati 25 l’uno, imperoché quelli di levante hanno una gobba sola e sono piccioli, e si vendono ducati dieci l’uno. La quarta sorte d’animali sono castroni grossissimi e alti in gambe, con un pelo longo, i quali hanno code che pesano 12 libre l’una: e tal n’ho veduto che si strascina una ruota dietro tenendo la coda sopra, quando per piacere qualcuno gliela liga. De’ grassi di queste code condiscono tutte le lor vivande e l’usano in luogo di butiro, ma non s’agghiaccia in bocca.

Capitolo 8
Il modo ch’usa l’esercito de’ Tartari circa il seminar le biade, e della fertilità di quei terreni. Come Chezimahumeth, discacciato Ulumahemeth, si fece imperator di quel popolo. In che mirabil modo l’esercito passa il fiume della Tana.

Non so chi sapesse dir quello che di presente dirò, salvo chi l’avesse veduto, imperoché potresti domandare: tanto popolo di che vive? Se cammina ogni giorno, dov’è la biada che mangiano? Dove la truovano? E io che l’ho veduto rispondo che fanno in questo modo. Circa la luna di febraio fanno far gride per tutt’il lordo che ciascuno che vuol seminare si metta in ordine delle cose che gli fa di bisogno, conciosiach’alla luna di marzo s’abbia da seminar nel tal luogo, e che a tal dì della tal luna si metteranno a cammino. Fatto questo, quelli ch’hanno voglia di seminare o far seminare s’apparecchiano e accordansi insieme, e caricano le semenze su carri, e menano gli animali che gli fanno bisogno, insieme con le moglie e figliuoli o parte d’essi, e vanno al luogo deputato, ch’è per la maggior parte due giornate lontano dal luogo dove nel tempo della grida si ritrova il lordo, e quivi arano, seminano, e stanno per fino ch’hanno fornito di far quello che vogliono; poi se ne ritornano nel lordo. L’imperatore col lordo fa come suol far la madre quando manda li figliuoli a spasso, la qual sempre tien loro gli occhi addosso, imperoché va circondando questi seminati, ora in qua e ora in là, non s’allontanando da essi più di quattro giornate, per insino che le biade sono mature. Quando sono mature non va col lordo lì, ma solamente vanno quelli ch’hanno seminato e quelli che vogliono comprare i frumenti, con barri, buoi e cameli e quello di ch’hanno bisogno, come eziandio fanno alle lor ville. I terreni sono fertili: rendono di frumento cinquanta per uno, il quale è grande com’il Padovano; di miglio cento per uno, e alle volte hanno tanta ricolta che la lasciano in campagna.

Dirò in questo luogo a proposito questo: si ritrovò un figliuolo d’Ulumahemet, il quale, avendo signoreggiato alquanti anni e dubitando d’un suo fratel cugino, il qual era di là dal fiume d’Erdil, per non si privar di parte del popolo, la qual averia convenuto stare su le seminagioni con suo espresso pericolo, undici anni continui non volse che si seminasse, e in quel tempo tutti vissero di carne e di latte e d’altre cose, quantunque nel bazzaro fusse qualche poco di farina e di paniccio, ma cari. E domandando io loro come facevano, se ne ridevano, dicendo ch’aveano carne. E nondimeno fu discacciato da quel suo cugino, perciò che il detto Ulumahemeth, sentendo esser arrivato Chezimahumeth ne’ suoi confini, non gli parendo di poter resistere, lasciò il lordo e fuggì co’ figliuoli e altri suoi; e Chezimahumet si fece imperatore di tutto quel popolo, e ritornò verso il fiume della Tana nel mese di giugno, e passò circa due giornate sopra di quella, con tutt’il numero del popolo, di carri, d’animali ch’egli aveva. Cosa mirabile da credere, ma più mirabile da vedere, imperoché tutti passano senza strepito alcuno, con tanta sicurtà quanta s’andassero per terra. Il modo che servano in questo passare è che quei ch’hanno il potere mandano de’ loro avanti, e fanno far zattere di legnami secchi, de’ quali appresso li fiumi ne sono boschi assai; fanno eziandio far fasci di canne e di pavera, e mettono detti fasci sotto le zattere e sotto li carri: e a questo modo passano, tirando li cavalli che nuotano dette zattere e carri, i quali cavalli sono aiutati da alcuni uomini nudi.

Io circa un mese dopo, navigando pel fiume verso certe peschiere, mi scontrai in tante zattere e fascine che venivano a seconda (le quali erano state lasciate da costoro) ch’appena potevamo passare, e viddi oltre di questo per le rive di quei luoghi tant’altre zattere e fascine che mi facevano stupire. Giunti che fussimo alle peschiere, trovammo che in quei luoghi avevano fatto peggio che a quelli de’ quali ho scritto di sopra.

Capitolo 9
Come Edelmug, cognato dell’imperatore, menò un suo figliuolo a messer Iosafa e dettegli quello in figliuolo. Come esso messer Iosafa liberò in Venezia due Tartari ch’erano schiavi, uno de’ quali per longhissimo tempo avanti aveva anco liberato dal fuoco, ritrovandosi allora nella Tana.

In quel tempo (per non mi dimenticar degli amici) Edelmug, cognato dell’imperatore, ritornato per passar il fiume (com’abbiamo detto di sopra), venne alla Tana e menommi un suo figliuolo, e subito m’abbracciò e disse: “Io t’ho portato questo figliuolo, e voglio che sia tuo”. E incontinente trasse di dosso a detto figliuolo uno subbo ch’egli avea e messelo indosso a me, e mi portò a donar otto teste di nazion rossiana, dicendomi: “Questa è la parte della preda ch’io ho avuta in Rossia”. Stette due giorni meco, ed ebbe da me all’incontro presenti convenienti.

Sono alcuni i quali, partendosi da altri con opinion di non ritornar mai più in quelle parti, facilmente si dimenticano delle amicizie, dicendo che mai più non si vederanno insieme, e di qui viene che molte fiate non usano li modi che doveriano usare; i quali certamente, per quell’esperienza ch’io ho, non fanno bene, conciosiaché si soglia dire che monte con monte non si ritrova, ma sì ben uomo con uomo. Accadettemi, nel mio ritornar di Persia insieme con l’ambasciator d’Assambei, voler passare per Tartaria e per Polonia per venire a Venezia, quantunque poi io non facessi questo cammino. Allora avevamo in compagnia nostra molti Tartari mercanti. Domandai quel che fusse di questo Edelmulg: e mi fu detto ch’era morto e ch’avea lasciato un figliuolo, il qual si nominava Hagmeth, e dettemi contrasegni dell’effigie, in modo che, sì pel nome come per l’effigie, conobbi esser quello che il padre m’avea dato per figliuolo. E, come diceano quei Tartari, costui era grande appresso l’imperatore, sì che, se passavamo oltre, senza dubbio capitavamo nelle sue mani: e rendomi certo che da lui avrei avuta ottima compagnia, perché io l’avea fatta al padre e a lui. E chi avria mai stimato che trentacinque anni dopo, in tanta distanzia di paesi, si fussero ritrovati un Tartaro e un Veneziano?

Aggiugnerò questa cosa (quantunque non fusse in quel tempo), perché fa a proposito di quello ch’io ho detto. Del 1455, essendo in un magazino di mercanti da vino in Rialto e scorrendo per quello, viddi dietro alcune botti da un capo due uomini in ferri, i quali alla ciera conobbi ch’erano tartari. Io domandai loro chi fussero: mi risposero essere stati schiavi di Catelani, ed esser fuggiti con una barchetta, e che in mare erano stati presi da quel mercante. Allora io subitamente andai a’ signori di notte e feci querela di questa cosa, onde presto presto mandarono alcuni officiali, i quali gli condussero all’ufficio e in presenza del detto mercante gli liberarono, e condennarono il mercante. Tolsi li detti Tartari e menaimeli a casa, e domandati chi fussero e di che paese, uno di loro mi disse ch’era della Tana e ch’era stato famiglio di Cozadahuth, il quale io conobbi già, perché era commarchier dell’imperatore, il qual faceva scuoter da lui il dazio delle robbe che si conducevano alla Tana. Guardandolo nella faccia mi parve raffigurarlo, perciò ch’era stato assai volte in casa mia. Domandai che nome esso avea: dissemi Chebechzi, che in nostra lingua vuol dire semoliero o burattatore. Lo guardai e dissigli: “Mi conosci tu?” Ed egli: “No”. Ma, tantosto che mentovai la Tana e Iusuph (che così mi chiamavano là in quelle parti), si gittò a’ miei piedi e volsemeli baciare, dicendo: “Tu m’hai due volte scampato la vita: questa n’è una, imperoch’essendo schiavo io mi teneva per morto; l’altra, quando si bruciò la Tana, che facesti quel buso nelle mura pel quale uscirono fuori tante persone, nel cui numero fu mio padrone e io”. Ed è vero, perché, quando fu il detto fuoco alla Tana, io feci un buso nelle mura all’incontro di certo terreno vacuo, dove si vedeano molte brigate insieme, pel quale furono tratte fuori da 40 persone, e fra essi fu costui e Cozadahuth. Tennili ambidui in casa circa due mesi, e al partir delle navi della Tana io gl’inviai a casa loro. Sì che niuno mai debbe, partendosi da altri con opinione di non ritornar mai più in quelle parti, dimenticarsi delle amicizie come che se mai più non s’avessero da vedere insieme: possono accadere mille cose ch’averanno a rivedersi, e forse quello che più può avrà ad aver bisogno di colui che manco puote.

Ritornando alle cose della Tana, scorrerò per ponente e maestro, andando alla riva del mare delle Zabache all’uscir fuori a man manca, e poi qualche parte sul mar Maggiore, per insin alla provincia nominata Mengrelia, prima detta Colcho, poi Lazia Mengrelia.

Capitolo 10
Della regione Cremuch e del signore di quella; del vivere e costume di quelle genti. Di diversi altri paesi. Della provincia Mengrelia; del signor di quella, e della natura di quel paese e degli uomini. Tetari: che cosa significa. Dell’isola di Capha.

Partendomi adunque dalla Tana, circa la riva del detto mare fra terra tre giornate si truova una regione chiamata Cremuch, il signor della quale ha nome Biberdi, che vuol dire Diodato. Costui fu figliuolo di Chertibei, che significa vero signore. Ha molti casali sotto di sé, i quali fanno al bisogno duemila cavalli; vi sono campagne belle, boschi molti e buoni e fiumi assai. Li principali di questa regione vivono d’andar rubbando per le campagne, e specialmente le caravane che passano da luogo a luogo. Hanno buoni cavalli. Essi sono valenti uomini della persona e d’astuto ingegno, e somigliano nel volto agl’Italiani. Biade in quella regione sono assai, e similmente carne e mele, ma non v’è del vino. Dietro a questi sono paesi di diverse lingue, non però molto lontani l’uno dall’altro, cioè le Chippiche, Tatacosia, Sobai, Cheverthei, As, cioè Alani, de’ quali abbiamo parlato di sopra: e questi vanno scorrendo per insino alla Mengrelia, per spazio di 12 giornate. Questa Mengrelia confina con Caitacchi, che sono circa il monte Caspio, e parte con la Zorzania e col mar Maggiore, e con quella montagna che passa nella Circassia; e da un lato ha un fiume chiamato Phaso, che la circonda e viene nel mar Maggiore. Il signor di questa provincia ha nome Bendian: ha due castelli sul detto mare, uno chiamato Vathi e l’altro Sevastopoli, e oltre d’essi altri più castellucci e brichi. Il paese è tutto sassoso e sterile: non ha biade d’altra sorte che paniccio; il sale li vien condotto da Capha. Fanno qualche poche tele e molto cattive, che son alcune di canapo e altre d’ortica.

È gente bestiale: il segno di ciò è ch’essendo a Vathi, dove, partito da Constantinopoli con una palandiera di Turchi per andar alla Tana, capitai insieme con un Anzolin Squarciafico genovese, era una giovane, la quale stava in piedi sopra una porta, alla quale questo Genovese disse: “Surina, patroni cocon?”, che vuol dire: “Madonna, è il padrone in casa?” (intendendo per questo il marito); essa rispose: “Archilimisi”, che vuol dire: “Ei verrà”. Ed egli la pigliò nelle labbra e, mostrandola a me, diceva: “Guarda bei denti ch’ha costei”, e mi mostrava anche il seno e le toccava le mammelle; ed ella non si turbava né si moveva punto. Entrammo poi in casa e ci mettemmo a sedere, e questo Anzolino, mostrando d’aver pulici nelle mutande, le fece d’atto ch’andasse a cercare: ed ella se ne venne con grande amorevolezza, e cercò intorno intorno con somma fede e castità. In questo mezo venne il marito, e costui cacciò mano alla borsa e disse: “Patroni, tetari sicha?”, che vuol dire: “Padrone, hai tu denari?”. E, facendo egli atto di non n’aver addosso, gli diede alcuni aspri, de’ quali esso dovesse comprare qualche rinfrescamento: e così andò. Dopo stati un pezzo, andammo per la terra a solazzo, e questo Genovese faceva in ogni luogo quello che li piaceva, secondo li costumi di quel paese, senza che niuno gli dicesse peggio di suo nome: onde si vede che son ben gente bestiale. Per questa ragione i Genovesi che praticano in quel paese hanno fra loro un costume di dire: “Tu sei mengrello”, quando vogliono dire a qualcun: “Tu sei pazzo”. Ma poi che io ho detto che tetari significa denari, non voglio lasciar di dire che propriamente tetari vuol dir bianco, e per questo colore intendendo i denari d’argento, i quali sono bianchi. I Greci ancora chiamano aspri, che vuol dir bianco; i Turchi akcia, che vuol dir bianco; Zagatai tengh, che vuol dir bianco. E a Venezia altre volte si facevano, e si fanno ancora al presente, denari che si chiamano bianchi; in Spagna ancora sono monete ch’hanno nome bianche. Sì che noi vedemo che diverse nazioni s’accordano a chiamar una istessa cosa con un nome che ciascuna le pone nel suo proprio linguaggio: nondimeno tutte riguardano la medesima ragione e significato.

Ritornando da capo alla Tana, passo il fiume dov’era l’Alania, com’ho detto di sopra, e vo discorrendo pel mare delle Zabacche a man destra, andando in fuori per insino all’isola di Capha, dove si truova uno stretto di terreno chiamato Zuchala, che congiugne l’isola con terra ferma, come fa quello della Morea, detto d’Esimilla. Quivi si truovano saline grandissime, le quali si congelano da lor posta. Scorrendo la detta isola, prima sul mar delle Zabacche è la Cumania, gente nominata da’ Cumani; poi il capo dell’isola dov’è Capha era Gazaria: e per insino a questo giorno il pico col quale si misura, cioè il braccio, alla Tana e per tutte quelle parti è chiamato il pico di Gazaria.

Capitolo 11
Del signore detto Ulubi, e i luoghi da lui signoreggiati. Della perdita di Capha, e in qual modo pervenne nelle mani di Mengligeri, poi d’Ottomano, e con che arte di nuovo in detto Mengligeri. Il modo ch’osservano in trarre al pallio. Della presa e liberazione di Mardassa Can.

La campagna di quest’isola di Capha è signoreggiata per Tartari, i quali hanno un signore chiamato Ulubi, che fu figliuolo d’Azicharei. È buon numero di popolo, e fariano a un bisogno da tre in quattromila cavalli. Hanno due luoghi murati, ma non forti, uno detto Solgathi, il qual essi chiamano Chirmia, che vuol dire fortezza, e l’altro Cherchiarde, che nel lor idioma significa quaranta luoghi. In quest’isola è prima, alla bocca del mar delle Zabacche, un luogo detto Cherz, il quale da noi si chiama Bosforo Cimerio; dopo è Capha, Soldadia, Grusui, Cimbalo, Sarsona e Calamita, tutte al presente signoreggiate dal Turco: delle quali non dirò altro, per esser luoghi assai noti. Solo voglio narrare la perdita di Capha, secondo ch’io ho inteso da un Antonio da Guasco genovese, il quale si ritrovò presente e fuggì per mare in Zorzania, e di lì se ne venne in Persia nel tempo ch’io mi vi ritrovava, acciò che s’intenda in che modo questo luogo è capitato nelle mani de’ Turchi.

Ritrovavasi in quel tempo esser signore di quel luogo, cioè nella campagna, un Tartaro nominato Eminachbi, il quale avea ogn’anno da quelli di Capha certo tributo, cosa in quei luoghi consueta. Accadettero fra lui e questi di Capha certe differenze, per le quali il consolo di Capha, che in quel tempo era genovese, deliberò di mandare all’imperator tartaro e di chiamare uno del sangue di questo Eminachbi, col favore del quale voleva cacciare Eminachbi di signoria. Avendo adunque mandato un suo navilio alla Tana insieme con un ambasciatore, questo ambasciatore andò nel lordo dove era l’imperatore de’ Tartari, e ritrovato ch’ebbe uno del sangue di questo Eminachbi, nominato Mengligeri, con promissione lo condusse a Capha per la via della Tana. Eminachbi, intendendo questo, ricercò di pacificarsi con quelli di Capha, con patto che mandassero indietro il detto Mengligeri. E non volendo quelli di Capha simil patto, Eminachbi, dubitando del fatto suo, mandò un ambasciatore all’Ottomano, promettendogli, se mandava la sua armata lì, la qual oppugnasse da mare, ch’egli oppugneria da terra e gli daria Capha, la quale volea che fusse sua. L’Ottomano, il qual era desideroso d’aver tale stato, mandò l’armata e in breve ebbe la terra, nella quale fu preso Mengligeri, e mandato dall’Ottomano stette in prigione molti anni.

Non molto dopo Eminachbi, per la mala compagnia ch’avea da’ Turchi, cominciò a esser malcontento d’aver data la terra all’Ottomano, e non lasciava entrar nella terra alcuna sorte di vettovaglie: onde cominciò a esser gran penuria di biade e di carne, in modo che la terra era poco meno ch’assediata. Fugli ricordato che, se mandava Mengligeri a Capha, tenendolo dentro della terra con qualche guardia cortese, la terra averia abbondanza, perciò che Mengligeri era molto amato dal popolo di fuori. L’Ottomano, giudicando che ‘l ricordo fusse buono, lo mandò: e, tanto tosto che si seppe ch’era giunto, venne nella terra grande abbondanza, perché era amato ancora da quelli di dentro. Essendo tenuto costui in guardia cortese, sì che poteva andare per tutto dentro della terra, un giorno fu tratto un pallio con l’arco. Il modo di trar al pallio in quel luogo è questo: attaccano a un legno messo in traverso sopra due legni drizzati in piedi, a sembianza d’una forca, con qualche spago sottile, una tazza d’argento; e quelli ch’hanno a trar per avere il pallio hanno le lor freccie col ferro di mezaluna tagliente, e corrono a cavallo con l’arco per sotto questa forca, e quando ch’hanno passato un pezzo in là, correndo tuttavia il cavallo alla dritta, si voltano indietro e traggono allo spago, e quello che getta giù la tazza ha vinto il pallio.

Mengligeri adunque, tolta questa occasione del trar del pallio, fece che cento cavalli de’ Tartari, co’ quali esso avea intelligenza, s’ascondessero in certa vallicella ch’era fuori della terra poco lontano, e, fingendo volere anch’egli trar al pallio, prese il corso e fuggì dentro de’ suoi. Incontintente che questa cosa fu intesa, la maggior parte dell’isola lo seguitò, e con essi bene in punto se n’andò a Solgathi, terra lontana da Capha sei miglia, e la prese. Crescendo poi il popolo a sua ubbidienza, andò a Cherchiarde e quella similmente prese: e ammazzato Eminachbi si fece signore di quei luoghi. L’anno seguente deliberò d’andar verso di Citracan, luogo lontano da Capha 16 giornate, signoreggiato da un Mordassa Can, il quale in quel tempo era col lordo sopra del fiume Erdil. E fece giornata con lui e preselo e tolse il popolo, buona parte del quale mandò all’isola di Capha; ed egli rimase a invernar sopra il detto fiume. Ritrovavasi in quel tempo esser alloggiato qualche giornata lontano un altro signor tartaro, il quale, inteso che costui invernava in quel luogo, essendo il fiume agghiacciato, deliberò d’assaltarlo all’improvista e lo ruppe, e ricuperò Mordassa, il qual era tenuto prigione. Mengligeri, essendo rotto, ritornò a Capha mal in ordine. Nella primavera seguente Mordassa col suo lordo venne a trovarlo fino a Capha, e fece alcune correrie e danni dentro dell’isola: ma, non potendo aver le terre a sua ubbidienza, tornò indietro.

Nondimeno mi fu detto ch’egli di nuovo faceva esercito, con intenzione di ritornare all’isola e discacciare Mengligeri: e questo è vero in sé, ma cagione d’una bugia, imperoché coloro che non intendono donde procedano le guerre ch’hanno tra loro questi signori, e non sanno che differenza sia tra il gran Can e Mordassa Can, intendendo che Mordassa Can fa nuovo esercito con intenzion di ritornar all’isola, si danno ad intendere e dicono che il gran Can viene per la via di Capha a posta dell’Ottomano, con proposito d’andar per la via di Moncastro nella Valachia e Ungaria e dove vorrà l’Ottomano: la qual cosa è falsa, quantunque s’abbia per lettere da Constantinopoli.

