Sarà donna il prossimo Dalai Lama?

Sarà donna il prossimo Dalai Lama? In viaggio verso il Piccolo Tibet insieme con Tenzin Gyatso, che ha già espresso il desiderio di reincarnarsi in una bambina

L’aereo in partenza da Nuova Delhi è in ritardo. Notiamo strani movimenti di soldati nella parte anteriore del velivolo, dove stanno la prima classe e la cabina di pilotaggio. Alla fine ci muoviamo e si vola, diretti a Leh, la capitale del Ladak, che sorge a tremila e cinquecento metri d’altitudine. Sta incastonata su di un altopiano noto come Piccolo Tibet, la propaggine più remota e meno popolata del Kashmir indiano. Il pilota comincia a girare in circolo e ci dice nell’altoparlante che l’aeroporto, come spesso accade in questa stagione, è coperto da fitte nebbie. Oltre la barriera di montagne e di ghiacciai che si stagliano all’orizzonte, scorgiamo il Tibet e la Cina. Aggiunge che continuerà a girarvi sopra per una mezzora e, non appena s’aprirà un varco, tenteremo l’atterraggio, altrimenti si dovrà tornare indietro. La schiarita arriva e, con grande sollievo di tutti i passeggeri, le ruote toccano il suolo. Poco dopo, dalla scaletta anteriore, vediamo scendere un monaco dalla testa tonda e ben rasata. Porta indosso una veste color vinaccia, panneggiata come una toga romana. È il XIV Dalai Lama. La sua presenza ci era stata tenuta nascosta per evitare un attentato terroristico o, più semplicemente, che qualcuno lo andasse a disturbare. Tre vecchie auto l’attendono sulla pista. Un gruppo di donne e di uomini gli vanno incontro e il suo collo viene ricoperto da sciarpe di seta bianca, che chiamano kadak. Quello è il loro modo per dargli il benvenuto. Lui sorride e scherza, dimostrando meno dei suoi 74 anni. Poi montano sulle autovetture e partono, diretti a uno dei tanti monasteri della regione, dove egli intende pregare e riposare. Il suo corteo ci precede di qualche minuto E le strade che sono colme di tibetani vestiti a festa.

Gli spostamenti del Dalai Lama e la sua salute sono un segreto di Stato gelosamente custodito dal governo tibetano in esilio, che mantiene una commissione al proprio interno, nota come Cta (Central Tibetan Administration) perché segua da vicino tutti i problemi connessi alla sua figura. Il controllo si è fatto ancora più stretto dopo che, due anni fa, il suo nome venne trovato su di una lista di bersagli di Al Quaeda. La sua età avanza e la Cina sta aspettando che muoia, per potersi cavare questa spina dal piede, illudendosi che, una volta morto lui, il problema dell’autonomia tibetana si dissolverà. Un’illusione. In realtà il problema si frammenterà e si farà più radicale. È così importante per quel che simboleggia da far credere a molti che, se dovesse mancare improvvisamente, il Cta potrebbe tentare quanto fecero nel 1682 quando, alla morte di un suo predecessore, per 15 anni riuscirono a mantenere segreto il suo trapasso: il tempo necessario per trovare la sua nuova reincarnazione.

L’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è abituato a questa segretezza: mezzo secolo fa sfuggì dalle mani di Mao Tzetung, abbandonando di notte in suo palazzo del Norbulingka per traversare gli altopiani ghiacciati tibetani e poi raggiungere l’India e Dharamsala (che in lingua indi significa “casa per il riposo”) dove fondò il proprio governo in esilio. La sopravvivenza di questa loro sede esterna la devono solo alla pazienza dell’India, che resiste alle gravi minacce cinesi. In Nepal, dove esiste una grande comunità di rifugiati tibetani, il governo filo comunista si sta avvicinando sempre di più alla Cina e ne asseconda i desideri, respingendoli. Il Dalai Lama ormai ammette apertamente che il loro errore fu di non essersi resi conto che il mondo gli stava cambiava sotto ai piedi e di aver continuato con il loro splendido isolamento. Già nel 1990 introdusse un sistema democratico per l’elezione del parlamento in esilio: vuole che in futuro il destino del suo popolo sia deciso dalla base. Per questo motivo gli piace far notare che i comunisti cinesi, che lo accusano continuamente d’essere un ferrovecchio feudale, sono molto più indietro dei tibetani in quanto a pluralismo democratico. Grazie a questa maggiore democrazia, le voci critiche all’interno del suo movimento non mancano, soprattutto fra i giovani, che vorrebbero contrastare con maggiore fermezza le prepotenze cinesi. Il XIV Dalai Lama vede la propria morte come un’opportunità per la sua gente, come una sfida, non come una disgrazia. Perché tutti dovranno scegliere una nuova direzione, che li guiderà attraverso questo nuovo secolo.

Tenzin Gyatso nato nel 1935, fu identificato come una diretta reincarnazione dei suoi tredici predecessori all’età di due anni. Fu investito dei pieni poteri nel 1950 e, da allora, porta una tremenda responsabilità sulle proprie spalle, sia per i suoi concittadini che per i 150mila tibetani della diaspora. A questi fuoriusciti, che vivono per lo più in India, ogni anno s’aggiungono duemila e cinquecento profughi che riescono a valicare il munitissimo confine. Un certo numero di tibetani addirittura arrivano sino a Dharamsala solo per potergli parlare per pochi minuti e poi tentano il viaggio di ritorno. Questi incontri, che a volte vengono aperti ai giornalisti, sono sempre molto commoventi. Lui prega con loro, cercando d’infondere coraggio e speranza. Poi li invita a non odiare i cinesi, ma di pregare per loro. Non perde occasione di ripetere che non vuole la secessione dalla Cina, ma solo un’autonomia culturale e religiosa, dato che i cinesi hanno già investito miliardi di dollari in infrastrutture e in una ferrovia che corre da Pechino sino a Lhasa: un miracolo d’ingegneria. Apprezza lo sviluppo materiale e si duole di non poter compiere anche lui quel viaggio, sedendo comodamente in una carrozza e ammirando il paesaggio, con il riscaldamento aperto. Recentemente ha causato grande costernazione fra i propri seguaci, ribadendo che lui sarà l’ultimo Dalai Lama e che, nella sua prossima reincarnazione, desidera rinascere donna.

 

13 gennaio 2010, Secolo d’Italia

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