Il viaggio in Oriente di Cesare De Federici.

FEDERICI (Fedrici, De Federici, dei Fedrici), Cesare. – Figlio di Girolamo, nacque ad Erbanno in Val Camonica (ora Comune di Darfo Boario Terme, in provincia di Brescia) nel 1521, come si deduce dal necrologio. Non si sa altro di lui fino a quando, nel 1563, con un capitale di 1.200 ducati investito in diverse merci, non s’imbarcò sulla nave “Gradeniga” a Venezia, dove s’era presumibilmente trasferito per far fortuna esercitando la mercatura. Sbarcato a Cipro, su una nave più piccola raggiunse Tripoli di Siria, con l’intenzione di proseguire subito per Aleppo, “oltra modo desideroso – come scrive – di vedere le parti di Levante”. Invece s’ammalò in casa di Regolo degli Orazi, forse di peste, come il fratello minore di questo mercante, che ne morì. L’Orazi si prese cura d’affidare la merce ad una carovana, che per la strada venne saccheggiata, lasciando al F. soltanto quattro cassoni di vetri, molti dei quali rotti. Gli erano costati 70 ducati. Con questo modestissimo capitale, arrotondato da qualche prestito, si mise in cammino per l’India. Del lungo viaggio, che si concluse col ritorno a Venezia dopo circa diciotto anni, il 5 nov. 1581, egli redasse un “mernoriale” che ce ne ha conservato la testimonianza.

L’itinerario , suggerito dalle prospettive commerciali, non è sempre facile da seguire, per la scarsa precisione delle indicazioni. Altre incertezze derivano dal fatto che per tre volte il viaggiatore fu indotto da vicissitudini varie ad abbandonare il canunino per Venezia e a tornare indietro. Da Aleppo, in compagnia di mercanti armeni e arabi, raggiunse Bīrecik, per discendere l’Eufrate su solide barche a fondo piatto, fino a Falluja, un tragitto che normalmente veniva percorso in quindici-diciotto giorni, ma che per la magra del fiume ne richiese quarantaquattro, con fastidiosi trasbordi, pagamento di dazi e continua minaccia di furti durante le soste nottume. Da Falluja in un giorno e mezzo arrivò a Baglidad, nelle cui vicinanze poté visitare la leggendaria torre di Nembrod (le rovine di ‛Aqar Quf) e proseguì per Basra, impiegando diciotto giorni di navigazione sul Tigri, su barche lunghe come “fuste” e perfettamente calafatate, con largo impiego del bitume locale.

A Basra s’imbarcò per Hormuz e da qui proseguì per Goa, fermandosi a Diu, a Kanbāyah, più a lungo, e in altri centri della costa occidentale dell’India, tra i quali Daman, Bassein, Chaul, Dabul, con puntate verso città dell’intemo, come Aḥmadâbâd. Da Goa, tra la fine del dicembre 1565 e i primi del gennaio 1566, quindi tre anni dopo la partenza da Venezia, si trasferì a Bezeneger (Vijayanagar), dove concluse i suoi affari in un mese, ma fu costretto a fermarsi per altri sei perché le strade erano bloccate dal brigantaggio.

È qui che per la prima volta l’India gli svela i suoi aspetti deteriori, le “cose strane e bestiali” degli idolatri, come la cremazione dei nobili, il rogo delle vedove, quelle di casta inferiore murate col cadavere del marito e “altre infinite bestialità “. La città sarà poi abbandonata dalla corte e dalla popolazione nel 1567, dopo la sconfitta di Talikota, le case intatte, invase dalle tigri e da altri animali feroci.

Nel ritorno a Goa, nel luglio 1566, fece l’esperienza di viaggiare a dorso di bue, raggiungendo la costa ad Ancola. Nell’ultimo tratto di strada fu assalito da predoni, che gli portarono via tutto, lasciandolo nudo. Per sua fortuna aveva nascosto i gioielli nel cavo di una canna, così poté portarli in salvo a destinazione.