Capitolo 12
Della Gotia e Alania; della favella de’ Goti; de’ popoli gotalani, e onde sta derivato questo nome. Della terra detta Citracan; della grandezza de’ talponi che nascono in quei boschi. D’una terra detta Risan, e della fertilità di quel paese. Di Colona città. Del fiume Mosco e Mosco città, e del sito e abbondanzia di quella.

Dritto dell’isola di Capha d’intorno, ch’è sul mar Maggiore, si truova la Gotia e poi l’Alania, la qual va per l’isola verso Moncastro, com’abbiamo detto di sopra. Goti parlano in todesco: so questo perché, avendo un famiglio todesco con me, parlavano insieme e intendevansi assai ragionevolmente, così come s’intenderia un Furlano con un Fiorentino. Da questa vicinità de’ Goti con Alani credo che sia derivato il nome di Gotalani. Alani erano prima in quel luogo: sopravennero Goti e conquistorno quei paesi, e fecero una mistura del nome loro col nome degli Alani, e si chiamarono Gotalani, sì come quelle genti erano mescolate con queste. Tutti questi fanno alla greca, e similmente i Circassi. E perché abbiamo fatto menzione di Tumen e di Citracan, non volendo pretermettere né anche di questi luoghi le cose che sono degne di memoria, dicemo che da Tumen andando per greco e levante sette giornate lontano si truova il fiume Erdir, sopra il qual fiume è Citracano, la quale al presente è una terricciola quasi distrutta: pel passato fu grande e di gran fama, imperoché, prima che fusse distrutta dal Tamberlano, le spezie e le sete che al presente vanno in Soria andavano in Citracan, e da quel luogo alla Tana, dove si mandava solamente da Venezia sei e sette galee grosse per il levar di dette spezie e sete. E in quel tempo né Veneziani né altra nazione citramarina facea mercanzia in Soria.

L’Erdil è fiume grossissimo e larghissimo, il qual mette capo nel mar di Bachù, lontano da Citracan circa miglia 25: e così esso fiume come il mare hanno pesci innumerabili, ma in esso mar si truovan schenali e morone assai, il qual fa anche sale assai. Per il fiume a contrario d’acqua si può navigare infino appresso il Moscho, terra di Rossia, a tre giornate: e ogn’anno quelli del Moscho vanno con lor navilii in Citracan a torre il sale, e vi è la via facile, perché il Moscho fiume va in quello che è nominato Occa, che discende nel fiume Erdil. Trovansi in questo fiume isole assai e boschi, delle quali isole ve n’è alcuna che volge trenta miglia. I boschi fanno talponi, che d’un pezzo cavato ne fanno barche che portano otto e dieci cavalli e altrettanti uomini. Passando questo fiume e andando per ponente maestro alla via del Moscho, presso però delle rive, quindici giornate continue, si truovan popoli di Tartaria innumerabili. Ma scorrendo verso maestro s’arriva a’ confini della Rossia, dove si truova una terricciola chiamata Risan, la quale è d’un cognato di Giovanni duca di Rossia. Tutti sono cristiani e fanno alla greca; il paese è fertile di biade, carne e melle e altre buone cose; fassi eziandio bossa, che vuol dir cervosa; truovansi boschi e casali assai. Andando un poco più oltre si truova una città chiamata Colona. E l’una e l’altra di queste due sono fortificate di legname, del quale medesimamente sono fatte tutte le case, imperoché in quei luoghi non si truova gran fatto pietre.

Tre giornate lontano si ritruova il detto Moscho, fiume notabile, sopra il quale è una città nominata Moscho, dove abita il detto Giovanni duca di Rossia. Il fiume passa per mezo la terra e ha alcuni ponti; il castello è sopra certa collina, e d’ogn’intorno è circondato da boschi. La fertilità delle biade e della carne che è in questo luogo si può comprender da questo, che non vendono carne a peso, ma ne danno tanta ad occhio, che certo se ne ha quattro libre al marchetto. Le galline s’hanno settanta al ducato; l’oche tre marchetti l’una. È tanto gran freddo che eziandio lì il fiume s’agghiaccia. Il verno sono portati porci, buoi e altri animali scorticati e messi in piedi, duri come sassi, in tanto numero che chi ne volesse 200 al giorno li potria comprare: tagliar non si possono perché sono duri come marmi, se non si portano in stufa. Frutti, da qualche pochi pomi e noci e nocelle salvatiche in fuora, non si truovano.

Quando vogliono andare da luogo a luogo, specialmente s’il camino è per esser lungo, camminano il verno, perché tutto è agghiacciato, e hanno buon camminar, salvo che da freddo. Portan allora sopra li sani (i quali satisfanno a loro come a noi li carri, e dal canto di qua si chiamano travoli over vasi) quello che vogliono, con grandissima facilità. La state, per esser fanghi grandissimi e moscioni assaissimi, i quali procedono dalli boschi molti e grandi che vi sono, la maggior parte dei quali è inabitabile, non ardiscono andar troppo lontano.

Non hanno vino, ma alcuni fanno vino di mele, alcuni di cervosa di miglio, nell’uno e l’altro dei quali mettono fiori di bruscandoli, i quali danno un stuffo che stornisce e imbriaca come il vino. Non è da preterire con silenzio la provisione che fece il detto duca, vedendo essi essere grandissimi imbriachi e per imbriachezza restar di lavorare e di far molte altre cose che gli sariano state utili: fece un bando che non si potesse far né cervosa né vin di mele, né usar fiori di bruscandoli in alcuna cosa, e con questo modo gli ha fatti mettere al ben vivere.

Capitolo 13
D’una terra chiamata Cassan. De’ Moxii popoli, e della religion e viver loro. Di Novogradia città. Di Trochi e Lonin castelli. D’una terra detta Varsonich. Di Mersaga e Brandinburg città. Del re di Zorzania; della fertilità, costumi e abiti di quel paese. D’una terra detta Zifilis.

Possono ora esser 25 anni, pagavano i Rossiani per il passato tributo all’imperator tartaro; di presente hanno soggiogata una terra chiamata Cassan, che in nostra lingua vuol dire caldiera, la quale è sul fiume Erdil, andando verso il mar di Bachù a man sinistra, lontana dal Mosco cinque giornate. Questa terra è mercantesca, della quale si tragge la maggior parte delle pellettarie che vanno al Mosco, in Polonia, in Prusia e in Fiandra: le qual pellettarie però vengono da parte di tramontana e greco, dalle regioni di Zagatai e di Moxia, i quali paesi di tramontana sono posseduti da’ Tartari, che per il più sono idolatri, così come ancora sono i Moxii.

Ho qualche pratica delle cose de’ Moxii, e per tanto dirò della lor fede e condizione quello che io intendo. Certo tempo dell’anno sogliono torre un cavallo, il quale essi mettono nella campagna, a cui ligano tutti quattro i piedi a quattro pali, e similmente la testa a un palo, fitti in terra. Fatto questo viene uno col suo arco e freccie, e mettesi lontano in intervallo conveniente, e tirargli alla via del cuore tanto che lo ammazza; poi lo scortica e fanno della pelle un utre; della carne fanno tra loro certe cerimonie e poi la mangiano. Poi empiono questa pelle tutta di paglia, e la cuciono sì fattamente che pare intiera, e per ciascuna delle gambe mettono un legno dritto, accioché possa stare in piedi come vivo. Finalmente vanno ad un arbore grande e gli tagliano quei rami che a lor pare, e di sopra fanno un solaro, sul quale mettono questo cavallo in piedi: e così lo adorano, offerendogli zebelini, armelini, dossi, vari, volpi e altre pellettarie, le quali appiccano a quest’arbore sì come noi offeriamo candele, in modo che questi arbori sono pieni di simili pellettarie. Buona parte del popolo vive di carne, e per lo più di carne salvatica, e di pesci che prendono in quei fiumi che sono nel loro paese.

Abbiamo detto dei Moxii; dei Tartari non abbiamo altro da dire se non che quelli di loro che sono idolatri adorano statue, le quali portano sopra dei lor carri: quantunque si trovano alcuni, i quali hanno per costume di adorar quello animale ogni giorno che uscendo di casa primamente scontrano. Il duca ha soggiogata anche Novogradia, che vuol dire in nostra lingua nove castelli, la quale è terra grandissima, lontana dal Mosco alla via di maestro giornate otto. Governavasi prima a popolo, ed erano uomini senza alcuna ragione; avevano tra loro molti eretici. Al presente scorre via così piano piano nella fede catolica, conciosiaché alcuni credano, alcuni no; ma vivono con ragione e ci si fa giustizia.

Partendo dal Moscho verso Polonia vi sono giornate 22 insino all’entrar nella Polonia. Il primo luogo che si truova è un castello chiamato Trochi, al quale non si può andare, partendo da Moscho, se non per boschi e per colline, imperoché è quasi luogo deserto. Vero è che caminando a luoghi a luoghi, ove sono stati alloggiamenti per avanti, si truova esservi stato fatto fuoco, e ivi li viandanti possono riposare e far fuoco se vogliono. Alcune fiate, ma molto poche, si truova fuor di mano qualche villetta. Partendo da Trochi si truovano similmente boschi e colline, ma insieme eziandio alcuni casali, e lontano da Trochi nove giornate si truova un castello chiamato Lonin. Si entra poi nel paese di Lituania, dove si vede una terra chiamata Varsonich, la quale è d’alcuni signori, sottoposti però a Cazmir, re di Polonia. Il paese è abbondante e ha castelli e casali assai, ma non da gran conto. Da Trochi in Polonia sono giornate sette, ed è buono e bel paese. Trovasi poi Mersaga, assai buona città, e ivi finisce la Polonia: dei castelli e terre della quale, per non ne aver io notizia, non dirò altro se non che il re con li figliuoli e tutta la casa sua è cristianissimo, e che il suo figliuol maggiore di presente è re di Boemia. Usciti della Polonia, a quattro giornate troviamo Frankfort, città del marchese di Brandinburg, ed entriamo nell’Alemagna, della qual non dirò altro, per esser luogo domestico e inteso da molti.

Resta ora che diciamo qualche cosa della Zorzania, la quale è all’incontro dei luoghi sopra detti e confina con la Mengrelia. Il re di questa provincia si chiama Pancrazio: ha bel paese, e fertile di pane, di vino, di carne, di biade e d’altri frutti assai. Fassi gran parte di vini sugli arbori, come in Trabisonda. Gli uomini sono belli e grandi, ma hanno sozzissimi abiti e costumi vilissimi. Vanno tosi e rasi il capo, salvo che intorno lassano un poco di capelli, a similitudine di questi nostri abbati, che hanno buona entrata; portano mustacchi, ai quali si lasciano crescer li peli sotto la barba, a lunghezza di una quarta d’un braccio. In capo portano una berrettuzza di diversi colori, in cima della quale è una cresta; in dosso portano giubbe assai lunghe, ma strette e fesse di dietro infino alle natiche, imperoché altramente non potriano montare a cavallo: nella qual cosa non li biasimo, perché vedo che ancora i Francesi l’usano. In piedi e gambe portano stivali, i quali hanno la suola fatta in modo che, quando stanno in piedi, la punta e il calcagno toccano in terra, ma in mezo sono tanto alti da terra che si potria cacciare il pugno per sotto la pianta senza farsi male: e di qui viene che, quando caminano a piedi, caminano con fatica; gli biasmaria in questa parte, se non fusse che io so che ancora li Persiani l’usano.

Circa il mangiare, secondo che io ho veduto a casa di uno delli principali, servano questo modo: hanno certe tavole quadre circa mezo braccio, con un orlo cavato intorno; in mezo di queste mettono una quantità di paniccio cotto senza sale e senza altro grasso, e questo scusa in luogo di minestra; in un’altra simil tavola mettono carne di cinghiaro brustolata, e tanto poco arrostita che, quando la tagliavano, sanguinava: essi mangiavano di buona voglia, io non ne poteva gustare, e però me ne andava fingendo di mangiar con quel paniccio; del vino ne era abbondanzia, e andava intorno alla polita; altra sorte di vivande non avemmo. Vi sono in questa provincia montagne grandi e boschi assai. Ha una terra chiamata Tiflis, d’avanti la quale passa il fiume Tygris, la quale è buona terra, ma male abitata; ha eziandio un castello nominato Gori; confina con il mar Maggiore.

E questo è quanto io ho a narrare circa il viaggio mio della Tana e di quei paesi, insieme con le cose degne di memoria di quelle parti. Seguita che (tolto un altro principio) prenda la seconda parte, e metta le cose appartenenti al viaggio mio di Persia.

Il fine del viaggio alla Tana.

[Viaggio nella Persia]
Capitolo 1
Del presente mandato per la illustrissima Signoria di Venezia ad Assambei, signor della Persia. Del castello chiamato Sigi. Del porto e castello nominati Curcho. Dell’armata della illustrissima Signoria di Venezia per andar contra Ottomano.

Essendo la nostra illustrissima Signoria in guerra con l’Ottomano del 1471, io, come uomo uso a stentare e pratico tra gente barbara, e desideroso di ogni bene della illustrissima Signoria, fui mandato insieme con uno ambasciadore di Assambei, signor della Persia, il quale era venuto a Venezia a confortar la illustrissima Signoria che volesse proseguir la guerra contra il detto Ottomano; conciosiaché ancor esso con le sue forze gli saria venuto contra. Partimmo adunque da Venezia con due galee sottili, e dietro di noi vennero due galee grosse cariche di artiglierie, gente da fatti e presenti, che mandava la detta illustrissima Signoria al detto signor Assambei, con commissione che io mi appresentassi al paese del Caraman e a quelle marine, e venendo, over mandando lì Assambei, gli donassi tutte le dette cose. Le artiglierie furono bombarde, spingarde, schioppetti, polvere da trarli, carri e ferramenti di diverse sorti, per valuta di ducati 4000. Le genti da fatti furono balestrieri e schioppettieri 200, sotto quattro contestabili, col lor governatore, che era Tommaso da Imola, il quale aveva dieci provisionati sufficienti ad ogni governo. Li presenti furono lavori e vasi d’argento per il valor di ducati 3000, panni d’oro e di seta per il valore di ducati 2500, panni di lana in scarlatto e altri colori fini per il valor di ducati 3000.

Giunti che fummo all’isola di Cipro, entrammo in Famagosta e insieme ci appresentassimo a quel re: uno ambasciador del papa, uno del re Ferdinando, e noi due, cioè l’ambasciador del signor Assambei e io. Dove informandone se per il paese del Caraman securamente si poteva passare in Persia, trovammo tutte le terre da marina e fra terra essere occupate dall’Otomano, per la qual cosa ne fu necessario dimorare un certo tempo in Famagosta. Nel qual tempo, desiderando di proseguire il camin mio, più volte insieme con l’ambasciador del Caraman, il quale aveva ritrovato in Cipro, me n’andai con una galea sottile alle riviere del Caraman, lassando tuttavia gli altri ambasciadori in terra. Una di queste volte capitai a un porto dove è certo castello chiamato Sigi, e ivi fummo a parlamento con un signor di quel luogo, detto Cassambeg, il quale, benché gli fussero state tolte tutte le sue fortezze, nientedimeno aveva pur qualche centenaro di cavalli e di gente, che andavano per il paese quasi vagabondi, i quali lo seguitavano. Un fratello maggior di questo signore, nominato Pirameto, se n’era andato ad Assambei, per aver soccorso da lui contra l’Otomano. Parlando noi con questo che avevamo trovato lì del pensier nostro, tra l’altre cose ne disse che con grande allegrezza ne aveva aspettati, e mostronne lettere di Assambei, nelle quali si conteneva che dovesse star di buon animo, imperoché presto verrebbe l’armata dei signori veneziani, con la quale sperava che si ricuperaria lo stato, e specialmente i luoghi di marina.

Io, inteso che l’armata nostra si doveva appresentare a quelle parti, ordinai che le galee che erano rimase a Famagosta dovessero venire a Sigi. In questo mezo intesi che ‘l nostro capitan generale, messer Pietro Mozenico, insieme con li proveditori messer Vittor Soranzo e messer Stefano Malipiero, con altre galee e capitani, erano arrivati nel porto de Curcho, che appresso gli antichi era Corycus, dove è un bel castello chiamato Curcho, e incontinente gli mandai Agostino Contarini sopracomito a dir che, se doveva torre impresa alcuna, a me pareva che esso dovesse venire a Sigi, dove io mi ritrovava, perché più facilmente si conseguirebbe vittoria; nondimeno, parendo a lui altramente, comandasse, che ubidirei. Sigi è lontano dal Curcho non più che XX miglia, onde, avendo inteso il capitan generale quello che io gli mandava a dire, quantunque già avesse principiato a bombardare il Curcho, si levò con l’armata e venne a Sigi. In quest’armata erano galee 56, e due galee sottili e due grosse le quali io aveva, che fanno 60, tutte della illustrissima Signoria; galee XVI del re Ferdinando, galee cinque del re di Cipro, galee due del gran maestro di Rodi, galee XVI del sommo pontefice, le quali però erano rimase a Modon: che sono in tutto galee 99. Nelle galee nostre erano cavalli 440, con i loro stradiotti, cioè otto per galea, eccetto che in cinque galee che non avevan cavalli. Giunti nel porto mettemmo i cavalli in terra e buona parte della gente, i quali cominciarono a prepararsi.

Capitolo 2
Come il castello Sigi si rendette a patti, e come, usciti fuora il signor e gli altri, contra il voler del capitano furono saccheggiati; ma subito, di ordine di esso capitano, trovato tutte le persone e robe depredate, furono restituite ad esso signore.

Il dì seguente il capitano mandò per me, e dissemi che gli pareva che quel castello fusse molto forte e, per rispetto del sito, quasi inespugnabile, essendo posto nella sommità d’un monte, e domandommi quel che mi pareva: gli risposi esser vero che era fortissimo, ma eziandio questo non falso, che dentro non ci si ritrovavano se non al più XXV uomini da fatti, i quali avevano a guardare e difendere d’ogn’intorno lo spazio d’un miglio, onde certamente io mi credeva che, proseguendo l’impresa, presto s’averia. Stette molto sospeso e non mi fece risposta alcuna, ma due ore dopo mi mandò il suo almiraglio a dire che aveva deliberato di tor l’impresa. Fecemi stare di buona voglia, e subitamente me n’andai; e di questo diedi notizia a Theminga, capitan del Caramano, il quale similmente si rallegrò tutto e volse che io andassi a riferire questo istesso al suo signore: e così feci. E ritornato dal detto Theminga, me ne venni al nostro capitano, e cominciammo a mettere in ordine le cose opportune alla oppugnazione.

La mattina seguente, circa ore quattro di giorno, Theminga mi disse che gli era venuto uno dal castello, offerendo di darglielo, se noi volevamo salvar le persone e le robe. Ne feci motto al nostro capitano, il quale mi ordinò ch’io dovessi promettere a quel tale, per mezo di Theminga, che egli con le sue persone e robe sariano salvi e, non volendo stare in quel luogo, sariano condotti a salvamento dove a loro piacesse. Avendo riferito questo a Theminga, egli volse ch’io andassi a parlare col signore di quel castello, che era detto Mustafà, ed era nativo della Caramania: e per tanto andai alla porta, appresso la quale era una fenestra quadra, e parlai col signore, il quale era venuto lì. E dopo molte parole esso mi disse che, servandogli il nostro capitano la promessa di farlo sicuro con le persone e robbe, era contento di dargli il castello. E, fattogli la detta promessa, aperse le porte, e lassò entrar me, l’armiraglio e tre compagni di galea, insieme col nostro interprete. Dimandai dove voleva essere; mi rispose che desiderava andare in Soria e, per andar più sicuro, d’esser condotto con una delle nostre galee, lui, la moglie e la sua roba: e così gli promessi, ed egli incontinente seguitò di insaccar le sue robe, delle quali per avanti gran parte aveva insaccato. Uscito esso con le sue robe fuor della porta, e dietro a lui gli altri i quali erano nel castello con tutto il suo, i quali potevano essere da 150 in tutto, e discendendo giù del monte, si riscontrò col nostro capitano, il qual veniva suso con una buona ciurma di galeotti per ricevere il castello: ai quali galeotti non valsero né comandamenti né minaccie del capitano che, vedendo queste robe, non si mettessero a far preda, sì delle robe come delle persone. Puossi considerare l’affanno che ebbe il capitano e i proveditori e tutti coloro che avevano intelletto, specialmente essendogli stata fatta per lor nome così larga promessa.

Tolto adunque il castello ritornai alla galea, e la sera sul tardi il capitano mandò per me, e con grande amaritudine si condolse del caso intravenuto: e volse che io andassi a trovar nel campo il capitano del Caraman, e in escusazion sua dicessi quello che mi pareva conveniente circa la disubidienzia e furia delli detti galeotti, e di quello che esso aveva in animo di fare in favor di quelli che erano stati rubbati, e contra di quelli che avevano rubbato. Tornato adunque alla marina, ritrovai che l’interprete mio aveva un asino carco di roba, al quale io feci tor le robe incontinente e dar di molte botte. Dapoi me n’andai da Theminga, capitano del Caraman, e iscusato che io ebbi la cosa col modo che mi era stato dato, concludendo gli promessi che ‘l dì seguente da mattina al tutto si faria provisione: esso mi accettò con buona cera, dicendo che gli dispiaceva che ‘l signor di Sigi insieme con tutti i suoi, i quali erano ribelli del suo signore, non fusse stato morto. Io, veduto che di quello ch’era seguito non si prendeva molta molestia, incominciai ad adattare la cosa, dicendo che quello gli era stato promesso bisognava che fusse atteso, e che quello era seguito era seguito per la furia bestiale dei galeotti, con grandissimo dispiacere del capitano e proveditori e di tutti li sopracomiti. Ritornato che fui al nostro capitano, fu da lui commesso a messer Vettor Soranzo, insieme con alcuni sopracomiti, il cargo della ricuperazione delle persone e delle robbe tolte contra la fede che noi gli avevamo data.

