Leonardo da Vinci a Turbigo?

Leonardo da Vinci visse a Milano a partire dal 1482 sino al 1500, impiegato come ingegnere e artista presso alla corte ducale di Ludovico Sforza, detto il Moro. E di nuovo dal 1507 al 1513 al servizio dei francesi, signori di Milano. Nel 1512 a Milano entrarono gli svizzeri, con a capo Massimiliano Sforza, figlio del Moro e di Beatrice d’Este e scacciarono i francesi.
Leonardo forse vi fece ancora una puntata nel 1514, salendo da Roma e nel 1515 incontra il nuovo re di Francia, Francesco I.

Una leggenda dice che re Francesco I di Francia, figlio di Luisa di Savoia, sia stato ospite nel castello di Turbigo, non ne siamo sicuri. (1)Ciò che è certo è il fatto che rimase folgorato dal genio di Leonardo. Lo incontrò a Bologna nel 1515, dopo che ebbe sconfitto gli svizzeri a Melegnano ma ne aveva sentito parlare dalla zia materna, Filiberta di Savoia, che aveva sposato il patron di Leonardo, Giuliano de’Medici, duca di Nemours. Leonardo, nell’anno successivo al loro incontro, accetterà l’offerta del monarca francese di trasferirsi presso la residenza reale di Amboise, dove morirà il 2 maggio 1519.

Passò mai per Turbigo il nostro Leonardo?

Non abbiamo le prove né tantomeno indizi ma è difficile pensare che non vi sia transitato diretto nel novarese o verso il lago Maggiore, perché come ingegnere ducale prima e al servizio del governatore francese Charles d’Amboise poi, fece varie ispezioni vicino al nostro territorio. Fu spesso sul Ticino con Ludovico il Moro, nato a Vigevano. Diventato signore di Milano, Ludovico non dimenticò la sua città, a cui diede una delle più belle piazze d’Italia.  Durante il soggiorno milanese, Leonardo fu inviato nel territorio di Vigevano per compiere studi sulla canalizzazione delle acque e sulla bonifica delle paludi. Soggiornò spesso anche a Pavia e giova ricordare che possediamo circa 10.000 pagine manoscritte da Leonardo ma altre 5.000 o più mancano all’appello. Come lo sappiamo? Da un inventario compilato dal suo allievo prediletto, Francesco Melzi, che ereditò i suoi codici e poi dalla Francia li portò a Vaprio D’Adda.

Possediamo vari suoi schizzi di Lecco e del Monte Rosa (che chiamava Monboso) e nel codice di proprietà di Bill Gates vi sono molti studi di vortici d’acqua e correnti che potrebbero essere stati osservati sul Naviglio o sul Ticino.

Nel 1502 venne affidato a Giovanni Antonio Amadeo, capo degli architetti della Fabbrica del Duomo, il compito di “removere, purgare e spazare dicto navilio et redurlo in debita forma per lo navigare”. Una manutenzione straordinaria che riguarda anche sponde, ponti e soprattutto la profondità dell’acqua, che non dovera mai scendere sotto a un metro. Proprio di lavori di sponda s’occupò Leonardo da Vinci che nel Codice Atlantico, il 3 maggio 1509, annota la conclusione del rifacimento della chiusa per la regolazione del flusso verso la darsena. Per questi lavori ricevette un “diritto d’acqua” (in pratica la proprietà di una bocca irrigua). E del naviglio dice: “Vale 50 ducati d’oro. Rende 125.000 ducati l’anno il Naviglio ed è lungo 40 miglia e largo braccia 20.” Ci pare impossibile che non abbia mai visitato l’origine del Naviglio Grande, che sta prima di Turbigo.
Si dice che l’idea delle chiuse per sollevare a far scendere battelli sia di Leonardo, in realtà fu di un suo collega più anziano, Francesco di Giorgio Martini, anche se questa tecnica era già conosciuta da greci e romani.

Il collegamento più probabile fra Leonardo e Turbigo pare consistere nella sua amicizia con Piattino Piatti, forse nato a Turbigo, un umanista (1441-1508) e generale, morto a Garlasco. Entrò come paggio alla corte del duca Galeazzo Maria Sforza ma, una volta caduto in disgrazia, fu imprigionato nel castello di Monza, dal quale uscì dopo lungo patire, che ritrasse efficacemente nel suo “Libellus de Carcere” la più fortunata fra le sue opere a stampa, costituita da poesie latine in gran parte a sfondo religioso. Una volta liberato fu prima alla corte di Ferrara e poi a Firenze; in seguito entrò come ufficiale al servizio del duca di Urbino e, poco dopo, sotto al comando di Gian Giacomo Trivulzio, partecipò a varie spedizioni militari.
Morto Galeazzo Maria Sforza (1476), poté tornare in Lombardia e vivere tra Milano e Garlasco (Pavia), sede abituale del Trivulzio, dove riprese a coltivare le Muse, scrivendo epigrammi ed elegie occasionali in latino. Rientrò anche nella corte sforzesca, ma non pare che Ludovico il Moro, così largo di protezione con artisti e con eruditi, lo vide con simpatia. Forse per questo motivo sappiamo poco della sua vita e non possediamo un suo ritratto. Sappiamo però che Leonardo chiese il suo aiuto per non perdere la commessa del gran cavallo, che Ludovico il Moro gli volle affidare, per commemorare il padre Francesco Sforza. Temendo la concorrenza di un altro scultore, chiese a Piattino di comporre un sonetto da porre alla sua base. Piattino lo scrisse e poi lodò il cavallo di Leonardo – il plastico in creta pronto per la fusione fu usato da balestriere guasconi come bersaglio – scrivendo che era un capolavoro divino.
Piattino Piatti dedicò un epigramma all’amico Leonardo da Vinci, eccolo:

Non sum Lysippus, nec Apelles, nec Policletus,
nec Zeusis, nec sum nobilis aere Myron.
Sum Florentinus Leonardus, Vincia proles,
mirator veterum discipulusque memor.
Defuit una mihi symmetria prisca, peregi quod potui.
Veniam da mihi, posteritas.

 

1) Secondo lo storico turbighese Giuseppe Leoni,  Francesco I soggiornò veramente nel castello di Turbigo. Brunello Maggiani e Mario Traxino hanno raccontato di avere rinvenuto un documento cinquecentesco – scritto in gotico francese – che racconta dell’acquartieramento delle truppe francesi (ben 75mila soldati) nell’area posta presso il Padregnano, a tre chilometri di distanza dal centro di di Turbigo.

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