E la mattina per tempo furno fatte gride, con asprissime pene, che tutti dovessero appresentare e mettere in terra le persone e le robbe tolte, e oltra di questo furono ricercate con grandissima diligenzia tutte le galee. Le persone furono ritrovate tutte, e delle robe una buona parte, delle quali, massimamente di quelle che eran minute, fu fatto un grandissimo monte, e di quello cavate da parte tutte le robe che erano del signore, sì quelle che si trovavano in sacchi come quelle che si trovavano fuor di sacchi. Dapoi tutte insieme furono portate nella galea di messer Vettor Soranzo proveditore, percioché in essa era entrato quel signore insieme con la sua donna, alla qual fu appresentato tutto quello che si ritrovava. Le robe che erano del popolo tutte insieme furono consegnate al lor capitano, il qual fece far la grida che ognuno venisse a tor le sue: e così vennero.

Capitolo 3
Come duoi fratelli del signor Mustafà fecero smontar esso signore col suo aver apresso di loro, e poco dipoi, fattolo morire, un di loro prese la cognata per moglie. Della presa del castello Curcho e restituzion di quello al Caramano. Come Silephica, anticamente chiamata Seleucia, si rendette a patti.

Era commune opinione che questo signore avesse tesoro grande, lassatogli dal padre: e, per quello che si poté vedere, fra pietre preziose, perle, oro, argento e panni, erano decine di migliaia di ducati. E in segno di ciò un sopracomito candiotto, il quale aveva avuti due sacchi di dette robe, e uno ne aveva restituito e con l’altro se n’era andato a Rodi, morendo in quel luogo, ordinò che, per quello esso aveva avuto di conto del detto signore, gli fussero restituiti ducati 800. Fatto questo, due fratelli di questo signore lo vennero a trovare in galea, e con lor ragioni, promissioni e persuasioni tanto fecero, che si contentò di smontare in terra con tutto il suo: e poco dopo la partita delle galee lo fecero morire. E come che questo fusse stato poco male, uno d’essi tolse per moglie la donna, che era sua cognata.

L’armata ritornò al Curcho sopranominato e, dismontata che fu la gente in terra, furon messe le bombarde ai suoi luoghi, per oppugnare eziandio questo castello, nel quale erano per guardia le genti dell’Ottomano. Era gionto in quello istesso tempo a quel luogo il signor Caraman con le sue genti, e, tolta la prima cinta de’ muri, si dettero a patti, salve le persone e le robe: e così avessimo il castello e lo restituimmo al Caraman. Dopo questo, io me n’andai a Silephica, terra famosa, che si chiamava anticamente Seleucia, con alcuni del Caramano: la quale per il simile era occupata dall’Ottomano. E dissi a quelli ch’erano dentro che volessero render la terra, che sariano salve le robe e le persone, e che, se si lasciavano dar la battaglia, forse lo vorrebbono fare, che non si accettaria, ma che tutti anderiano per fil di spada. Mi fu risposto che io andassi alla buon’ora, e che domattina essi mandariano a dire al Caramano quale era l’intenzion loro. Il dì seguente gli mandarono a dire che erano contenti di dargli la terra, e che andassero presto, imperoché gliela consegnariano: e così fecero.

Il nostro capitano dapoi con tutta l’armata se ne tornò in Cipro, e si mise a star presso a Famagosta per provedere al governo di quell’isola, imperoché il re Zacho era mancato di questa vita, nel tempo che noi eravamo nelle terre del Caraman. Fatte le debite provisioni, dopo alcuni giorni si levò e andossene verso l’arcipelago. Io rimasi nel porto di Famagosta, con tre galee sottili e due grosse, insieme con li contestabili e fanti che mi erano stati dati dalla illustrissima Signoria: dove stetti per certo tempo. Giunsero in questo mezo due galee del re Ferdinando, sopra le quali era l’arcivescovo di Nicosia, di nazione catelano, e con lui un messo del detto re, i quali dovevano trattar di contragger matrimonio di una figliuola naturale del re Zacho con un figliuol naturale del detto re Ferdinando.

E stando in dette pratiche, una notte sottosopra incominciorno a sonar campane nell’arme, e il vescovo si ridusse con quelli che ‘l seguitavano alla piazza ed ebbe la terra, e poco dopo ebbe Cerines e quasi tutta l’isola a sua ubbidienza. Il nostro capitan generale, avendo inteso che due galee, le quali venivano da Napoli col detto vescovo, andavano verso levante, sospettò che dovessero andar in Cipro, e mandò messer Vittor Soranzo proveditor con diece galee sottili. Il qual, gionto a Famagosta, ritrovò una di quelle galee nel porto; e, dopo molti parlamenti fatti insieme, fu fatta col vescovo e co’ suoi seguaci certa composizione, che restituissero la terra e tutto quello che avevano tolto, e che se n’andassero alla buon’ora: e così fu fatto, e l’ambasciator del re Ferdinando se ne ritornò a Napoli, quello del sommo pontefice rimase a Famagosta.

Io con l’ambasciator di Assambei, che desideravo andare al mio camino, insieme col mio cancelliero montai su una galea sottile, e ambedue le galee grosse, le quali avevano le artiglierie e li presenti sopranominati, per comandamento della illustrissima Signoria ordinai che andassero in Candia: delle quali parte rimasero lì e parte furono rimandate a Venezia, e li fanti feci restare a custodia della isola di Cipro. E io ritornai al Curcho, del quale, perché non ho posto il sito, al presente ne parlerò.

Capitolo 4
Del sito del Curcho, e quello che produce. Di Seleucia città, e bellissimo sito di quella. Del fiume Calycadnus. D’uno teatro simile a quello di Verona.

Questo Curcho è sul mare; ha per mezo verso ponente uno scoglio che volge un terzo di miglio, che era appresso gli antichi Eleusia, sul quale per avanti soleva essere un castello. Mostra d’essere stato forte, bello e ben lavorato, ma di presente in gran parte è rovinato; ha su le porte maestre certe inscrizioni di lettere, le quali mostravano d’esser belle e simili all’armene, pur in altra forma di quella ch’usano gli Armeni di presente, conciosiaché gli Armeni che io avevo con me non le sapessero leggere. Il castel rotto è lontano dal Curcho alla via della bocca del porto un trar di balestra, ma il Curcho è parte edificato su un sasso, e parte scorre su la spiaggia verso il mare: il sasso su nel quale è dalla parte di levante è tagliato in un fosso alto equale. Il sabbione verso la spiaggia ha un muro scarpato grossissimo, da non potere essere offeso da bombarde; nel castello ne è un altro, con le sue mura grossissime e torri fortissime, il qual tutto cinge due terzi d’un miglio, e anche questo ha sopra le porte, le quali sono due, certe inscrizioni di lettere armene. Ogni stanza di questo castello ha la sua cisterna d’acqua dolce, e nei luoghi publici quattro cisterne tanto grandi, tutte d’acqua dolce perfettissima, che serviriano ad ogni gran città.

Nell’uscire della porta ch’è verso levante, per una strada lontana un trar d’arco dal castello, si truovano arche di marmi d’un pezzo, buona parte delle quali sono rotte da un capo: e queste sono sì da uno come dall’altro canto della strada, e durano insino a una certa chiesa mezo miglio distante, la qual mostra essere stata assai grande, e ben lavorata di colonne di marmo grosse e d’altri eccellenti lavori. I luoghi circonstanti al castello sono montuosi e sassosi, simili a quelli dell’Istria, abitati per quel tempo da gente del signor Caraman. Vi nasce frumento assai e gottoni, e vi è gran copia di bestiame, spezialmente di buoi e cavalli, e vi sono frutti perfettissimi di più sorte. L’aere, per quel ch’io viddi, è molto temperato; di presente non so come si stia, imperoché sono stati distrutti dall’Ottomano. A costa della marina sono due castelli: il sopradetto Sigi, edificato sopra un monte, e un altro, i quali sono fortissimi. Il primo è lontano dal mare un trar d’arco, l’altro è lontano da questo miglia sei, ed è posto appresso il mare ed è assai forte.

Partendo dal Curcho e andando verso maestro, 10 miglia lontano si trova Seleuca, cioè Seleuzia, che è lontana dal mare cinque miglia, la quale è in cima d’un monte sotto il quale passa un fiume, appresso li antichi Calycadnus, che mette in mare appresso il Curcho, simile di grandezza alla Brenta. Appresso questo monte è un teatro, nel modo di quel di Verona, molto grande, circondato di colonne d’un pezzo, con li suoi gradi intorno. Ascendendo in monte per andare nella terra, a man manca si veggono assaissime arche, parte d’un pezzo, com’è detto di sopra, separate dal monte, e parte cavate nel proprio monte. Ascendendo più in su si truovano le porte della prima cinta della terra, che sono quasi alla sommità del monte, le quali hanno un torrione per lato, e sono di ferro, senza legname alcuno, alte circa quindici piedi, larghe la metà, lavorate politissimamente, non meno che se fussero d’argento: e sono grossissime e forti. Il muro è grossissimo, pieno di dentro, con la sua guardia davanti, il quale di fuora è carico e coperto di terreno durissimo, tanto erto che per esso non si può ascendere alle mura. Il qual terreno gli va d’ogn’intorno, ed è tanto largo dalle mura che da basso circonda tre miglia, e in cima il muro non circonda più di uno, ed è fatto a similitudine d’un pan di zuccaro. Dentro di questa cinta è il castello di Seleuca, con le sue mura e torri piene, tra ‘l quale e le mura della prima cinta è tanto terreno vacuo che a un bisogno faria da 300 stara di frumento: è distante la cinta dal castello passi 30 e più. Dentro del castello è una cava quadra fatta nel sasso, profonda passa cinque, longa 25 e più, larga circa sette: in questa erano legne assai da monizione e una cisterna grandissima, nella quale non è mai per mancare acqua. E questa terra è nell’Armenia minore al presente, ma anticamente era nella Cilicia, che fu presa da’ Turchi quando occuparono il restante dell’Asia minore, a’ quali fu levata da Rubino e Leone, fratelli d’Armenia, circa il 1230: e la ridussero in regno, e da loro fu detta Armenia, la quale Armenia si estende infino al monte Tauro, chiamato nel lor linguaggio Corthestan.

Capitolo 5
Della città Tarso, anticamente detta Tarsus; il sito e signor di quella. D’una terra detta Adena, e quello produce. D’un grossissimo fiume chiamato Pyramo. D’un notabil modo di ballar e cantar d’alcuni peregrini macomettani. D’una terra detta Orphea.

Stetti certo tempo in questo luogo e poi mi aviai al camino di Persia, caminando (quantunque vi sia altra via) per la marina: e in una giornata non grande usci’ fuora delle terre del Caraman. Il primo luogo ch’io ritrovai è Tarso, anticamente Tarsus, buona città, il signore della quale è Dulgadar, che fu fratello di Sessuar: il paese è sottoposto al soldano, quantunque sia pur nell’Armenia minore; la terra volge 3 miglia. Ha una fiumara davanti, detta dagli antichi Cydnus, sopra la quale è un ponte di pietra in volti per il quale si esce della terra, e questa fiumara le va quasi attorno. In essa è un castello scarpato da due lati di una scarpa alta passi 15, la quale è di pietre tutte lavorate a scarpello; davanti è un luogo piano, quadro ed eminente, al qual si va per il castello con una scala, ed è tanto longo e largo che terrebbe suso 1000 uomini. La terra è posta su un monticello non molto alto. Una giornata lontano si trova Adena, così nominata anco dagli antichi, terra molto grossa, davanti della quale è un fiume grossissimo, detto dagli antichi Pyramus, il qual si passa per un ponte di pietra in volto longo passi 40. Sul qual ponte essendoci noi accompagnati con certi suffi, cioè, parlando in nostro linguaggio, peregrini, alla guisa de’ quali tutti noi eravamo vestiti, questi suffi cominciarono a ballare in spirito, cantando uno di loro delle cose celestiali e della beatitudine di Macometto, principiando lentamente e adagio e sempre andando stringendo più la misura. E quelli che ballavano, ballando secondo la misura della voce, fra lo spazio d’un quarto d’ora affrettavano tanto i passi e i salti che parte di loro cadevano col corpo in suso e tramortivano lì. Era concorsa a tale spettacolo assai gente, e li compagni levavano quelli che erano caduti e li portavano agli alloggiamenti, e quasi in ogni luogo dove si abitava; e alcune fiate eziandio nel viaggio facevano cotal dimostrazioni, come se fussero sforzati a farle.

La terra di Adena, e similmente il paese, fa di molti gottoni e gottonina; è ancora essa del soldano, posta medesimamente nell’Armenia minore. Lasso di dire le ville e i castelli rotti che si ritrovano infino su l’Eufrate, per non aver cosa molto memorabile. Giunti all’Eufrate, che divideva lo stato del re di Persia da quel del soldano, ritrovammo un navilio del soldano, il qual portava da sedici cavalli in suso. Era navilio molto strano, col quale passammo il fiume, appresso il quale sono certe grotte nel sasso, dove per i mali tempi si riduce chi di lì passa; dall’altro lato sono alcune ville di Armeni, dove alloggiammo una notte. Passato il fiume capitassimo a una terra nominata Orpha, la quale è del signore Assambei ed era governata da Balibech, fratello del detto signore. Fu già gran terra, ora è quasi tutta ruinata dal soldano, nel tempo che ‘l signore Assambei andò all’assedio del Bir. Ha un castello sul monte assai forte. In questo luogo il signore si avidde ch’io era e mostrò di vedermi volentieri, al quale io diedi le mie lettere: ed ebbero buon ricapito. Non voglio dire altro di questa terra, per essere stata distrutta, e dove eziandio il signore abita con sospetto.

Capitolo 6
Della città Merdin, e mirabil sito e altezza di quella. Le parole che usò un peregrino a messer Iosafa circa il sprezzar del mondo. Della città Asiancheph, e sue altissime abitazioni; di un gran fiume e mirabil ponte che vi è posto sopra.

Giugnemmo poi alla radice d’un monte, il qual è sopra un altro monte, e ha una città chiamata Merdin, alla quale non si può andar se non per una scala fatta a mano, i gradi della quale sono di pietra viva, di passi quattro l’uno con le sue bande, e dura per un miglio; al capo di questa scala è una porta, e poi la strada che va nella terra. Il monte d’ogn’intorno cola acqua dolcissima, e per tutta la terra sono fontane assai. E nella terra è un altro monte, il quale quasi tutto intorno è una rocca alta da passi cinquanta in suso, nell’ascender del quale si trova una scala simile alla sopradetta. Non ha questa terra altre mura che quelle delle case; è lunga un terzo di un miglio; ha da fuochi 300 dentro, e in essi popolo assai. Fa lavori di seta e di gottoni assaissimi, ed è similmente del signore Assambei. Sogliono dire i Turchi e i Mori che tanto è alta che coloro li quali vi abitano non veggono mai volare uccelli sopra di sé. In questo luogo albergai in un ospitale il quale fu fatto per Ziangirbei, fratello del signore Assambei, e dove tutti quelli che vi vanno hanno da mangiare: e se sono persone che paiano da qualche conto, gli vengono messi sotto ai piedi tapeti da più di ducati cento l’uno.

Voglio dir qui una cosa assai rara, e nelle parti nostre rarissima, la quale m’intravenne. Stavomi un giorno solo sedendo nell’ospitale, ed ecco che viene a me uno carandolo, cioè un uomo nudo, toso, con una pelle di capriuolo davanti, bruno, di anni circa trenta, e si pose a sedere appresso di me, e tolsesi di tasca un suo libretto e incominciò a legger divotamente con buoni gesti, come se a nostro modo dicesse l’ufficio. Non molto dopo mi si fece ancor più appresso, e dimandò chi io era; e rispondendogli io che era forestiero, mi disse: “Ancor io son forestiero di questo mondo, e così siamo tutti noi: e però l’ho lassato, e fatto pensiero di andarmene in cotal modo insino alla mia fine”, con tante altre buone ed eleganti parole, che a me faceva una gran maraviglia, confortandomi al ben vivere, al viver modestamente e a disprezzare il mondo, dicendo: “Tu vedi come io me ne vado nudo per lo mondo. Ho visto gran parte di esso, e niente ho ritrovato che mi piaccia, per la qual cosa ho deliberato d’abbandonarlo al tutto”.

Partendoci da Merdino cavalcammo giornate sei insino ad una terra del signore Assambei la qual si chiama Assanchif: e prima che vi si giunga si vedono nella costa d’un monte piccolo, a man destra, abitazion d’uomini infinite, cavate nel proprio monte, e a mano sinistra si ritrova il monte, sopra il quale è edificata la detta terra, alla cui radice sono anche grotte, dove abita gente assai. Le qual grotte per tutta una faccia del detto monte sono innumerabili, tutte assai alte da terra, con le loro strade che guidano alle dette abitazioni, alcune delle quali sono alte più di passa trenta, di modo che, quando vanno con le persone e animale per le dette strade, par che caminino in aere, tanta è la loro altezza. Continovando il camino e voltandosi a man manca si va nella terra, nella quale si ritrovano mercanti di gottoni e d’altri mestieri: è terra di passo assai frequentato. Volge un miglio e mezo col suo borgo, nel quale si trovano molte belle abitazioni e alcune moschee. Di qui si passa un fiume il cui nome è Set, già fu detto Tigris, bello e profondo, largo, infino a quel luogo, da passi 30, per un ponte di legnami grossi, i quali per forza di peso stanno sopra le teste che toccano terra, imperoché per la profondità del fiume non possono sostentarsi in acqua.

Capitolo 7
D’una terra detta Sairt e di due fiumi, uno chiamato Betelis, l’altro Issa.

Passato questo monte ce ne andammo per campagne e per luoghi montuosi, non troppo né alti né asperi, lontano dai quali due giornate, andando quasi verso levante, si ritrova una terra detta Sairt, la quale è fatta in triangolo, e da una delle parti ha un castello assai forte, con molti torrioni, parte delle mura della quale sono ruinate. Dimostra essere stata terra bellissima: volge tre miglia; è benissimo abitata, ornata di case, di moschee e di fontane bellissime. Nella qual volendo entrare, passammo due fiumi per due ponti di pietra di un volto l’uno, sotto li quali passeria un gran burchio delli nostri con tutto il suo arbore, e ambidue sono fiumi grossissimi e veloci: uno si chiama Betelis, l’altro Issan. E per infino a questo luogo si estende l’Armenia minore. Non si trovano gran monti né gran boschi, né ancor case diverse dalla consuete; sonvi per la regione ville assai. Vivono di agricoltura, come si fa di qui; hanno frumenti e frutti e gottoni assai, buoi, cavalli e altri animali assai. Hanno oltra di questo capre in copia, le quali pelano ogni anno, e di quella lana fanno ciambellotti: le quali essi governano e tengono lavate e nette.

Capitolo 8
Del monte Tauro. Curdi, popoli crudelissimi. D’una terra detta Chexan. Di Choy e Tauris città.

Ora cominciaremo a entrare nel monte Tauro, il qual principia verso il mar Maggiore, nella parte di Trabisonda, e vassene per levante e sirocco verso il sino Persico. All’intrare di questo monte sono monti altissimi e aspri, abitati da certi popoli i quali si chiamano Curdi, che hanno uno idioma separato dalli circonvicini, e sono crudelissimi, non tanto ladri quanto assassini. Hanno castelli assaissimi, edificati su le rupi e brichi, a fin di star sui passi e robar li viandanti: molti dei quali però sono stati ruinati dalli signori, per i danni che hanno fatto alle caravane le quali passano di lì. Ho fatto della condizion loro qualche isperienza, imperoché, essendo con certi compagni adì quattro d’aprile 1474 levato da una terra nominata Chexan, la quale è d’un signore sottoposto al signore Assambei, circa meza giornata lontano dalla terra, avendo in compagnia l’ambasciador del signore Assambei, sopra di una alta montagna fussimo assaltati da questi Curdi, e il detto ambasciadore e il mio cancelliero insieme con due altri furono morti, io e due altri feriti; ne tolsero le some e tutto ciò che trovarono. Io, essendo pur a cavallo, mi tolsi del cammino e fuggi’ solo; quelli due feriti mi vennero poi a trovare, e insieme ci accompagnammo con uno califo, cioè capo de’ peregrini, e camminassimo al meglio che potessimo.

Il terzo giorno dopo giugnemmo a Vastan, città ruinata e male abitata, di circa 300 fuochi; due giornate lontano ritrovassimo una terra nominata Choi, la quale ancora essa era ruinata, e faceva da fuochi 400: vivono di artificii e di lavorar la terra. Essendo circa la fine del monte Tauro, deliberai di separarmi da questo califo: tolsi uno dei suoi compagni per mia guida, e in tre giornate fui appresso di Tauris, città famosissima. Essendo su la campagna, ritrovai certi Turcomani, i quali erano accompagnati con alcuni Curdi, che venivano verso di noi, li quali dimandarono dove noi andavamo; io li risposi che andava a ritrovare il signore Assambei, con lettere indrizzate a sua signoria. Richiesemi uno di loro che gliele mostrassi: e dicendogli io mansuetamente che non era onesto ch’io le dessi nelle sue mani, alzò un pugno e percossemi una mascella tanto fortemente che quattro mesi dopo mi durò quel dolore; batterono eziandio il mio interprete, e lascionne molto malcontenti, come si può pensare.

Capitolo 9
Come messer Iosafa gionse al signor Assambei, e l’accetto e presente ch’esso signor li fece; e descrivesi l’abitazione d’esso signore. D’una festa che si suol fare in piazza.

Gionti che fussimo a Tauris, che già fu detta Ecbatana, capo della Media, capitassimo in un caversera, cioè secondo noi fontego, donde io feci sapere al signore Assambei, il quale si ritrovava lì, che io era gionto e che desideravo d’andare alla sua presenzia. E subito la sequente mattina, mandando egli per me, mi appresentai a lui, così mal in ordine che mi rendo certo che tutto quello che io avevo in dosso non valeva duoi ducati. Videmi volentieri, e di primo mi disse ch’io fussi il ben venuto, e che ben egli aveva inteso la morte del suo ambasciadore e degli altri due e de l’assassinamento fatto a noi, promettendo di provedere a tutto in modo tale che non avessimo alcun danno. Poi gli appresentai la lettera di credenza, la qual sempre tenevo in petto: fecela leggere a me, conciosiaché altri non si ritrovassi appresso di lui che la sapesse leggere, e interpretar da uno interprete. Inteso che ebbe quello ch’ella diceva, rispose che io dovessi andare alli suoi (parlando a nostro modo) consiglieri, e che dicessi tutto quello che n’era stato rubbato, e che lo mettessi in nota, e altro, se io aveva da dire; e poi che me n’andassi alla mia abitazione, dove, quando gli pareria tempo, manderia per me.

Il luogo dove ritrovai questo signore stava in questo modo: prima aveva una porta, e dentro di essa un spazio quadro di quattro over cinque passi, dove sedevano li suoi primi da otto in dieci; eravi poi un’altra porta appresso di questa, su la quale stava un uomo, per guardia di essa porta, con una bacchetta in mano. Entrato che fui in questa porta, trovai un giardino quasi tutto prato di trifoglio, murato di terreno, dalla banda dritta del quale è un lastricato; poi circa passa trenta è una loggia, a nostro modo in volto, alta da quel lastricato quattro over sei scalini. In mezo di questa loggia è una fontana simile a un canaletto, sempre piena; e nell’entrar di detta loggia, a man sinistra, stava il signore a sedere su un cussino di broccato d’oro, con un altro simile dietro alle spalle, allato del quale era un brocchiero alla moresca con la sua scimitarra: e tutta la loggia era coperta di tapeti; attorno sedevano li suoi primi. La loggia era tutta lavorata di musaico, non minuto come usiamo noi, ma grosso e bellissimo, di diversi colori.

Il primo giorno che mi ritrovai in quel luogo vi erano alcuni cantori e sonatori, con arpe grandi un passo, le quali essi tenevano riverso, cioè capi a piedi, leuti, ribebe, cimbali, pive e canti di voci pieni di dolce concento. Il dì seguente mi mandò a vestir due veste di seta, le quali furono un subbo fodrato di varo e giubbo, un fazzuol di seta da cingere, una pezza di bambagio sottile da mettere in capo, e ducati 20; e mandommi a dire che io andassi al maidan, cioè alla piazza, a vedere il tanfaruzo, cioè la festa. Andai lì a cavallo, e trovai su quella piazza circa uomini 3000 a cavallo, e a piedi più di due volte tanto; e li figliuoli del signore stavano ad alcune finestre. Quivi furon portati alcuni lupi salvatichi, legati per un piè di dietro con alcune corde, i quali ad uno ad uno erano lasciati andare insino a mezo la piazza; poi uno atto a ciò si faceva avanti alzando le mani per dargli, e il lupo all’incontro gli andava alla via della gola: ma, per esser colui molto atto e per sapersi schifare, non lo brancava se non nei bracci, dove non gli poteva far male, per non poter trapassar coi denti quelle giubbe di che era vestito. Li cavalli per paura fuggivano fra gli altri, e molti d’essi cascavano sottosopra, parte in terra e parte in quell’acqua la qual passa per la città; e quando avevano stanco un lupo, ne facevano venire un altro: e questa festa facevano ogni venere.

Capitolo 10
D’un nobilissimo presente mandato da un signor dell’India al signor Assambei.

Finita la festa, io fui condotto al signore nel luogo detto di sopra, e fui fatto sedere in luogo onorato. E sedendo tutti quelli che potevano sedere in questa loggia, e gli altri secondo le lor condizioni, in su tapeti alla moresca, furon messi mantili attorno su ne’ tapeti, e avanti di ciascheduno fu posto un bacil d’argento, nel quale era una inghistara di vino e uno ramin d’acqua e una tazza, tutte d’argento. Vennero in questo mezo alcuni con certi animali che erano stati mandati da un signor d’India, il primo dei quali fu una leonza in catena, menata da uno che aveva pratica di simil cose, la quale, in suo linguaggio chiamata baburth, è simile a una leonessa, ma ha il pelo vermiglio, vergato tutto di verghe negre per traverso; ha la faccia rossa con tacche bianche e negre, il ventre bianco, la coda simile a quella d’un leone; mostra d’esser bestia molto feroce. Poi fu condotto un leone e messo con la leonza un poco da largo, e subito la leonza si messe guatta per voler saltar, come fanno le gatte, adosso al leone: se non che colui il qual l’aveva a mano la tirò da lontano. Furono poi menati due elefanti, i quali, quando furono per mezo il signore, a certa parola che gli disse colui che gli menava guardarono il detto signore abbassando la testa con una certa gravità, come se gli volsero far riverenza. Il maggior di questi fu menato poi a un arbore che era nel giardino, grosso quanto è un uomo a traverso, e dicendo colui che l’aveva in catena certa parole, mise la testa al detto arbore e dettegli alcune scoriate, poi si voltò all’altra parte e fece il simile, in modo che lo cavò.

Fu menata poi una zirafa, la quale essi chiamano zirnafa, over giraffa, animale alto in gambe quanto un gran cavallo e più: ha le gambe di dietro mezo piè più corte di quello che sono quelle davanti; ha l’unghia fessa come il bue; ha il pelo quasi pavonazzo; per tutta la pelle sono quadri negri, grandi e piccoli secondo il luogo; il ventre è bianco, con un pelo assai longhetto; la coda ha pochi peli, come la coda dell’asino; ha corna piccole, simili a quelle d’un capriuolo; ha il collo lungo un passo e più; ha la lingua lunga un braccio, pavonazza e tonda come una anguilla: tira con la lingua erba e rami dall’arbore che ha da mangiare, con tanta prestezza che a mala pena si vede. La testa è simile a quella d’un cervo, ma più polita, con la quale stando in terra giugne alto 15 piedi; ha il petto più largo che un cavallo, ma la groppa stretta come quella d’un asino; mostra d’essere animal bellissimo, non però da portar pesi. Dopo questo furono portati in tre gabbie tre para di colombi bianchi e negri, simili alli nostri, eccetto ch’aveano il collo un poco lungo, a similitudine dell’oca: delli quali credo che in quel luogo ne sia gran penuria, perché altramente non gli averian portati. Dietro a questi furon portati tre papagalli dal becco grande, di diversi colori, e due gatti di quelli che fanno il zibetto.

Io mi levai poi, e andai in una camera dove mi fu dato da mangiare; mangiato che ebbi, colui che era sopra li ambasciatori mi dette licenzia, e dissemi ch’io andassi nella buon’ora. Poco dopo ch’io fui giunto a casa fu mandato per me, e ritornato al signore fui domandato perché m’era partito: risposi ch’el meimandar mi avea dato licenzia, e il signore, indegnato contra di costui, lo fece chiamare e in sua presenzia distendere e battere; otto giorni dopo, per mia intercessione, fu tolto in grazia. Il giorno dietro che costui fu battuto, il signore mi fece chiamare la mattina: andai e lo trovai nel luogo sopradetto, e fui posto a sedere dove ero stato posto prima. In questo giorno (per esser giorno di festa, e per la venuta degli ambasciadori d’India) furon fatti molti onorevoli trionfi. E prima i suoi cortigiani furon vestiti di panni d’oro e di seta e di ciambellotti di diversi colori: erano a sedere nella loggia circa 40 dei più onorevoli, negli anditi circa 100, di fuora de li anditi circa 200, tra le due porte circa 50, nella piazza attorno a torno circa 20000, tutti a sedere con aspettazion di mangiare, in mezo dei quali erano cavalli circa 4000. Stando in questo modo vennero gli ambasciadori d’India, i quali furon posti a sedere per mezo il signore, e incontinente s’incominciarono a portar li presenti, i quali passavano dinanzi al signore e a quelli che erano in sua compagnia, li quali furono li sopradetti. Dipoi circa uomini 100 l’un dietro all’altro, i quali avevano sopra le braccia cinque tolpani per uno, cioè cinque pezze di tele bombacine sottilissime, delle quali si fanno quelle sesse da mettere in capo: vagliono cinque in sei ducati l’una. Dapoi vennero sei uomini che avevano sei pezze di seta per uno in braccio; poi vennero nove, ciascuno dei quali aveva in mano una tazza d’argento, nelle quali erano pietre preziose, come dimostrerò di sotto. Dietro a questi vennero alcuni con catini e piadene di porcellana, poi alcuni con legni di aloè e sandali grossi e grandi; e poi vennero circa 25 colli di specie, portati con stanghe e corde, a ciascuno dei quali erano quattro uomini. Passati questi fu portato da mangiare ad ognuno. Dopo il mangiare, il signore dimandò a questi ambasciadori se nelle parti d’India vi era altro signor che ‘l suo che fusse mossulman, che vuol dir macomettano: risposero che ne erano due altri, e tutto il resto erano cristiani.

Capitolo 11
Delle gioie mandate dal signor dell’India sopradetto al signor Assambei, di che qualità fussero; e di molte preziosissime gioie del signor Assambei, per lui mostrate a messer Iosafa.

Il dì seguente il signore mandò per me, e dissemi che voleva darmi un poco di tanfaruzo e mostrarmi le gioie che gli erano state mandate da questo signore d’India: e primamente mi fece dare in mano un dital d’arco d’oro, che aveva in mezo un rubino di caratti due e intorno alcuni diamanti; due anelli d’oro con due rubini di caratti quattro; due fili di perle 60, di caratti cinque l’una; perle 24 legate in peroli di caratti sette l’una, bianche ma non ben tonde; un diamante in punta di caratti 20, non troppo netto ma di buona acqua; due teste d’uccelli morti in camino, i quali mostravano d’esser molto diversi dagli uccelli delle bande nostre.

Mostrate che mi ebbe queste gioie, esso mi domandò quel che mi pareva di questo presente, soggiugnendo: “Me l’ha mandato un signor di là dal mare”, cioè di là dal colfo di Persia. Gli risposi che ‘l presente era bellissimo e di grandissimo pregio, ma non però tanto grande che egli non ne meritasse molto maggiore. Dopo questo esso mi disse: “Io ti voglio mostrare ancor le mie”, e comandò che fusse tolta una tachia di seta da putto e che mi fusse data in mano. Io subito tolsi il fazzoletto in mano per pigliarla col fazzoletto e non la toccar con le mani, al quale atto esso mi guardò e, voltatosi ai suoi, sorridendo disse: “Guarda Italiani”, come se laudasse la maniera e modo mio nel tor quella tachia. In cima di questa tachia era un balasso forato della forma di un dattilo, netto e di buon colore, di caratti cento, attorno del quale erano certe turchese grandi ma vecchie, e certe perle grosse, ancora esse vecchie. Dietro a questo fece portare alcuni vasi di porcellana e di diaspro molto belli. Un’altra volta ch’io fui con esso, lo ritrovai in una camera sotto un paviglione, e allora mi dimandò quello mi pareva di essa, e se di così fatte se ne facevano nei luoghi dei Franchi; gli risposi che me ne pareva benissimo, e che non era da far comparazione tra i nostri luoghi e i suoi, conciosiaché molto maggior potenzia sia la sua che la nostra, e che da noi non si usano simil camere: e in vero era bellissima, ben lavorata di legnami, in modo di una cuba fasciata di panni di seta ricamati e dorati, e il pavimento tutto era coperto di bellissimi tapeti; poteva volger da quattordici passi. Sopra di questa camera era una tenda quadra, grande, ricamata, distesa in forza di quattro arbori, la quale gli faceva ombra; tra la quale e la cuba era un bel paviglione di boccascin, dalla parte di dentro tutto lavorato e ricamato. La porta della camera era di sandali a tarsia con fili d’oro e radici di perle, per dentro lavorata e intagliata.

Il signore sedeva insieme con certi suoi principali, e aveva avanti un fazzuolo ingroppato, il quale esso sciolse e ne trasse una filza di 12 balassi simili a olive, netti, di buon colore, di caratti da 50 in 57 l’uno. Dietro a questo tolse un balasso di oncie 2 e meza in tavola, di una bella forma, grosso un dito, non forato, di color perfettissimo, in un canton del quale erano certe letterine moresche. Dimandai che lettere erano quelle, ed esso mi rispose che erano state fatte per un signore, ma dapoi altri signori, ed egli similmente, non ci aveva voluto metter lettere, che in tutto saria stato guasto. Mi domandò poi quello che a mio giudizio poteva valer quel balasso; io lo guardai e sorrisi, ed egli a me: “Di’, che te ne pare?” Risposi: “Signore, io non ne vidi mai simile, né credo che se ne trovi alcuno che gli possa stare a parangone; e se io gli dessi preggio e il balasso avesse lingua, mi dimanderia se io ne avessi mai più veduto simili, e io saria constretto a rispondergli di no. Credo, signore, che non si possa appregiar con oro, ma con qualche città”. Guardommi e disse pian: “Cataini Cataini, tre occhi ha il mondo: due ne hanno i Cataini e uno i Franchi”. Baldamente disse bene il vero; e voltandosi verso li circonstanti disse: “Ho dimandato a questo ambasciadore quello che può valer questo balasso, e mi ha fatto la sì fatta risposta”, replicandoli tutto quello ch’io gli aveva detto.

Questa parola “Cataini Cataini” aveva udito io per avanti da uno ambasciador dell’imperador de’ Tartari, il quale ritornava dal Cataio del 1436, il qual facendo la via della Tana, io l’accettai in casa con tutti li suoi, sperando aver da lui qualche gioia. E un giorno, ragionando del Cataio, mi disse come quei capi della Porta del signore sapevano chi erano Franchi; e dimandandogli io se era possibile che avessero cognizion di Franchi, disse: “E come non la debbiamo aver noi? Tu sai come noi siamo appresso a Capha, e che di continuo pratichiamo in quel luogo, ed essi vengono nel nostro lordo”. E soggiunse: “Noi Cataini abbiamo due occhi, e voi Franchi uno”; e voltandosi verso i Tartari i quali erano lì soggiunse: “E voi nessuno”, sorridendo tuttavia. E però meglio intesi il proverbio di questo signore, quando usò quelle parole.

Fatto questo mi mostrò un rubino di oncia una e meza, alla forma di una castagna, tondo, di bel colore e nettezza, non forato, legato in un cerchio d’oro, il quale a me parve cosa mirabile, per esser di tanta grandezza. Mostrommi poi più balassi, gioiellati e non gioiellati, fra li quali ne era uno a tavola quadra, a modo di una bochetta, sul quale erano cinque balassi in tavola, e fra essi quello di mezo di caratti circa trenta, gli altri di caratti 20, in mezo dei quali erano perle grosse e turchesi grandi, ma non di gran conto, imperoché erano vecchie. Dopo questo fece portare alcuni subbi di panno d’oro e di seta e di ciambellotti damaschini, fodrati di seta e di armellini e di zibellini bellissimi, e dissemi: “Questi sono delli panni della nostra terra di Iesdi; i vostri sono belli, ma pesano un poco troppo”. Fece poi portare alcuni tapeti bellissimi, lavorati di seta.

Il dì seguente fui da esso, e fecemi andar da presso e disse: “Io voglio che tu abbi un poco di tanfaruzo”, e dettemi in mano un camaino della grandezza di un marcello, nel quale era scolpita una testa di donna molto bella, con capelli di dietro e con una ghirlandetta attorno. E dissemi: “Guarda, è questa Maria?” Risposi di no, ed esso replicò: “Mo, chi è ella?” E io gli dissi che era figura di qualcuna delle dee antique che adoravano i burpares, cioè gl’idolatri. Dimandommi come io lo sapeva, e io risposi che la conosceva, imperoché questi lavori furon fatti avanti l’avvenimento di Giesù Cristo. Scorlò un poco la testa e non disse altro. Poi mi mostrò tre diamanti, uno di caratti 30, di sotto e di sopra nettissimo, gli altri di caratti 10 in 12, tutti in punta, e dissemi: “Sonvi di sì fatte gioie da voi?” E dicendogli io di no, tolse in mano un mazzo di perle di fili 40, in ciascuno dei quali erano perle 30, di caratti cinque in sei l’una, la metà di esse tonde e belle, il resto da gioiellar, non disconce. Poi fece mettere in un bacile d’argento circa perle 40, simili a peri e zucche, di caratti 8 in 12 l’una tutte, non forate e di color bellissime, e soggiunse così ridendo: “Io te ne mostraria una soma”. Questo fu a una festa di notte, secondo la loro usanza, che fu alla circuncisione di due suoi figliuoli.

Capitolo 12
Li ricchi padiglioni che furono mostrati a messer Iosafa, e li vestimenti e selle ch’erano in due di quelli per donar via. D’una eccellente collazione portata avanti il signore, e d’una solenne festa per lui fatta; li giuochi che v’intravennero, e che pregi furon dati a’ giuocatori.

Il dì seguente, andando per esser con lui, lo ritrovai nella terra in uno campo grande, nel quale prima erano stati seminati frumenti, e dipoi per fare una festa segati in erba, e pagati a quelli di chi erano. In quello erano drizzati molti paviglioni, e il signore, voltosi verso alcuni di quelli che erano con esso lui, disse: “Andate e mostrategli questi paviglioni”. Erano in numero circa cento, dei quali me ne furono mostrati circa 40 dei più belli. Tutti avevano le lor camere dentro, e le coperte stratagliate di diversi colori, e in terra tapeti bellissimi, tra i quali e quelli del Cairo e di Borsa, al mio giudizio, è tanta differenza quanta è tra li panni di lana francesca e quelli di lana di San Matteo. Mi fece poi entrare in due paviglioni, i quali erano pieni di vestimenti secondo la loro usanza, di seta, e d’altre sorti di panni messi in un cumulo, da una delle bande dei quali erano molte selle fornite d’argento, e mi dissero: “Tutti questi fornimenti il dì della festa saranno donati via dal signore”; le selle erano 40. Mi mostrarono eziandio due porte lavorate, grandi, di sandali, di piedi sei l’una, intagliate con oro e radici di perle per entro, a lavor di tarsia; poi me ne tornai al signore, dal quale tolsi licenzia.

Il seguente giorno lo ritrovai a sedere nel suo luogo usato, dove gli furono portate otto piatene grandi di legno, in ciascuna delle quali era un pan di zuccaro candì fatto in diversi modi, di peso di libbre otto l’uno; attorno erano tazzette con confezioni di diversi colori, ma per la maggior parte di trezie. Poi furon portate piatene assai con altre confezioni: queste otto ordinò a cui si dovessero dare, nel numero dei quali io fui il primo; valevano per certo da quattro in cinque ducati l’una. Il resto fu dispensato fra gli altri secondo la condizion loro. Il seguente giorno lo ritrovai sedere insieme con persone più di 15000, e i principali tutti avevano tende di sopra il capo, e da cinque over sei stavan avanti il signore in piedi, e il signor comandava loro dicendo: “Andate a vestire i tali e i tali”, nominandogli. I quali andavano da quei tali e gli levavano da sedere, e gli menavano ai paviglioni dove erano li vestimenti, e gli vestivano secondo la lor condizione: e ad alcuni davano le dette selle, ad alcuni altri davano cavalli, li quali, a mio giudicio, furono da 40; li vestimenti circa 250, fra i quali fui ancora io.

Fatto questo vennero alcune femine, e cominciarono a ballare e a cantare insieme con alcuni che sonavano. Eravi su uno tapeto un cappello a guisa d’un pan di zuccaro, il quale aveva per sopra frappe e baronzoli al modo di cappelli de zubiari, e poco lontano stava uno a guardar quel che comandava il signore, il quale mostrò a chi doveva esser posto in capo quel cappello: e incontinente colui lo tolse e andò dinanzi a quell’altro, il quale si levò in piedi e, cavatosi la sessa, si mise quel cappello, che certo non era uomo di buona vista che non fusse paruto un brutto e deserto, e avendolo in capo venne avanti al signore ballando come sapeva. E il signore fece di atto a quello che stava lì in piedi e disse: “Dagli una pezza di camocato”, ed egli si tolse questa pezza e menavala attorno del capo di colui che ballava col cappello e degli altri uomini e femine, e dicendo alcune parole in onor del signore la gittava avanti li sonatori. Continuò questo ballare e gittar di pezze insino a ore 23, e per quanto io potei numerare in questo tempo tra damaschini, boccassini, ciambelotti, camocati e altri simili, furono donati da pezze 300, e da cavalli cinquanta.

Fatto questo cominciarono a giuocare alle braccia in questo modo: venivano dinanzi al signore dui nudi, con mutande di camozza fino alle cavecchie; non si afferravano a traverso, ma cercavano di pigliarsi su la coppa, e l’uno e l’altro si schifava da tal presa. Pur, quando uno aveva preso l’altro nella coppa, colui ch’era preso, non si potendo prevalere altramente, s’abbassava quanto più poteva e lo pigliava per la schiena e alzavalo, e cercava di gettarlo con la schiena in giù, imperoché altramente non s’intendeva esser gettato; in tanto che molti, li quali si lasciavano gettar giù in quattro, dopo gettavano il compagno in schena e vincevano. Presentossi allora avanti il signore uno di questi nudi, tanto grande che pareva un gigante. Il signore gli comandò che dovesse giuocare, dicendo: “Trovati un compagno”, ed egli s’inginocchiò avanti e disse alcune parole. Domandai quello ch’egli avea detto: mi fu risposto ch’avea domandato di grazia al signore che non lo facesse giuocare, perché altre fiate avea giuocato e nello stringere avea morti alcuni; e il signore gli fece la grazia. Questo giovane era bello e ben fatto, d’anni circa trenta. A questi giuocatori furono donati cavalli, e dopo ch’io fui partito durò infino a due ore di notte cotal festa, e furono donate altre cose assai. In quel tempo fu adornata tutta quanta la terra, e spezialmente il bazzaro, imperoch’ognuno metteva fuori le sue robbe. Fu eziandio posto un pregio di corridori a piedi, i quali avevano a correre un miglio e mezo, non di tutto corso ma d’un buon trotto. Essendo spogliati, nudi e unti tutti di grasso per conservazione de’ nervi, con una mutanda di cuoio per uno, cominciavano da un capo di certo spazio, e quando che trottando erano giunti all’altro capo toglievano da alcuni deputati una freccia bollata per dare ad intendere a coloro i quali, per esser molto lontani, non l’averiano potuto vedere, ch’erano giunti al termine; e trottando indietro, quando erano giunti al termine, anche lì toglievano una freccia. E così facevano per buon spazio di tempo, tanto quanto le gambe gli portava, e colui il quale più volte faceva questo cammino avea il pregio. Costoro a’ quali fu proposto simil pregio sono corrieri del signore, che camminano discalzi e quasi nudi, e non cessano mai di trottare le belle dieci giornate continove.

Capitolo 13
Come il signor Assambei andò alla campagna; d’un suo figliuolo che venne a visitarlo, e del presente fattoli per lui e suoi baroni; e come il signor cavalcò con gran prestezza verso Siras, intendendo quella città esser stata occupata per un altro suo figliuolo. Del modo e ordine del suo cavalcare.

Fatte queste feste, il signor deliberò d’andare alla campagna con le sue genti, secondo il lor costume, e domandommi s’io voleva andare con esso e stentare, o rimaner lì e darmi buon tempo. Gli risposi che più grato m’era d’esser dove egli si ritrovava, con ogni fatica e disagio, che dove egli non si ritrovava, con ogni riposo e abbondanza: parve che gli fusse molto grata questa risposta, e in segno di ciò incontinente mi mandò un cavallo, con un padiglione e denari. Partito adunque della città con la sua gente, cavalcò verso quelle parti dove intendeva esser migliori erbe e acqua, facendo da principio da miglia dieci in quindici il giorno; e con lui andorno tre suoi figliuoli. Chi volesse notare tutte le cose degne da notare torria una difficile impresa, e diria qualche volta cose poco meno che incredibili; onde io le noterò in parte, e del resto lascierò la cura a scrittori più diligenti, overo ad indagatori di queste cose più curiosi di quello che sono stato io. Essendo adunque in campagna, un suo figliuolo, il quale stava nelle parti di Bagdath, cioè Babilonia, insieme con la madre lo venne a visitare, e fecegli presentare venti cavalli bellissimi, cameli cento e alcuni panni di seta. Dopo per i baroni del detto figliuolo gli furno presentati cameli e cavalli assai, e in quel medesimo instante in mia presenza il detto signore gli donò a chi gli piacque; poi fu portato da mangiare.

Non molto dopo, essendo in campagna, gli venne nuova come un altro suo figliuolo, nominato Gorlumahumeth, avea occupato Siras, terra grande sottoposta al padre: e questo perché gli era stato detto che il detto suo padre era morto, ed egli voleva la terra per sé. Sentita questa novella, incontinente il signor si levò e con tutta la sua gente se n’andò a Siras, la quale era lontana dal luogo dove noi eravamo miglia 120: e andò con tanta prestezza che da mezzanotte per infino al vespero seguente facemmo miglia 40, che a pena in tre giorni s’averia giunto lì. Chi potria credere che tanto popolo, cioè maschi, femine, putti in cuna, potessero far tanto cammino portando tutte le lor robbe seco, con tanto modo e ordine, con tanta dignità e pompa, che mai non gli mancasse il pane e rarissime volte il vino, il quale per il simile mai non saria mancato, se non fusse che buona parte di loro non ne beve; e oltre di questo abbondasse di carne, di frutti e di tutte l’altre cose necessarie? Io che l’ho veduto non solamente lo credo ma lo so, e acciò che quelli i quali vi capiteranno intendano s’io scrivo il vero o no, e quei che non hanno volontà di capitar là possano credere, io ne farò di ciò special menzione.

Li signori e uomini da fatti, i quali sono col signore, e hanno seco le moglie, i figliuoli, i famigli, le fantesche e le facultà, sogliono avere nel suo comitato cameli e muli assai, il numero de’ quali metterò qui di sotto. Questi portano li putti da latte in cuna su l’arcione del cavallo, e la madre over balia cavalcando gli latta; le cune sono una più l’altra manco bella, secondo le condizioni de’ padroni, co’ lor felci di sopra lavorati d’oro e di seta. Con la man sinistra tengono la cuna e con quell’istessa la briglia; con la destra cacciano il cavallo battendolo con una scorreggiata, la quale gli è legata al dito picciolo. Li putti che non sono da latte portano pure a cavallo, su alcune pergolette che sono di là e di qua coperte e lavorate secondo le lor condizioni. Le donne vanno a cavallo, accompagnate l’una con l’altra, con le lor fantesche e famigli avanti secondo il grado loro. Gli uomini da fatti seguono la persona del signore, e sono tutti di tanto numero che da un capo all’altro di questa gente è una meza giornata. Le donne vanno col volto coperto di tela tessuta di seta di cavallo, così per non esser vedute come eziandio per non ricever polvere negli occhi cavalcando per luogo polveroso, e per non essere offese nella luce cavalcando contra il sole quando è bel sereno.

Capitolo 14
La rassegna delle genti ch’erano col signore, col numero de’ padiglioni, cameli, muli e mandrie d’animali e più altre cose.

Fu fatta in quel tempo la mostra della gente e degli animali, in questo modo: in una campagna grandissima fu circondata da cavalli, che l’uno toccava la testa dell’altro, con gli uomini su, parte armati e parte no, una superficie circa di 30 miglia, li quali stettero così dalla mattina insino a 24 ore. Era qualcuno ch’andava sopravedendo e facendo la descrizione: non però che togliesse in nota il nome né i segni de’ cavalli, come si suol fare di qua, ma solamente domandava chi erano i capi, e guardavano il numero e com’erano in ordine, e scorreva. Io con un famiglio, scorrendo presto, andavo contando con alcuni grani di fava, i quali gittavo nella scarsella quando avevo numerata una cinquantina. Fatta poi la mostra feci la descrizione, e trovai il numero e qualità dell’infrascritte cose, le quali metterò secondo l’ordine ch’io ho in scrittura: padiglioni 6 mila, cameli 30 mila, muli da soma 5 mila, cavalli da soma 5 mila, asini 20 mila, cavalli da conto 20 mila.

Di questi cavalli circa duemila erano coperti di certe coperte di ferro a quadretti, lavorati d’argento e d’oro, legati insieme con magliette, le quali andavano quasi in terra; per sotto l’oro avevano una frangia. Gli altri erano coperti alcuni di cuoio al nostro modo, alcuni di seta, alcuni di giubbe lavorate tanto densamente ch’una freccia non l’avria passate. Le coperte da dosso dell’uomo erano tutte nel modo d’una delle soprascritte di ferro. Quelle ch’abbiamo detto prima si fanno in Beschent, che in nostra lingua vuol dire cinque ville, la qual è una terra che volge due miglia ed è su un monte, nella quale non abita alcuno salvo quelli dell’arte: e se alcun forestiero vuol imparar l’arte, è accettato con sicurtà di mai non si partir di lì, ma stare insieme con gli altri e far l’arte. Vero è che eziandio altrove si fanno simili lavori, ma non così sufficienti.

Muli da conto 2 mila, mandrie d’animali minuti 20 mila, animali grossi 2 mila, leopardi da caccia cento, falconi gentili e villani dugento, levrieri 3 mila, bracchi mille, astori cinquanta, uomini da spada 15 mila, famigli, camelieri, bazzariotti e simili, con spada 2 mila, con archi mille; possono essere in somma uomini a cavallo da fatti 25 mila, villani pedoni con spade e archi 3 mila, femine da conto e mezzane in somma diecimila, fantesche 5 mila, putti e putte da dodici anni in giù 6 mila, putti e putte in cune e pergole cinquemila. In questo numero d’uomini e cavalli sono lancie circa mille, targhette 5 mila, archi circa diecimila; il resto chi con una cosa chi con un’altra.

Ne’ bazzari sono le cose sottoscritte con li loro prezzi e maestri, e primamente i maestri da far vestimenti, calzolai, fabri, maestri da selle, da freccie e da tutte le cose che bisognano al campo in gran numero. Poi sono quelli che fanno pane e tagliano carne, e che vendono frutti e vino e altre cose, con grandissimo ordine, che di tutto si truova; vi sono eziandio speziali assai. Il pane costa poco più di quello che costa in Venezia; il vino costa a ragione di ducati quattro la nostra quarta, non perché nel paese non ve ne sia, ma perché in buona parte non ne usano. Carne a ragion di tre e quattro marchetti la libra, formaggio marchetti tre, risi marchetti 2 e mezo, frutti d’ogni sorte marchetti tre, similmente i melloni, dei quali se ne trovano che pesano libre 24 in 30 l’uno; biada da cavalli a ragion di marchetti otto la prebenda; la ferratura d’un cavallo a ragion di marchetti 36; di cinghie, feltri, corami, selle e altri fornimenti da cavallo è gran carestia. Cavalli da vendere non si trovano, salvo che ronzini, i quali vagliono ducati otto in dieci l’uno: vengono di Tartaria (come abbiamo detto di sopra) mercanti con cavalli 4000 in 5000 in un chiappo, i quali sono venduti da quattro, cinque in sei ducati l’uno, e sono da soma e piccioli.

Nel numero de’ cameli soprascritti ne sono 8000 da due gobbe: hanno le lor coperte lavorate, con campanelle, sonagli e paternostri di più sorti. Di questi (secondo la condizion delle persone) tal ne ha dieci, tal venti, tal trenta, legati uno in capo dell’altro, e per pompa ciascuno mena li suoi, né mai vi mette alcuno suso. Gli altri cameli da una gobba portano i paviglioni e le robe delli patroni in casse, sacchi e some; similmente nel numero dei muli soprascritti ne sono da 2000 che non portano cosa alcuna ma sono menati per pompa, coperti con coperte belle e lavorate meglio di quello che sono le coperte dei cameli. A questo istesso modo sono, nel numero de’ cavalli soprascritti, da 1000 così adornati.

E quando si cammina di notte col popolo, uomini da conto, e similmente le donne, si fanno portare avanti lumiere al nostro modo, le quali sono portate da famigli e fantesche. Quando il signor cavalca, vanno avanti di lui cavalli 500 e più, dinanzi ai quali vanno alcuni corrieri, con una bandiera in mano bianca e quadra, gridando: “Largo, largo”, e tutti escono della strada facendo largo. Questo è una parte di quello che ho veduto circa il modo, ordine e degnità e pompa che usano queste genti col suo signore nel lor campo quando stanno alla campagna, ed è molto meno di quello potria dire.

Capitolo 15
D’una terra detta Soltania; d’una gran moschea che vi è dentro, particolarmente descritta. D’un’altra terra chiamata Culperchean. Della severità usata per il detto signor contra un suo suddito.

Io in quel tempo, per non mi sentir bene, mi parti’ di campo e andai fuor di man circa meza giornata a Soltania, che in nostro idioma vuol dir imperiale. Questa è una terra la qual mostra essere stata nobilissima, ed è del detto signore: non ha mura, ma un castello murato, il quale è ruinato per essere stato distrutto già quattro anni avanti da un signore chiamato Giausa. Volge il castello un miglio; di dentro ha una moschea alta e grande, in quattro crociare di quattro volti alti, con la cuba grande, la quale è maggiore di quella di San Giovanni e Paolo da Venezia di tre tanta larghezza: uno dei quali volti in capo ha una porta di rame alta tre passi, lavorata a gelosie. Dentro vi sono sepolture assai delli signori che erano a quel tempo. Per mezo di questa porta n’è un’altra simile, e dai lati due altre minori, una per lato in croce, in modo che la cuba grande ha quattro porte, due grandi e due picciole, le balestrate delle quali sono di rame, larghe tre quarti di un braccio e grosse mezo braccio, intagliate col borio a fogliami e disegni a lor modo bellissimi, per dentro dei quali è oro e argento battuto, che in vero è cosa mirabile e di valore grandissimo. Le gelosie delle porte che ho detto di sopra stanno in questa guisa: sono alcuni pomi grandi come pani, alcuni piccioli come narancie, con alcuni bracciuoli i quali brancano l’un pomo e l’altro, come mi ricordo aver già veduto scolpito in legno in qualche luogo. La manifattura dell’oro e dell’argento è di tanto magisterio che non è maestro dalle bande nostre che gli bastasse l’animo di farla, se non in gran tempo. La terra è assai grande, circonda miglia quattro, è fornita bene di acque: e se da altro non si potesse comprendere, dal nome solo s’intende che è stata molto notabile. Al presente è male abitata: può far da anime 7000 in 10000 e forse più.

Stando nella detta terra, fui avisato come il signore, avendo sentito quello di che ho fatto menzione di sopra, che un suo figliuolo aveva occupata Siras, si levava di lì con la sua gente per seguire il cammino verso Siras, e incontinente mi levai da Soltania, dove allora mi ritrovavo, e andai a Culperchean, che vuol dire in nostra lingua schiavo del signore; terra picciola, ma tale che mostra pur aver avuti di buoni edificii, per le ruine che vi si veggono. Volge due miglia, e fa fuochi circa 500. Nel qual luogo morì il mio interprete, e da quel tempo indietro, mentre ch’io stetti in quel paese, che fu circa cinque anni, mai trovai alcuno ch’avesse la lingua, e però fu necessario che io, il quale la intendeva, facessi l’ufficio dell’interprete, oltra il costume degli altri ambasciadori. Partito di lì me n’andai verso il signore, il quale sollecitava il suo cammino a Siras.

Un giorno, essendo con esso, viddi una gran severità di questo signore. Eravi appresso di lui uno chiamato Coscadam, di anni circa 80, gagliardo però della persona, il quale aveva da circa cinque over sei figliuoli, tutti onorati dal signore, ed esso era uomo di grado appresso il detto signore. Comandò che costui fusse preso, per avere inteso che Gorlumahumeth suo figliuolo, che aveva occupato Siras, gli aveva scritto alcune lettere, le quali esso non gli aveva voluto mostrare; e prima gli fece rader la barba, e poi comandò che fusse portato alla beccaria e che fusse spogliato e, tolti due uncini di quelli con li quali si appicca la carne, gli fussero ficcati dietro alle spalle uno per lato, e che così fusse appiccato a basso dove si appicca la carne, essendo tuttavia vivo: il quale de lì a due ore morì. E per quanto io intesi questo Gorlhumaumeth, inteso che ‘l padre veniva a Siras, si era levato di lì e stavasi di fuora, e scriveva a un suo zio pregandolo che lo raccommandasse al padre, ch’egli era apparecchiato di stare dove il padre voleva, pur che gli desse da vivere.

Capitolo 16
La qualità della region di Persia. Il modo che usano Persiani di condur l’acqua di lontano quattro e cinque giornate. Superstizione che usano per guarir della febre e altre infirmità.

Tutta questa provincia della Persia fino a qui, per la via che noi abbiamo cavalcata, è paese deserto, cenericcio, cretoso, scoglioso e petroso e di poche acque: e di qui viene che dove si trovano acque sono qualche ville, in gran parte però distrutte, ciascuna delle quali ha un castello fatto di terreno. Le sementi, le vigne e i frutti sono fatti per forza di acque, in modo che dove non si hanno acque male vi si può abitare; sogliono menarle per sotto terra quattro e cinque giornate lontano dalli fiumi, d’onde le tolgono e le menano in questo modo. Vanno al fiume e fanno appresso una fossa simile a un pozzo, poi vanno cavando al dritto verso il luogo dove la vogliono condurre, con la ragion del livello, sì che abbia a descendere un canaletto il qual sia più profondo che non è il fondo della fossa detta di sopra, e quando hanno cavato circa 20 passa di questo canaletto fanno un’altra fossa simile alla prima, e così di fossa in fossa menano per quei canali l’acqua dove che vogliono, over fanno (per dir meglio) l’alveo e acquedutto per il quale si possa menare. Quando hanno fornito quest’opera, aprono il capo della cava verso il fiume e le danno l’acqua, la quale per quei loro acquedutti conducono nella terra e dove vogliono, menandola per le radici dei monti e togliendola alta nel fiume, imperoché, se non facessero in cotal modo, non ci potriano stare, attendendo che quivi rare volte piove. Dicendo io a quelli dell’esercito che ‘l paese loro era molto sterile, mi rispondevano che non mi dovessi maravigliare, perché la via che facevano era fresca, nella qual si trovavano miglior erbe, ed era in paese molto più sano.

In queste parti non ci sono boschi né arbori, dico pur uno, salvo che fruttari, che piantano dove gli posson dare acqua, che altramente non s’appigliariano. I legnami con li quali fanno le case sono albare, delle quali tante ne piantano in luoghi acquosi che sono bastanti al lor bisogno: e però hanno tra loro ottimi marangoni, i quali dalla necessità sono astretti a sparagnare; e d’un legno che volge due palmi, segato in tavole, fanno una porta di duo passa lunga, soazata e tanto ben lavorata di fuora via e ben commessa che certo è una maraviglia, e in questo modo fanno eziandio balconi e altri lavori all’uso domestico necessarii; vero è che di dentro via si veggono li pezzi. Di questi legni fanno eziandio le case. E a confermazione che non ci siano altri arbori né piccioli né grandi, né in monte né in piano, ho ritrovato alcune fiate uno arbusto de spini, al quale per un miracolo ho veduto legare pezze e stracci assai, con li quali si danno ad intendere di guarire da febre e altre infirmitadi. Nel campo, quantunque ci sia gente assai, non si truova uno che si lamenti: tutti stanno di buona voglia, cantano, sollazzano e ridono.

Capitolo 17
D’una terra nominata Saphan, e d’alcune notabili antichità che in essa si trovano. Della città detta Cassan, e i lavori che si fanno in quella. Di Como città e quello produce. Di Iexdi, e costumi di quei mercanti nel vender le lor robbe.

Seguendo il cammino trovammo una terra nominata Saphan, la quale è stata mirabile, e infino al presente è murata con terreno e fossi; volta circa miglia quattro, e mettendo in conto li borghi circa miglia dieci; nelli borghi sono così belli edificii come nella terra.

Intesi che, per esser numerosa di popolo e per aver molta gente da fatti e per esser ricca, qualche volta non dava così ubbidienza al suo signore; e che ora anni venti, essendo signor della Persia uno chiamato Giausa, il quale fu a questa terra per volerla mettere in ubbidienza, esso, acconciate le cose sue, si partì. Ma poco dopo, avendo ribellato, mandò il suo esercito, commandando a tutti quelli dell’esercito che nel ritorno portassero una testa per uno, saccheggiata e brusciata che avessero la terra; i quali ubbidirono alla polita, in tanto che, sì come io essendo in quelle parti senti’ parlare a molti di quelli che erano stati in quello esercito, alcuni i quali non trovarono così teste di maschi si mettevano a tagliar le teste delle femine e le radevano il capo per ubbidire: di qui viene che tutta la ruinorno e dissiporno. Al presente per la sesta parte si abita. Ha molte antiquità grandi e notabili, fra le quali questa tiene il principato, che in essa è una cava quadra con acqua dentro alta un passo, viva e netta e buona da bere, d’intorno la quale è una riva, e attorno di essa colonne con li suoi volti, stanze e luoghi innumerabili da mercanti con le lor mercanzie: il quale luogo la notte si tien serrato per sicurtà delle robbe. Altre più cose e lavori belli si ritrovano in questa terra, della quale al presente non dirò altro che questo, che in quel tempo (per quel che dicono alcuni) aveva da 150000 anime in suso.

Trovammo poi Cassan, città ben popolata, nella quale per la maggior parte si fanno lavori di seta e gottoni, in tanta quantità che chi volesse in un giorno comprar per 10000 ducati di questi lavori gli troveria; volge circa miglia tre, è murata, e di fuora ha bei borghi e grandi. Giugnemmo poi a Como, città mal casata, la quale volge sei miglia ed è murata; non è terra di mestiero, ma vivono di lavorar la terra, fanno vigne e giardini assai, e melloni perfettissimi, taluno dei quali pesa libre trenta: sono verdi di fuora e dentro bianchi, dolci quanto un zuccaro; fa fuochi ventimilia.

Seguendo più oltra trovammo Iesdi, terra di mestieri, come sarian lavori di seta, gottoni, ciambellotti e altri simili; volge circa miglia cinque, è murata, ha borghi grandissimi, e quasi tutti tessono e lavorano di diversi mestieri. Delle sete che vengono da Strava e da l’Azi e dalle parti che sono verso i Zagatai, verso il mar di Bachù, le migliori vengono a Iesdi, la qual poi fornisce dei suoi lavori gran parte dell’India, della Persia, dei Zagatai, dei Cini e Macini, parte del Cataio, di Bursa e della Turchia, di modo che chi vuol buoni panni della Soria e belli e buoni lavori tolgono di questi. E quando va un mercante a questa terra per lavori va nel fontego, nel quale attorno attorno sono botteghini, e in mezo un altro luogo quadro pur con botteghe: ha due porte con una catena, accioché in esso non entrino cavalli. Questo e altri mercanti entrano, e se vi cognoscono alcuni vanno a sedere lì; se non, seggono dove lor piace in questi botteghini, ciascun dei quali è sei piedi per quadro; e quando sono più mercanti, seggono uno per botteghino. A un’ora di giorno vengono alcuni, con lavori di seta e d’altre sorti in braccio, e passano intorno non dicendo altro; ma i mercanti che stanno lì, se veggono cosa che piaccia loro, gli chiamano e guardanla da presso se gli piace: il pregio è scritto su una carta attorno il lavoro. Piacendogli il lavoro e il pregio, lo toglie e gittalo dentro nel botteghino. E queste cose si spacciano in un tratto senza far altre parole, imperoché colui che ha data la robba, conoscendo il patron del botteghino, se ne parte senza dir altro. E questo mercato dura fino a ora di sesta; a ora di vespero vengono i venditori e tolgono i lor dinari. Se qualche fiata non trovano chi compri le lor robbe per il pregio notato attorno, hanno costume di abbassare il pregio e ritornare un altro giorno.

Dicesi che quella terra vuole al giorno due some di seta, che sono al modo nostro libre mille di peso. Di lavori di ciambellotti e gottoni e altri simili non dico altro, perché da quelli di seta che si fanno si può far stima quanto più si faccia di quell’altre cose.

Capitolo 18
Della bella città di Siras, e delle mercanzie che vi si truovano. Della terra detta Eré; di Cini e Macini provincie. Della provincia del Cataio: la liberalità che si usa in quel paese verso i mercanti; del luogo ove sta il signore; il modo ch’egli tiene in spacciar gli ambasciatori; della sua gran giustizia.

Tutto il cammino fin qui fatto si drizza alla via di scirocco; tornerò per la via di levante, perché, partito da Tauris, fin a Spahan son venuto quasi per levante. E prima dirò di Siras, terra di sopra nominata, la quale è l’ultima della Persia alla via di levante ed è terra grandissima: volge con i borghi da miglia venti; ha popolo innumerabile, mercanti assaissimi, perché tutti li mercanti che vengono dalle parti di sopra, cioè da Eré, Sammarcant e da lì in suso, volendo venir per la via della Persia passano per Siras. Qui capitano gioie assai, sete, spezie minute e grosse, reobarbari e semenzine. È del signore Assambei, circondata di muri di terreno assai alti e forti e di fossi, con le sue porte, ornata di assaissime e bellissime moschee e case, ben adornate di mosaico e altri ornamenti; fa da 200000 anime e forse più; si sta in essa sicuramente, senza vania di alcuno.

Partendosi di qua si esce della Persia e vassi ad Eré, terra posta nella provincia di Zagatai. Questa terra è del figliuolo che fu del soldano Busech: è grandissima, minor però un terzo che non è Siras; lavora di sete e d’altri lavori come Siras. Non dico dei castelli, terricciole e ville assai poste a questa via, per non aver cosa memorabile. Vassi poi per greco, camminando per luoghi deserti e sterili dove non si truovano acque, salvo che di pozzi fatti a mano; erbe poche si hanno, boschi manco: e dura questo cammino quaranta giornate. Poi si ritruova in quella istessa provincia di Zagatai Sanmarcant, città grandissima e ben popolata, per la qual vanno e vengono tutti quelli di Cini e Macini e del Cataio, o mercanti o viandanti che siano: in essa si lavora di mestieri assai, i signori della quale furon figliuoli di Giausa. Non passo più avanti a questa via, ma, perché l’intesi da molti, dico che questi Cini e Macini sono due provincie grandissime, e sono idolatri. La loro regione è quella dove si fanno i catini e le piadene di porcellana. In questi luoghi sono gran mercanzie, massimamente gioie e lavori di seta e d’altra sorte.

Di lì si va poi nella provincia del Cataio, della qual dirò quello ch’io so per relazione di uno ambasciador del Tartaro, il quale venne di là ritrovandomi io alla Tana. Essendo un giorno con lui a parlamento di questo Cataio, mi disse che, passando i luoghi prossimamente scritti, entrato che egli fu nel paese del Cataio, sempre gli furon fatte le spese di luogo in luogo, fin che giunse a una terra nominata Cambalù, dove fu ricevuto onorevolmente e datogli stanza: e così dice che sono fatte le spese a tutti li mercanti che passano de lì. Poi fu condotto dove era il signore, e gionto alla porta fu fatto inginocchiar di fuora: il luogo era a piè piano, largo e lungo molto, in capo del quale era un pavimento di pietra, e su esso il signore a sedere sopra una sedia, il quale voltava le spalle verso la porta. Dai lati erano quattro a sedere volti verso la porta, e da quella insino dove erano questi quattro, di qua e di là, stavano alcuni mazzieri in piedi con bastoni d’argento, lassando in mezo a modo d’una calle, nella quale per tutto erano alcuni turcimani, sedendo sui calcagni come fanno di qua da noi le femine. Ridotto l’ambasciadore a questa porta, dove ritrovò le cose ordinate nel modo scritto di sopra, gli fu detto che parlasse quel che esso voleva: e così fece la sua ambasciata, la quale i turcimani di mano in mano esponevano al signore, overo a quelli quattro che gli sedevano allato. Fugli risposto che fusse il ben venuto, e dovesse ritornare allo alloggiamento, dove se gli faria la risposta: per la qual cosa non gli fu più bisogno ritornare al signore, ma solamente conferir con alcuni di quelli del signore, li quali erano mandati a casa e referivano di qua e di là quello faceva bisogno, di modo che presto fu spacciato e gratamente.

Uno dei famigli di questo ambasciadore e un suo figliuolo, i quali ambidui erano stati con esso, mi dissero cose mirabili della giustizia che si faceva in quel luogo; fra le quali questa ne è una, che essendo un giorno in madian, che vuol dire in piazza, a una femina che portava una zara di latte in capo uno venne e tolse la zara, e cominciando a bere lei si mise a gridare: “O povere vedove, a che modo possiamo portar le nostre robbe a vendere?” Subito costui fu preso e con la spada tagliato a traverso, in modo che si vedeva a un tratto uscire sangue e latte delle budelle. E questo istesso mi affermò poi il detto ambasciatore, e soggiunse che, lavorando certa femina gottoni a molinello, aveva tratto fuora una spuola e messola di dietro appresso di sé: uno che passava a caso di là tolse questa spuola e andossene a la buon’ora; ella si voltò e, veduto che l’ebbe, cominciò a gridare, e le fu detto: “Colui che va in là è quello che te l’ha tolta”. Costui subitamente fu preso, e per il simile tagliato a traverso.

Dicesi che non solamente nella terra, ma di fuora d’ogn’intorno dove capitano viandanti, si truovano suso qualche sasso o altro luogo cose perdute per altri viandanti e per altri trovate, e che niuno è così ardito che gli basti l’animo di torle per sé. E di più se uno, essendo in camino, fusse addimandato da qualcuno che esso avesse sospetto, o di chi troppo non si fidasse, dove va, andandosi a lamentare colui che è dimandato di tal parole e di cotal dimanda, bisogna che colui che ha domandato truovi qualche cagione lecita di questa sua domanda, altramente è punito. Per le qual cose si può comprendere che questa terra è terra di libertà e di gran giustizia.

Capitolo 19
Il modo che si osserva circa le mercanzie. Della moneta e religion de’ Cataini. Della città detta Cuerch. Di una fossa d’acqua qual dicono aver gran virtù contra la lebra e contra le cavallette, e di alcuni uccelli ch’ammazzano le cavallette.

Circa il fatto delle mercanzie, intesi che tutti li mercanti che vengono in quelle parti portano le lor mercanzie in quei fonteghi, e li deputati a ciò le vanno a vedere, ed essendovi cosa che piaccia al signore pigliano quel che gli piace, dando loro all’incontro altre robe per il valsente di essa; il resto rimane in libertà del mercante. A minuto in quel luogo si spende moneta di carta, la quale ogn’anno si muta con nuova stampa, e la moneta vecchia in capo dell’anno si porta alla zecca, dove gli è data altratanta di nuova e bella, pagando tuttavia duo per cento di moneta d’argento buona; e la moneta vecchia si gitta in fuoco. L’argento e l’oro si vendono a peso, e si fanno anche di questi metalli certe monete grosse.

La fede di questi Cataini stimo che sia pagana, quantunque molti di Zagatai e d’altre nazioni le quali vengono di là dicano che sian cristiani; imperoché dimandandogli io in che modo sanno che siano cristiani, mi risposero che nelli lor tempii essi tengono statue come facciamo noi. Accadettemi nel tempo ch’io era nella Tana, stando il detto ambasciadore insieme con me, come ho detto di sopra, che mi passò davanti un Nicolò Diedo, nostro Veneziano vecchio, il quale alle fiate portava una veste di panno fodrata di cendado a maniche aperte (come già si usava in Venezia), sopra uno giuppon di pelle, con un capuccio in spalla e cappello di paglia in capo da soldi quattro. E incontinente, veduto che gli ebbe, detto ambasciadore disse con maraviglia: “Questi sono degli abiti che portano i Cataini; somigliano quelli della vostra fede, perché portano l’abito vostro”.

In quel paese non nasce vino, per essere la regione molto frigida; d’altre vettovaglie ve ne nascono assai. Questo, insieme con molte altre cose le quali di presente io lascierò, è quello ch’io so, per relazione del detto ambasciadore del Tartaro e delli suoi familiari, quanto appartiene alla provincia del Cataio, dove io personalmente non sono stato.

Tornerò da capo a Tauris, e così come di sopra ho detto quello che si truova camminando tra greco e levante, così di presente dirò quello che si truova camminando tra levante e scirocco. Prima noi ritroviamo una città la qual si chiama Cuerch, lassando certi castelli li quali si veggono prima che si arrivi a detta città, dei quali non abbiamo cosa alcuna memorabile da dire. In questa città è una fossa d’acqua nel modo di una fontana, la quale è guardata da quelli suoi thalassimani, cioè preti: quest’acqua dicono che ha gran virtù contra la lebra e contra le cavalette, dell’uno e dell’altro dei quali incommodi io n’ho veduto qualche non voglio dir esperienza, ma credulità di alcuni. In quelli tempi passò un Francioso con alcuni famigli e guide mori per quella via, il quale sentiva di lebbra, e per quanto intendemmo andava per bagnarsi nella detta acqua: quel che poi seguisse io nol so, ma publicamente si diceva che molti n’eran sanati. Essendo ancora io in quel paese, venne uno Armeno, mandato, molto avanti che io prendessi il cammino a quelle parti, dal re di Cipro per tor di quell’acqua. E di ritorno, essendo io nella campagna, due mesi dopo ch’io era giunto in Tauris, ritornò con quell’acqua in un fiasco di stagno, e stette con me due giorni; poi se n’andò alla sua via e ritornò in Cipro, nel qual luogo nella ritornata mia trovandomi io, vidi quello istesso fiasco di acqua appiccato su un bastone il quale era porto fuora di certa torre, e intesi dagli uomini del paese che per quell’acqua non avevano più avute cavallette. Dove eziandio vidi alcuni uccelli rossi e negri, i quali si chiamano uccelli di Macometto, che hanno costume di volare in frotta come li stornelli, i quali, per quello ch’io intesi essendo pure in Cipro alla tornata mia, quando vengono cavallette, che se ne truovano, tutte le amazzano, e in qualunque luogo sentono essere di detta acqua volano verso esso, così come affermano tutti li paesani. Questa città Cuerch è picciola ma di passo, imperoché per essa passa chi va al mare, cioè al seno Persico.

Capitolo 20
Delle città di Ormus e Bagdeth. D’una sorte di pomi cotogni e granati differenti da’ nostri, e che altri frutti produce detta Bagdeth. Della città di Calicut. D’una terra chiamata Lar e del fiume Bindumir.

In questo mare si ritrova una isola nella quale è una città nominata Ormus, lontana da terra ferma da 18 in 20 miglia: volge la isola circa miglia 60; la terra è grande e ben popolata. Non ha altr’acqua che quella dei pozzi e delle cisterne, e quando gli manca quella sogliono andare a torne in terra ferma, dove eziandio hanno le lor sementi. Paga tributo al signore Assambei; lavora lavori di seta assai. I mercanti che vanno de l’India in Persia, o di Persia in India, in buona parte danno di capo in quest’isola. Il signore si chiama soltan Sabadin: manda certe sue barche alla via dell’India a pescar ostreghe da perle, e ne prendono assai; ed essendo io ivi, due mercanti che venivano da l’India capitarono ivi con perle, gioie, lavori di seta e specie.

In questo colfo Persico mette capo l’Eufrate, fiume nominatissimo, sul quale circa sei giornate in suso è Bagadeth, cioè Babilonia vecchia, la quale è stata famosa, come ciascuno intende, se ben di presente in gran parte è distrutta: può far da fuochi diecimila, ed è abbondante del vivere. Ha de’ frutti, come sariano dattali, pistacchi e altri simili, in gran quantità e molto buoni, fra li quali si ritrovano cotogni del sapore e grandezza delli nostri. Trovasi eziandio pur cotogni i quali non hanno quel duro di dentro che suole avere il cotogno, ma sono al mangiare come sariano peri ghiacciuoli, dolcissimi. Truovasi una sorte di pomi granati non troppo grandi, ma per la maggior parte con la scorza sottile, i quali si curano come si curano le narancie, e nelli quali né più né meno si possono cacciar li denti come si faria in un pomo, imperoché non hanno quelle tramezadure in mezo, eccetto che un poco nel fondo: il sapore è misto di dolcezza con alquanto di garbetto, e sono o senza quel poco legnetto che hanno gli altri dentro del grano, o con così tenero che non si sente in bocca, né è bisogno di sputar niente fuora più di quel che è chi mangiasse uva passa. Fanno ancora zuccari, e di essi buone confezioni, massimamente siroppi, dei quali ne forniscono la Persia e altri luoghi.

Ritornerò ad Ormus, e parlerò qualche cosetta dei luoghi i quali gli sono all’incontro, i quali sono di là dal detto colfo verso tramontana, la quale è dalla banda della Persia, e da l’altra parte è l’Arabia. In quei luoghi sono macomettani; il colfo è longo miglia 300 e più, e i luoghi di là dal colfo che sono de l’India sono posseduti da tre signori macomettani: il resto de l’India tutto è posseduto da alcuni re macomettani. Andando a terra a terra via per scirocco e ostro, uscendo del colfo, si truova una città chiamata Calicuth, città di fama grandissima, la quale è come una stapola over ospizio di mercanti di diversi luoghi, come saria dire di quelle che vengono dentro al colfo, del Cataio e di tutte quelle parti, dove sempre si ritruovano navili assai e grandi, conciosiacosaché non faccia gran fatto fortune. La terra è di passo, mercantesca d’ogni ragione, grande e popolosa.

Ritornando su la riva predetta, all’incontro di Ormus, si ritruova una terra chiamata Lar: è terra grossa e buona, fa da 2000 fuochi ed è mercantesca e di passo, imperoché quelli che vanno e vengono per questo colfo sempre danno di capo a questa terra. Truovasi poi Siras, della quale abbiamo parlato di sopra, e scorrendo via si va ad una grossa villa chiamata Camarà; poi, una giornata lontano, si truova un ponte grande disopra il Bindamir, il quale è fiume molto grande: questo ponte si dice che lo fece fare Salomone.

Capitolo 21
Di un monte nella cui sommità è un mirabil edificio, con quaranta colonne di notabil grandezza e grossezza, e di molte figure che vi sono scolpite. D’una villa detta Thimar, e d’un’altra nella quale si dice esser sepolta la madre di Salamone, e di luoghi Dehebet e Vergau.

Alla villa di Camarà si vede un monte tondo, il quale da un lato mostra d’esser tagliato, e fatto in una faccia alta circa sei passa. Nella sommità del monte è un piano, e attorno vi sono colonne quaranta, le quali si chiamano Cilminar, che vuol dire in nostra lingua quaranta colonne, ciascuna delle quali è longa braccia 20, grossa quanto abbracciano tre uomini, una parte delle quali sono ruinate: e per quello che si vedeva fu già un bello edificio. Questo piano è tutto un pezzo di sasso, sul quale sono scolpite figure d’uomini assai grandi, come giganti, e sopra di tutte è una figura simile a quelle nostre che noi figuriamo Dio padre, in uno tondo, la quale ha un tondo per mano, e sotto la quale sono altre figure picciole; davanti la figura di un uomo appoggiato ad un arco, la qual si dice esser figura di Salomone. Più sotto ne sono molte altre, le quali pare che tengono li lor superiori di sopra; e di questi minori uno è il quale par che abbia in capo una mitria di papa, e tien la mano alta, aperta, mostrando di voler dare la benedizione a quelli che gli sono di sotto, li quali guardano a essa e pare che stiano in certa aspettazione di detta benedizione. Più avanti è una figura grande a cavallo, che par che sia d’un uomo robusto: questa dicono essere di Sansone; appresso la quale sono molte altre figure vestite alla francese, e hanno capelli lunghi. Tutte queste figure sono di un mezo rilievo.

Due giornate lontano da questo luogo è una villa nominata Thimar, e di lì a due giornate un’altra villa dove è una sepoltura nella quale dicono esser stata sepolta la madre di Salomone, sopra la quale è fatto un luogo a modo di una chiesiola, e sonvi lettere arabice le quali dicono, sì come da quelli di quel luogo intendemo: “Messer Suleimen”, che vuol dire in nostra lingua tempio di Salomone; la porta del quale guarda in levante. Di lì a tre giornate si viene ad una villa chiamata Dehebeth, nella quale si lavorano assai terreni per produrre gottoni. Due giornate più oltra si viene a un luogo detto Vargau, il quale per il passato fu terra grande e bella; di presente fa fuochi mille, e in esso si lavorano pur terre e gottoni come di sopra.

Capitolo 22
Di Deisser, Iesdi, Gnerde (ove abitano gli Abraini), Naim, Naistan, Hardistan, Como, Sava, Euchar, e più altre terre, e quanto siano distanti una dall’altra; e la quantità delle pernici che in quelle si trovano.

Quattro giornate più in là si truova una villa nominata Deisser, e tre giornate di là un’altra villa nominata Tasté, dalla qual caminando una giornata si truova Iesdi, della quale abbiamo assai parlato di sopra. Di lì si va a Meruth, terra picciola, e due giornate più in là è una villa detta Gnerde, nella quale abitano alcuni nominati Abraini, i quali, a mio giudizio, o sono discesi da Abraam, overo hanno la fede di Abraam: questi portano in capo capelli lunghi. Due giornate più oltra si ritrova una terra la quale è chiamata Naim, terra male abitata: fa da 500 fuochi; di là della quale due giornate si trova una villa detta Naistan, e di lì a due giornate Hardistan, terra picciola, la qual può fare da 500 fuochi, tre giornate lontano della quale si vede Cassan, della quale abbiamo parlato di sopra; e di lì a tre giornate Como sopra nominata; una giornata lontano Sava, la quale fa da fuochi mille: in tutti li quai luoghi si lavorano terre e fanno lavori di gottoni. Tre giornate lontano da Sava si truova una terra picciola chiamata Euchar, e tre giornate che si facciano più in là Soltania detta di sopra, della quale sette giornate lontano è Tauris.

Da questo luogo ancora chi si partisse e andasse sopra il mare di Bachù per la parte di levante, la quale è della provincia di Zagatai, troveria le infrascritte terre: da Tauris a Soltania sette giornate, da Soltania ad Euchar tre giornate, da Euchar a Sava quattro giornate, da Sava a Coi (terra picciola) sei giornate, da Coi a Rhei (terra picciola e male abitata) tre giornate, da Rhei a Sarri (pur terra picciola) tre giornate, da Sarri a Sindan (terra picciola) quattro giornate, da Sindan a Tremigan (terra picciola) quattro giornate, da Tremigan a Bilan sei giornate. Poi si trova Strava, della qual si denominano le sete chiamate stravaine: questa terra è appresso il mar di Bachù, ha sito non molto sano, fa poco frumento; il suo mangiare è di risi, dei quali eziandio ne fanno il pane. Nella quale, e in tutte a lei sottoposte, in ogni luogo dove si ritrovano acque, fanno e traggono la seta de’ fillisei; e per le ripe di quei fiumi sono le loro casuppole con le lor caldare della seta, imperoché tengono gran quantità di vermi da seta, e hanno gran copia di morari bianchi. In questi luoghi si ritrovano pernici innumerabili, di modo che, quando il signore o altra nobil persona fa pasti, si cuocono di queste pernici, e a ciascuno si dà una scodella di risi e due pernici: di maniera che tutto il popolo mangia pernici, le quali appresso di loro non sono in pregio. In sul lito del predetto mare si trovano più terre, cioè Strava, Lahazibenth, Mandradani e altre, le quali al presente non dico; e in queste terre sono le miglior sete che venghino di quel luogo.

Capitolo 23
I luoghi che si trovano caminando da Trabisonda a Tauris: di Trabisonda città, Baiburth, Arzengan; d’un ponte di pietra di archi 17 fatto sul fiume Eufrate; di Carpurth, Moscont, Thene, Halla, Pallu, Amus, e le cose che producono.

Non mi pare inconveniente, essendo in luogo assai vicino, di voler dir eziandio quello si trova andando da Trabisonda a Tauris, caminando per scirocco. E primamente di Trabisonda dico che è stata una buona e grossa terra sul mar Maggiore, il cui signore per avanti aveva titolo d’imperatore, imperoché era fratello dell’imperatore di Costantinopoli, e voleva anch’egli esser chiamato imperatore: dalla qual cosa procedette che i successori, quantunque non fussero fratelli dell’imperatore, di mano in mano si hanno dato o (per dir meglio) tolto questo titolo d’imperio. Di questa terra non dico altro, per essere assai nota a tutti. Partendo da essa per andare a Tauris, e come abbiamo detto di sopra caminando per scirocco, si trovano molte ville e castellucci; vassi eziandio per monti e per boschi disabitati. Il primo luogo notabile che si trova è un castello in piano, in una valle d’ogn’intorno circondata di monti, nominata Baiburth: castel forte e murato, di territorio molto fruttifero. Può fare da basso del castello da 1500 fuochi; è del signore Assambei.

Cinque giornate più in là si trova Arzengan, la quale è stata gran città, ma di presente per la maggior parte è destrutta. Caminando tra levante e sirocco due miglia più in là si trova lo Eufrate, fiume nominatissimo, il quale si passa per un ponte di pietra cotta di 17 archi, bello e grande. Poi si trova un castello nominato Carpurth, il quale è cinque giornate lontano da Arzengan. In questo luogo era la moglie del signore Assambei, quella che fu figliuola dell’imperator di Trabisonda, detta Despinacaton. È luogo forte, e la maggior parte è abitata da Greci e caloieri assai, i quali stanno in compagnia della detta donna. Trovansi in via molte ville e castellucci; poi si trova un castello detto Moschont e un altro detto Halla e un altro detto Thene, tutti forti e ben murati, ciascuno dei quali ha da basso circa 500 fuochi, e a parte dei quali va da presso un fiume grosso, il quale si passa con le barche, e viene non molto lontano da Carpurth sopranominato. I popoli abitanti sotto le giurisdizioni di questi castelli sono nominati Coinari, che in nostra lingua vuol dire mandrieri.

Poi, caminando alla via di levante, si arriva a un castello murato il quale è su un sasso, chiamato Pallu: fa da basso da 300 fuochi, di sotto il quale passa un fiume. Andando pur per la via di levante quattro giornate più in là si arriva ad un castello nominato Amus, il quale è in campagna, male abitato. In tutto il paese di Trabisonda e nei confini si fanno vini assai: le vigne se ne vanno per gli arbori senza esser bruscate; una delle nostre botte continovamente in quel luogo val meno d’un ducato. Li boschi sono pieni di nocelle, della sorte di quelle di Puglia, e d’altri frutti assai buoni. In alcune parti fa certi vini nominati zamora.

Capitolo 24
D’un castello nominato Mus e d’un altro detto Alhart. Di Ceus, Herzis e Orias castello. Di tre laghi, con l’ampiezza di quelli. Di Tessu e Zerister città, e i lavori che in detti luoghi si fanno.

Di là si entra nella Turcomania, la quale era prima Armenia maggiore. Ora quelli che nascono in essa sono chiamati Caracoilù, che vuol dir in nostra lingua castroni negri, così come la provincia di Persia e di Zagatai si chiamava Accorlù, che vuol dire nel nostro idioma castroni bianchi: i quali nomi tra loro sono nomi di parte, come saria a dir tra noi rosa bianca e rosa rossa, over guelfi e ghibellini, over zamberlani e strumieri, sotto i quai titoli vi sono grandi partigiani. Trovasi poi un castello nominato Mus, fra certe montagne, piccolo ma forte, il quale è posto in monte, ha da basso una città che volta circa tre miglia, e fa popolo assai. Tre giornate più in là si trova un luogo detto Alhart, bel castello e forte, il quale è sopra un lago longo miglia centocinquanta, e dove è più largo è largo cinquanta miglia. Dalla parte di tramontana, lontano da questo lago miglia quindeci, si trova un altro lago, il quale volge circa miglia ottanta, attorno del quale vi sono alcuni castelli. Sotto Alhart è una terra, la qual fa da mille fuochi. In ambidui questi laghi sono molti navilii, i quali navigano nel mar Caspio al lor viaggio; evvi ancora sopra questo secondo lago una terra nominata Ceus, buona terra e murata.

Una giornata lontano andando per la marina si trova una terra detta Herzis, la quale ha un fiume che si passa per un ponte di cinque volti; e da Ceus fino ad Herzis sono 4 altri ponti simili a questo, per i quali si passa il fiume. In Herzis è la sepoltura della madre di Giausa, che fu signore della Persia e di Zagatai. Lontano da questo lago miglia 5 si va ad Orias, castello forte posto sopra un monticello. Il lago continua per levante meza giornata, nella qual si va a Coi città, non quella della quale abbiamo parlato di sopra, ma un’altra di quel nome; cinque giornate lontano dalla quale si trova una campagna dove è una gran città, altre volte destrutta per il Tamberlano. Trovansi eziandio molte ville, e dietro ad esse un altro lago, longo miglia 200 e largo miglia trenta, nel quale vi sono alcune isole abitate. Finalmente si trovano due città, Tessu e Zerister, le quali tra ambedue fanno da tremilia fuochi. Altre cose memorabili non abbiamo vedute in questi luoghi, salvo che in tutti si fanno lavori di gottoni, di tele, di canape, di grisi, di schiavine assai, e qualche poco di lavori di seta. Hanno carne assai, massimamente di castroni, e vini e altri frutti assai, i quali essi conducono in mar Maggiore, nelle terre che sono lì attorno.

Capitolo 25
Della città Sammachi e del signor di quella. Di Derbent parimente città, altramente detta Thamicarpi, e per qual cagione, e del suo sito. De’ popoli detti Caitacchi.

Tornando da capo a Tauris, e caminando per greco e levante, e scorrendo qualche volta per tramontana, e toccando un poco di maestro, pretermettendo eziandio tutto quello che si trova in mezo, per non essere terre da conto né degne delle quali si faccia menzione, dico che dodici giornate lontano si truova Sammacchi, la qual città è nella Media, nel paese di Thezichia, il signor della quale si chiama Sirvansa. Faria questa terra ad un bisogno da otto in diecimillia cavalli. Confina sul mar di Bachù per giornate sei, il quale gli è a man dritta, e con Mengrelia da man sinistra verso il mar Maggiore e Caitacchi, i quali sono circa il monte Caspio. Questa è buona città: fa da quattro in cinquemila fuochi; lavora lavori di seta e gottoni e d’altri mestieri, secondo i lor costumi. È l’Armenia grande, e buona parte degl’abitatori sono armeni.

Partendo di qui si va a Derbent, terra (come si dice) edificata da Alessandro, la qual è sul mar di Bachù, un miglio lontana dal monte, e ha sul monte un castello, e poi se ne viene al mare con due ale di muro insino in acqua, di modo che le teste dei muri sono due passa sotto acqua; la terra è da una porta all’altra larga mezo miglio, i muri della quale sono di sassi grandi alla romana. Derbent in nostro idioma vuol dir stretto, e da molti i quali intendono la condizione del luogo è chiamato Thamircapi, che vuol dir in nostra lingua porta di ferro: e certo che colui che gli pose questo nome gli pose nome molto conveniente, conciosiaché questa terra divida la Media dall’Albania, che ora è parte di Tartaria, di modo che chi vuol partir di Persia, di Turchia, di Soria e delli paesi che si trovano di lì in suso, e passar nella Tartaria, convien ch’entri per una porta di questa terra ed esca per l’altra; la qual cosa, a chi non intendesse il sito dei luoghi, pareria mirabile e poco meno che impossibile.

La cagion di questo è che dal mar di Bachù al mar Maggiore per via dritta (come saria per l’aere) sono cinquecento miglia, e tutto questo terreno è pieno di montagne e di valli, bene abitate in qualche luogo d’alcuni signorotti, nelli cui territorii nessuno è che ardisca d’andare, per paura di non esser rubati; ma nella maggior parte sono disabitate. Onde, quando qualcuno deliberasse (volendo far questo camino) di non passar per Derbent, gli saria necessario andasse prima in Zorzania, poi in Mengrelia, la qual è sul mar Maggiore, ad un castello nominato Alvati, dove si trova una montagna altissima; e lì converria che lasciasse i cavalli e che se n’andasse a piedi su per brichi, tanto che tra l’ascendere e descendere caminasse due giornate, e poi a basso troverebbe la Circassia, della quale abbiamo parlato di sopra nella prima parte. Il qual passo è usato solamente da quelli che stanno alli confini, né per quella distanzia s’intende ch’alcuno vi passi, da essi in fuori, per esser luogo incommodissimo. Onde (tornando a proposito) la cagion del stretto è che il mare mangia infino là presso la montagna dove è Derbent; di lì avanti è spiaggia e molto poco terreno: ed è questo stretto lungo circa miglia sessanta, pur alquanto abile a cavalcare. Da là indietro, voltando a man sinistra, il monte volta, e puossi andar sopra il monte, il quale anticamente si nominava monte Caspio: dove si riducono i frati di S. Francesco e qualche nostro prete alla latina. Li popoli che abitano in questi luoghi si chiamano Caitacchi, come è detto di sopra: parlano idioma separato dagli altri; sono cristiani molti di loro, dei quali parte fanno alla greca, parte all’armena e alcuni alla catolica.

Capitolo 26
D’una città detta Bachal. D’una montagna che butta olio negro. Del signor Tumambei, e di che maniera siano le case sotto la signoria di quello. Il modo della visita che si faceva ad un figliuol dell’imperator tartaro, che si ritrovava appresso il signor Tumembei. Della crudeltà che usò certa setta de macomettani contra cristiani.

Sul mare da questa parte è un’altra città nominata Bacha, dalla quale è detto il mare di Bacha, appresso la quale è una montagna che butta olio negro di gran puzza, il qual si adopera ad uso di lucerne la notte, e ad unzione di cameli due volte l’anno, perché non gli ungendo diventano scabiosi. Nella campagna del monte Caspio signoreggia un Tumambei, che in nostra lingua vuol dire signore di diecimila, sotto la signoria del quale s’usano case della forma di una berretta, simili in tutto e per tutto a quelle delle quali abbiamo parlato nella prima parte, fatte d’un cerchio di legno forato intorno intorno, di diametro d’un passo e mezo, nel qual ficcano certe bacchette che nella parte superiore tutte divengono in uno circuletto piccolo, e poi tutto cuoprono di feltro o di panni, secondo la lor condizione; e quando non piace loro d’abitare in un luogo, tolgono le dette case e le mettono su carri, e vanno ad abitare altrove.

Ritrovandomi io da questo signore, giunse lì un figliuolo dell’imperator tartaro, il quale aveva tolto per moglie una figliuola di questo signore, il padre del quale nuovamente era stato scacciato di signoria. Costui si era posto in una di simil case e stavasi a sedere in terra, e alla giornata era visitato da alcuni del suo paese, e ancora da qualcuno del paese dove si ritrovava. Il modo di questa visitazione era che, quando giungevano appresso la porta un tiro di pietra con mano, se avevano arme le mettevano in terra, e fatti alcuni passi verso la porta s’inginocchiavano: e questo facevano due e tre volte, andando sempre più avanti, pur che stessino da lontano almeno dieci passa; e in quel luogo dicevano il fatto loro, e avuta che avevano la risposta ritornavano indietro, non voltando le spalle al signore. Io fui qualche volta col signore Tumambei, la vita del quale, per quello ch’io vidi, era un continuo stare in bevarie: e beveva vino di ottimo mele.

Poi che abbiamo detto delle cose del monte Caspio e della condizione di quelli che abitano lì intorno, non sarà mal fatto, e reputo che sia a proposito della nostra fede, che io reciti una istoria intesa novamente da un frate Vicenzo dell’ordine di San Dominico, nato in Capha, il qual era stato mandato per certe facende nelle parti di qua, e partì già mesi dieci da quelle parti. Disse costui che si partì del paese del soldano certa setta di macomettani, con fervor della sua fede gridando alla morte de’ cristiani, e quanto più camminavano verso la Persia più s’ingrossavano. Questi ribaldi presero la via verso il mar di Bachù e vennero a Sammachi, e poi in Derbent e di lì in Tumen, ed erano parte a cavallo e parte a piedi, parte armati e parte senza arme, in grandissimo numero. Capitorno ad un fiume nominato Terch, che è nella provincia di Elochzi, ed entrorno nel monte Caspio, dove sono molti cristiani catolici: e in ogni luogo dove hanno trovato cristiani, senza alcuno rispetto hanno morti tutti, femine, maschi, picciolini e grandi. Dopo questo scorsero nel paese di Gog e Magog, i quali pur sono cristiani ma fanno alla greca, e di questi fecero il simile. Poi tirorno verso la Circassia, camminando verso Chippiche e verso Carbathei, che ambidue sono verso il mar Maggiore, e similmente fecero in quei luoghi, insin che quelli di Tetarcossa e di Cremuch furono alle mani con essi, e li ruppero con tanto gran fracasso che non ne scamparono venti per centenaio, i quali fuggirono alla malora nel lor paese. Sì che potemo intendere a quanto mala condizione si ritrovano i cristiani che abitano ivi intorno. Questo fu del 1486.

Dirò di Derbent una cosa la qual par maravigliosa: da una porta andando a questo luogo insino sotto le mura, si trovano uve e frutti d’ogni sorte, e specialmente mandole; dall’altra porta non sono né frutti né arbore alcuno, eccetto che cotognari salvatichi, e questo dura per dieci, quindici e venti miglia da quel canto, e ancora più oltra. Vidi, essendo in quel luogo, in un magazino due ancore di ottocento e più libre l’una, che mi dimostra nel passato essere stati usati in quelle parti navilii molto grossi; al presente le maggiori ancore che si trovano sono 150 per insino a 200 libre l’una.

Capitolo 27
Come il signor Assambei andò contra la Zorzania e, depredati alcuni luoghi, venne in composizione col re di quel paese e col re Gargara, che confina con lui. Di Tiflis e Gory, luochi della Zorzania. Di Scander, Loreo, Gori. Del monte Noè. Del castello detto Cagri.

Avendo narrato fin qui quelle cose che appartengono a quelle regioni, delle quali una parte ne ho udite, ma la maggior parte con gli occhi proprii ho vedute, ritornerò a Tauris, e narrerò quello che feci col signore Assambei, il quale, partendosi da Tauris, fece sparger voce di voler andar contra l’Ottomano, quantunque io per segnali che vedevo non lo credessi. Eravamo in tutto, quanto posso stimare, uomini da fatti a cavallo da 20 in 24000, uomini da fatti a piedi da quattro in cinquemila, uomini che venivano per sussidio del campo circa seimila; di donne, putti e famigli non dico altro, per averne detto sufficientemente di sopra. Adunque, camminato che avemmo giornate sette, ci voltammo a man dritta incontra la Zorzania, nelli confini del mar Maggiore, nella quale entrammo perché il signore aveva volontà di depredarla. Il quale mandò avanti li loro corridori, secondo il lor costume, che furono da cavalli cinquemila, i quali si facevano più avanti che potevano tagliando e bruciando i boschi, imperoché avevamo da passare montagne grandi e boschi grandissimi. Noi vedevamo i fuochi da lontano e sapevamo che via avevamo da tenere, e insiememente trovavamo la via fatta. Due giornate dentro alla Zorzania giungemmo a Tiflis, la quale, per esser non solamente essa ma tutta la regione di questa parte di qua abbandonata, avemmo senza contrasto.

Passando più oltra andammo a Gori e ad alcuni altri luoghi circonstanti, i quali tutti furono depredati: e fatto quest’istesso d’una gran parte della regione, il signor Assambei venne a composizione col re Pancrazio, re della Zorzania, e con Gorgora, il qual confina con questo re, che gli dessero 16000 ducati, e lasseria loro tutto il paese eccetto Tiflis. Onde, volendo pagare il re Pancrazio e Gorgora questi danari, mandorno quattro balassi, i quali erano ragionevoli, non così grandi né così belli come quelli che si mostrano su l’altar di San Marco in Venezia, ma di quella sorte. Il signore Assambei, avuti questi quattro balassi, mandò per me, che io gli dovessi vedere e stimare: e prima ch’io andassi dal detto signore, gli ambasciadori del re Pancrazio e di Gorgora, che avevano portati li balassi, mi mandarono a dire ch’io dovessi far buona stima, essendo ancora essi cristiani. Giunto ch’io fui al signore mi fece dar quelli balassi, e guardandone uno diligentemente fui dimandato dal signore Assambei quel che valeva quello; e rispondendogli: “Signor, egli vale 4000 ducati”, ei se ne rise e disse: “Sono molto cari nel tuo paese, non voglio balassi ma voglio danari”. Le anime che in quel tempo furon tolte de’ detti luoghi dicevano esser da quattro in cinquemila. I luoghi i quali noi scorressimo furono a man manca, verso la region di Gorgora: Cotathis, castello del re Pancrazio, il quale ha una terricciola sopra un monticello con un fiume davanti che si chiama il Fasso, già nominato Phasis, che mette nel mar Maggiore, e si passa per un ponte di pietra assai grande; Scander, castello assai forte, e giornate quattro lontano da Gori, il qual ha un fiume assai grande.

Poi, passata un’alta montagna, ritornammo nel paese d’Assambei, il quale è nell’Armenia maggiore, e tre giornate lontano ritrovammo il castello Loreo, quattro giornate lontano dal quale trovammo il monte di Noè, quello dove l’arca dopo il diluvio si riposò, il quale è sopra un monte altissimo, che ha una gran pianura che può volger due giornate: continuamente il verno e l’estate ha neve su; davanti del quale è un monte picciolo, anch’egli carico di neve. Due giornate lontano è un castello nominato Cagri, e questo è abitato dagli Armeni d’ogn’intorno, i quali fanno alla catolica; e ha più ville intorno, che tutte fanno alla catolica, e monasterii, il principal dei quali si chiama Alengia. Ha da cinquanta monachi osservanti della regola di San Benedetto; dicono messa al modo nostro nella lor lingua. Il prior del detto monastero, dopo la ritornata mia a Venezia, mancò, e venne uno di quelli di lì, il quale capitò a San Giovanne e Paulo in Venezia, e mi venne a ritrovare a casa, per esser raccomandato, mediante la intercession mia, dalla illustrissima Signoria nostra al sommo pontefice, che lo facesse priore del detto monastero, imperoché era fratello del prior morto.

Capitolo 28
Della morte del signor Assambei, e come tre de’ suoi figliuoli fecero strangolar il quarto loro fratello e, divisa tra lor tre la signoria, il secondo fratello fece ammazzar il maggiore. De’ castelli Cymis Cassegh e Arapchir. Della città chiamata Malathia. Quello intravenne a messer Iosafa con un gabelliero e con certi Mamalucchi. D’un luoco detto Syo.

Fatta ch’ebbe il signor Assambei col re Pancrazio e Gorgora la sopradetta composizione, e avuto ch’ebbe i ducati 16000, deliberò di ritornare a Tauris; e io, il qual vedevo che non aveva un minimo pensiero d’andar contra l’Ottomano, presi licenzia, con intenzion di ritornarmene a casa per la via di Tartaria. E me ne veniva con uno ambasciador del detto signor Assambei, accompagnato da molti Tartari mercanti, dai quali intesi quello ch’io ho scritto nella prima parte, che Hagmeth figliuolo di Edelmulg, nepote dell’imperator de’ Tartari, dopo la morte del padre era fatto grande appresso il detto imperatore, il quale Hagmeth dal proprio padre m’era stato dato per figliuolo; e desideravo di seguire il cammino a quella via, rendendomi certo che da lui averia avuto ottima compagnia. Ma, per le guerre le quali erano in quelle parti, non mi bastò l’animo di seguire il cammino, onde mi fu necessario di mutare il pensiero e ritornare a Tauris, la qual cosa fu del 1478.

Tornato ch’io fui ivi, ritrovai il signor Assambei infermo, il quale la notte dell’Epifania morì. Aveva quattro figliuoli, tre d’una madre e uno d’un’altra: quell’istessa notte li tre fratelli uterini fecero strangolare il quarto, che non era uterino, giovane di venti anni, e fra lor tre partirono la signoria; dapoi il secondo fratello fece ammazzare il maggiore, e rimase lui signore, di modo che signoreggia fino al presente. Essendo le cose tutte in combustione, io, che avevo avuto buona licenzia dal padre, e dai figliuoli vivendo il padre, mi accompagnai con uno Armeno, il quale andava in Arsengan, dove egli abitava. Menai con me un garzon schiavone, il qual solo mi restava di tutti quelli ch’io avevo menati con me in quel paese. Mi vesti’ dei drappi che io avevo poveri e miserabili, e cavalcammo di continuo con celerità, per il dubbio che avevamo delle novità, le quali sogliono accadere quando muoiono simili signori. A’ 29 d’aprile giungemmo in Arsengan, nel qual luogo stetti circa un mese, aspettando una caravana che andava in Aleppo. Partendo da questo luogo ritrovammo Cimis Casseg, Arapchir, che sono castellucci. Poi giungemmo ad una città nominata Malathia, la quale è buona e mercantesca, da Arsengan alla quale sono montagne e valli assai, e vie petrose e cattive: vero è che pur si ritrovano alcuni casali e luoghi abitati, ma non molti.

Essendo in questa terra in uno fondaco, con quelli della caravana coi quali mi ero accompagnato, colui della gabella, il quale era ivi, andava sopravedendo chi erano quelli che dovevano pagare. E io in questo mezo me ne stavo in un luogo rimoto aspettando che la caravana si levasse, ed ecco che uno della detta caravana mi si fece appresso e disse: “Che fai tu? Quel della gabella vuol che tu paghi cinque ducati, perché ha inteso che tu vai a Goz (che in nostro idioma vuol dire Gierusalem); va’ a far tua scusa”. Andai, e trovai che sedeva su un sacco, e dimandai quel che egli voleva da me. Rispose: “Va, paga cinque ducati”. E dicendogli tutti quelli della caravana (perché così avevano inteso da me) ch’io andava a Sio a trovare uno mio figliuolo, e iscusandomi, pur voleva costui ch’io pagassi. Sio è luogo molto nominato nella Persia, e in tutte quelle parti è chiamato Sephex, che vuol dir in nostro idioma mastico, perché lì nasce il mastice, il quale in quelle parti è molto adoperato. In questo mezo uno il quale, per quello ch’io stimavo, doveva esser domestico di questo della gabella, disse: “Deh, lassalo stare”; ed egli: “Voglio che paghi”, stando tuttavia col capo inchinato a terra. Onde colui gli dette delle mani sotto il naso e dissegli: “Va’ col diavolo”. E incontinente gli cominciò a uscire il sangue del naso, e colui della gabella disse a quello che gli aveva dato: “O matto, sempre tu fusti matto”, e tirandomi fuor della turba disse: “Vatti con Dio”. E io montai a cavallo e andai con la caravana. Questa Malathia è del soldano.

Camminando trovammo più castelli e ville e belli paesi, e passato l’Eufrate giungemmo in Aleppo, della qual terra non parlerò, per esser luogo assai domestico e molto noto: è terra grandissima e molto mercantesca. Partendomi da quel luogo mi fu dato per li nostri mercanti uno mucharo, che vuol dire in nostro idioma guida, col quale io e il famiglio ci partimmo per venire alle marine, cioè a Baruto. Essendo su la marina per mezo Tripoli trovammo una gran frotta di Mammalucchi, i quali giuocavano all’arco, alcuni dei quali, visto ch’ebbero la guida, cominciarono a stringere li lor cavalli per andarmi avanti. Io, che mi accorsi che avevano voglia di farne qualche male, comandai al famiglio che dovesse andare avanti insieme con la guida, e pian piano io gli veniva dietro. Giunto ch’io fui appresso questi Mammalucchi, i quali già m’erano andati avanti per due tratti d’arco, passai di lungo un pochetto, e incontinente uno di essi mi chiamò e dissemi: “Padre, odi”. Io, mostrandomi di buona ciera, mi accostai e dissigli: “Che vi piace?” Ed egli a me: “Dove vai?” Al quale dissi: “Vo dove la mia mala fortuna mi porterà”. Mi domandò per che cagione io usava simili parole, e io gli risposi che l’anno passato avevo venduto un ligaccetto di seta a certo mercante, e ora era venuto in Aleppo per avere i miei danari, e non l’avendo trovato avevo inteso che gli era andato a Baruto, siché andava cercando la mia povertà. Mossesi a pietà, udito che ebbe questo, e disse: “O poveretto, andate con Dio”. Io tolsi del cammino e raggiunsi la guida, che come mi vidde incominciò a ridere e dire: “Ha, ha, ha”, volendo per questo significare ch’io avevo saputo uscire delle mani di quei Mammalucchi, imperoché né egli sapeva turchesco né io moresco. In questo giungemmo a Baruto, e ivi a pochi giorni venne una nave di Candia, con la quale di suo ritorno passai in Cipro, e di quel luogo, con l’aiuto del Signor Dio, me ne venni a Venezia.

Capitolo 29
Della superstizione d’alcuni. Il costume di quelle genti quando si fa la commemorazione de’ morti, e delle lor sepolture.

Parmi ragionevole, dapoi ch’io ho detto le cose appartenenti al cammino, ch’io dica eziandio le cose appartenenti alcune a soperstizione, e alcune a simulazione di religione, e alcune alla mala compagnia che hanno li cristiani in quei luoghi ch’io viddi. Essendo adunque per camminare verso Sammacchi, alloggiai a uno spedaletto nel quale era una sepoltura, sotto un volto di pietra; appresso questa sepoltura era un uomo di tempo, con barba e capelli lunghi, nudo, salvo che con una pelle era un poco coperto davanti e di dietro, il quale stava a sedere in terra sopra un pezzo di stuora. Io lo salutai e dimandai quel ch’esso faceva: mi rispose che vegghiava suo padre, e io gli domandai chi era suo padre. Ed egli a me: “Padre è chi fa bene al prossimo; con questo che è in questa sepoltura io sono stato trenta anni, hogli fatto compagnia in vita, e gliela voglio fare ancora dopo la morte, di modo che voglio, quando morrò, esser sepelito ancora io in questo luogo. Ho veduto del mondo assai, ora ho deliberato di star così fino alla morte”.

Un altro, ritrovandomi in Tauris il giorno della commemorazion dei morti, nel qual giorno eziandio appresso di loro era la commemorazion de’ morti, viddi stando in un cimiterio un poco lontano, che stava a sedere appresso una sepoltura e aveva molti uccelli addosso, ma specialmente corvi e cornacchie; e credendomi io che fusse un corpo morto, dimandai a quelli che erano meco che cosa era quella ch’io vedevo: mi risposero che era un santo vivo, a cui non si trovava in quel paese un altro simile. “Vedete voi quelli uccelli? Ogni giorno vanno a mangiar ivi, e come egli ne chiama uno egli viene, perché è un santo”. E soggiunse: “Andiamo più presso, che vederete”. Andammo adunque appresso di lui meno d’un tratto di pietra con mano, e vedemmo che aveva certi scodellotti di vivande e d’altri cibi, e che questi uccelli gli volavano fino nel volto per mangiare, ed egli li cacciava via con le mani, e qualche volta ad alcuno d’essi porgeva qualche cibo: del quale coloro mi dissero molti miracoli, secondo il giudicio loro, i quali appresso d’ognuno che abbia buono intelletto sono tutte pazzie.

Un altro ne viddi, essendo il signor Assambei nell’Armenia maggiore, che al presente si chiama Turcomania; un giorno che ‘l detto signore era messo in ordine di levarsi per venire in Persia e andar contra il signor Giausa, signor della Persia e di Zagatai, insino alla città di Heré, e mangiava insieme con la sua corte, ne viddi un altro, il quale tirò d’un bastone che aveva in mano nelli catini ne’ quali essi mangiavano, e disse alcune parole, e rottoli tutti (questo era matto di buona materia), il signore dimandò quello che aveva detto. Gli fu risposto da quelli che l’avevano inteso che aveva detto che ‘l signor doveva esser vittorioso, e romper il nimico sì come egli aveva rotti quei catini. Il signore disse: “È vero?” E confermato che ebbero quelli che l’avevan detto che era vero, commandò che fusse governato insin ch’esso ritornasse, promettendogli che gli faria onore e buona compagnia. Andò, ruppe, conquassò e uccise il nimico, e prese tutta la Persia insino ad Heré, e ridusse tutti d’ogn’intorno a sua ubbidienzia; e non si essendo dimenticato della promessa, lo fece raccogliere e trattare onorevolmente. Otto mesi dopo la detta vittoria io mi ritrovai ivi, e viddi in che modo era trattato. Costui ogni giorno, a tutti coloro che a ora debita andavano alla sua porta (fussero in quanto numero si volessero), faceva dar da mangiare, facendogli prima sedere in modo d’un circolo: e mettendo una volta con l’altra, non eran né meno di 200 né più di 500, ed egli ogni giorno aveva da vivere e da vestire assai bene. Quando il signore cavalcava per le campagne, era messo su un mulo con un subo in dosso, con le braccia e mano sotto il subo, le qual mani gli erano legate davanti, perché alle fiate era usato di far qualche pazzia pericolosa; a piedi gli andavano appresso molti di quelli dravis. Essendo un giorno io sotto il padiglione di un Turco amico mio, capitò ivi uno di quelli dravis, al quale questo Turco dimandò come faceva il dravis, e se faceva pazzie e se parlava e se mangiava; ed egli rispose che faceva secondo l’usanza, alcune fiate pazzie secondo la luna, e che stava tal volta due e tre giorni che non mangiava e faceva pazzie sì che bisognava legarlo, e che parlava ben ma male a proposito, e che mangiava quello che gli era dato, e alcune fiate si stracciava i drappi di dosso. E soggiunse: “Un giorno andammo dal signore che era in Spaham, il quale lo mandò in palazzo che già fece fare Gurlomahumeth, dove stemmo da quattro o cinque giorni; volendoci partire gli dicevano: “Andiamo via”, ed egli rispondeva: “Io voglio star qui”; pur tanto facemmo che lo menammo via”. E da costui intesi in che modo passò la novella quando trasse del bastone nelli catini, il quale la disse ridendo. Dimandò il Turco amico mio come facevano di danari, facendo tanta spesa; ed egli rispose che li era stato deputato una certa quantità, e se più gli bisognava più se gli dava: di modo che si può concludere che li pazzi abbiano buon partito appresso di loro, e che con poca fatica e poche operazioni buone la brigata si acquisti opinion di santi.

Sopra le sepolture, quando fanno la commemorazione de’ lor morti, si truova gran moltitudine di maschi e di femine, vecchi e putti, i quali seggono a grumi con li lor preti e con le lor candele accese, i qual preti o leggono over orano nella lor lingua, e fornito che hanno di leggere o d’orare si fanno portar da mangiare in quel luogo: e per tanto per le strade sempre vanno e vengono molte persone da quei cimiteri. Il luogo dove sono volge da quattro in cinque miglia, e per le strade che menano a questo luogo sono poveri che domandano limosina, alcuni dei quali eziandio si offeriscono di dire qualche orazione a utilità delli benefattori. Le sepolture hanno certi sassi sopra drizzati in piedi, con lettere che dinotano il nome del sepolto, e alcune hanno qualche cappella di muro sopra. E questo basti delle cose appartenenti alle superstizioni.

Capitolo 30
Della simulata religione d’alcuni infideli, e come i cristiani siano da loro maltrattati.

Di quelle ch’appartengono a simulazione di religione ne dirò una, e volesse Dio che fra noi cristiani over non si trovasse simil simulazioni, overo fusser punite come fu questa la qual dirò, che mi par che ‘l primo saria buono, e il secondo non cattivo. Trovossi un macomettano, a lor modo santo, il quale andava nudo come vanno le bestie, predicando e parlando delle cose della lor fede. Costui, avendo fatto già un buon credito, e avendo acquistato un gran concorso di popoli idioti che ‘l seguitavano, non si contentando di quel ch’aveva, disse che voleva farsi serrare in un muro e starvi quaranta giorni digiuno, affermando che gli bastava l’animo d’uscir sano e di non aver per questo offesa alcuna al corpo. Volendo adunque far questa isperienza, fece portar pietre cotte alla foresta, delle quali, con gesso che in quelle parti si adopera per calcina, si fece far una casetta rotonda, nella qual fu murato. E ritrovandosi nel fine di quaranta giorni vivo e sano, tutti gli altri si stupivano. Uno, il quale era più accorto, sentì che in quel luogo era stufo di certo sapore di carne, e facendo cavare trovò la magagna. Venne la cosa ad orecchie del signore, il qual lo messe nelle mani del cadi lascher; fu ritenuto eziandio un certo suo discepolo, il quale senza troppo tormento confessò che aveva forato il muro da una parte all’altra e messovi un cannoncino, per il quale di notte gl’infondeva brodi e altre cose sostanziali: e ambidui furono fatti morire.

Quanto alla mala compagnia ch’hanno i cristiani in quei luoghi ch’io viddi, reciterò quello ch’io intesi del 1478, del mese di decembre, da uno Pietro di Guasco genovese, nato in Capha, il quale nel tempo ch’io era in Persia venne ivi e stette con me circa tre mesi. Costui, domandato delle novelle di quelle parti, mi disse che un giorno, essendo in Tauris uno Armeno chiamato Chozamirech, ricco mercante, in bazarro, a certa sua bottega di orefice, venne ivi uno azi, a lor modo santo, e dissegli che dovesse rinegar la fede di Cristo e farsi macomettano. E rispondendogli costui umanamente, e suadendogli che non gli desse impaccio, pur perseverava e importunava ch’ei rinegasse. Costui gli mostrò certi danari, con intenzione di darglieli accioché lo lasciasse stare, ed esso gli disse: “Non voglio danari, ma voglio che tu rinieghi”. Rispondendogli Chozamirech che non voleva rinegare, ma voleva stare nella sua fede di Giesù Cristo, così come era stato fino a quel tempo, quel ribaldo si voltò, e tolse la spada di vagina ad uno ch’ivi era, e detteli su la testa in modo che l’ammazzò, e fuggì via. Un figliuolo di costui di circa anni trenta, il qual era in bottega, cominciò a piangere, e uscito di bottega andò verso la porta del signore e feceglielo sapere. Il signore, mostrando d’aver molto per male questa cosa, ordinò che fusse preso e mandollo a cercare: il quale fu trovato due giornate lontano da Tauris, in una città nominata Meren, e fu portato avanti il signore, il quale subito si fece dare un coltello e con la sua propria mano l’ammazzò, e commise che fusse gittato in piazza e lasciato, accioché i cani lo mangiassero, dicendo: “Come? La fede di Macometto cresce in questo modo?” Approssimandosi la sera, molti del popolo, che erano più zelanti della lor fede, andarono da uno Darviscassun, il quale era in guardia della sepoltura d’Assambei, padre del moderno signore, ed era come saria dir da noi prior dello spedale, uomo da conto e apprezzato, il quale era stato tesoriero del signor passato; e a costui dimandarono licenzia di poter levar quel corpo, che i cani la notte non lo mangiassero; egli, non pensando più oltra, dette loro licenzia, e il popolo lo tolse e lo sepellì. Inteso ch’ebbe questo il signore, che presto fu, imperoché la piazza è vicina al palazzo, comandò che Darviscassun fusse preso e menato da lui, al quale disse: “Ti basta l’animo di commandare contra il mio comandamento? Orsù, che sia morto”; e subito fu morto. Dopo questo disse: “Poi che ‘l popolo ha fatto contra il mio comandamento, tutta questa terra porti la pena e sia messa a sacco”. E così la sua gente cominciò a saccheggiar la terra, con uno spavento e romor grandissimo di tutti: durò questa cosa da tre in quattro ore. Poi comandò che dovessero lasciar stare di saccheggiar più oltra, e dette a tutta la terra taglia di certa somma d’oro. Finalmente fece venire a sé il figliuolo di questo Chozamirech, e lo confortò e accarezzò con buone e umane parole. Era Chozamirech uomo ricchissimo e di ottima fama.

E questo basti quanto alle cose della mala compagnia ch’hanno li cristiani in quei luoghi, e quanto alla fine di questa seconda parte, e conseguentemente di tutta l’opera descritta per me, con quel miglior ordine che ho potuto, in tanta varietà di cose, de’ luoghi e de’ tempi: e fornita di scrivere adì 21 di decembre 1487, a laude del Signor nostro Giesù Cristo, vero Dio e vero uomo, al quale noi cristiani, e specialmente nati nell’illustrissima città nostra di Venezia, siamo molto più obligati di quello che sono queste genti barbare, aliene dal suo culto e piene di mali costumi.

Il fine del viaggio di messer Iosafa Barbaro alla Tana e nella Persia.

Lettera a P. Barocci
Lettera del medesimo auttore scritta al reverendissimo monsignor Piero Barocci, vescovo di Padova, nella qual si descrive l’erba del baltracan, che usano i Tartari per lor vivere.

Reverendissimo Monsignor, Signor mio osservandissimo, avendo inteso da messer Anzolo mio fratello, che è stato con Vostra Signoria reverendissima molti giorni a piacere in quelli monti ameni del Padovano, come ella si diletta grandemente d’intender la natura delle erbe, e massimamente di quelle che non sono così note a ognuno, ho voluto, per non mancar al debito della servitù che ho con Vostra Signoria reverendissima, scriverle e darle notizia ancor io di una, che al presente mi occorre fra molte altre che ho vedute nelle parti di Tartaria, quando fui al viaggio della Tana. E le dico che i Tartari hanno un’erba nel lor paese, che la chiamano baltracan, la qual mancandogli patiriano grandemente, né potriano andar da loco a loco, massimamente per quelli gran deserti e solitudini dove non si truova da mangiar, se non fusse questa che li mantiene e dà vigore; la qual come ha fatta il suo gambo, tutti li mercanti e genti che voglion far lungo cammino si mettono sicuramente in viaggio, dicendo: “Andiamo, che è nato il baltracan”. E se qualche loro schiavo fugge quando il baltracan è nato, restano di seguitarlo, perché sanno che ha potuto trovar da viver per tutto. E quando camminano con il loro lordo ne portano sopra i carri e sopra le groppe de’ cavalli per il lor vivere e anco in spalla, né par lor grave, tanto il suo sapore diletta a tutti. Noi mercanti ch’eramo nella Tana, come n’era portata nella terra, subito ne pigliavamo e andavamo mangiando. E non voglio restar di dir ch’essendo poi tornato a Venezia, fui mandato proveditore in Albania, dove, cavalcando verso Croia con 500 persone, viddi da un canto della strada di questo baltracan, e fecimene dare e cominciai a mangiarne, e anche tutta la brigata ne volse gustare: e gustato venne in tant’uso che dapoi ognuno ne portava fasci, chi a cavallo e chi a piedi in spalla, non tanto per necessità quanto per il suo buon gusto e buon sapore, di modo che gli Albanesi andavano poi gridando: “Baltracan, baltracan”. Dipoi trovandomi anche in Padovana, nella villa di Terrarsa, viddi di questo baltracan. E accioché Vostra Signoria reverendissima lo possa conoscere come fo io, quando le paresse di volerne trovare in quei monti, le descriverò qui brevemente con parole la sua forma. Esso fa una foglia come fanno le rape; in mezo fa un gambo grosso più di un dito, e al tempo della semenza vien alto più d’un braccio; e questo gambo, facendo la foglia su per il gambo, la fa una quarta lontana l’una dall’altra, e fa poi la semenza come il finocchio, ma più grossa: ha fortore, ma è di buon sapore. E quando è la sua stagione si scavezza fin al tenero, e fin al tenero si va scorzando come il pampano della vite. Ha l’odor di narancia, alquanto mostoso, e la natura sua par che non richieda altro sapore, né al mangiarlo ha di bisogno di sale. E tengo che al tempo del seminare ella si possa seminare come gli altri semi, e massimamente in luogo temperato e di buon terreno. Ogni gambo fa una radice da per sé, e il gambo ha un poco di busetto dentro, e la scorza del gambo è verde e tragge al giallo. E penso che chi non lo sapesse conoscere per altri segni, con facilità lo potria conoscere avvertendo alla semenza. Oltra di ciò, li Tartari e tutti quelli che la conoscono pigliano le foglie sue e le fanno insieme con acqua bollire in una caldiera, e bollita la mettono nei lor vasi e, lasciatola raffreddare, ne beono come se fusse vino, e dicono ch’ella è molto rifrescativa: e così essere lo so io per prova.

E a Vostra Signoria reverendissima mi raccomando.

In Venezia, alli 23 di maggio 1491.
Servitor di Vostra Signoria reverendissima Iosafa Barbaro.

 

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