Negli ultimi mesi del 1566 partì da Goa per Malacca, su un galeone della Corona portoghese che andava a Banda a caricare spezie. La rotta passava al largo di Ceylon, per il canale delle Nicobare e Sumatra (che il viaggiatore chiama Taprobana). Fu, a quanto sembra, un viaggio diretto, senza relazione con altre località descritte nel racconto forse per completezza geografica. La loro successione si colloca su un itinerario diverso, quello costiero, che certamente fu percorso dal F. in un altro viaggio: Honowar, Mangalore, Cannanore, Granganore, Cochin, Quilon, capo Comorin, i bassifondi del golfo di Manar, davanti all’isola di Ceylon, Ceylon, Nagapatan, San Tomè; si aggiunge, dalle Nicobare alla Birmania, “una catena d’isole infinite”, le Andamane. Egli scrive di non essere andato più a Oriente di Malacca ma di riportarsi, per quei paesi, a ciò che sapeva “per buona informatione” di chi c’era stato, in particolare di un persiano che aveva dimorato per tre anni a Nanchino. Ripartì da Malacca in direzione di San Tomè su una “nave grossa”, sulla quale avevano preso imbarco più di quattrocento persone, ma il vento la fece vagare per settantaquattro giorni, trascinandola fino ad Orissa, sulla costa orientale dell’India. La nave aveva levato le ancore precipitosamente per timore d’essere coinvolta in azioni belliche; non aveva fatto in tempo a rifornirsi d’acqua, così che molti di quelli che erano a bordo morirono di sete, e il F., costretto anche a disfarsi a poco prezzo di uno schiavo che lo accompagnava, per non dover dividere la razione con lui, restò per un anno con la gola arsa. Da Orissa andò a Satigam e Bliator, alla foce del Gange, per tornare poi a Cochin, nel Malabar, e successivamente a Malacca, da dove intraprese poi il viaggio per il Pegù (Birmania) prevedendo che durasse venti-venticinque giorni. Invece s’impiegarono quattro mesi: dopo tre mesi erano soltanto al largo di Tenasserim, sulla penisola di Malacca. Con una barca il F. e altri ventisette uomini cercarono di raggiungere il porto per fare provvista di viveri, ma, non riuscendo ad orientarsi, errarono affamati per nove giorni, finché non furono aiutati a ritrovare la loro nave a Martaban.

Qui il viaggiatore riuscì prudentemente a scampare ad una rappresaglia contro i Portoghesi, ma ne ebbe egualmente un gran danno, perché rimase bloccato per ventun mesi, senza poter vendere le sue merci. Su barche simili alle “peate” veneziane per schivare le insidie delle fortissime maree, si portò poi a Pegù, capitale del regno dello stesso nome. Rimase qui fino all’agosto 1569, quando deliberò di rientrare in patria, ritenendo d’aver guadagnato abbastanza. Per non perder tempo scartò la rotta di San Tomè, che per i monsoni contrari era praticamente chiusa fino al marzo successivo, ma affidatosi a quella costiera del Bengala incappò in una terribile tempesta che disalberò la nave e la mandò in secca sulla costa dell’isola di Sandwip. Ripreso il cammino, fece sosta a Chittagong, e poté giungere a Cochin solo quando l’ultima nave per il Portogallo aveva già fatto vela. Allora prese la risoluzione di tornare a Venezia per la strada di Hormuz e perciò s’imbarcò su una galera diretta a Goa. Sfortunatamente, bloccato qui dall’assedio della città (1570), contrasse una malattia che gli durò quattro mesi, costringendolo a liquidare a basso prezzo una partita di rubini. Vedendo che il suo viaggio orientale era ormai economicamente fallito, quando gli fu possibile vendette anche le gioie che gli restavano; il ricavato decise d’investirlo a Cambay, nel Gujarat, in oppio e di andarlo a commerciare in Birmania. Quando da Goa arrivò a Cochin apprese che la nave sulla quale aveva spedito tre balle di cotonine aveva fatto naufragio, e la sfortuna non cessò di perseguitarlo perché quella sulla quale s’era imbarcato alla volta di San Tomè sbagliò rotta e fu costretta a tornare indietro. Egli riuscì a raggiungere San Tomè con una barca. Sembrava che dovesse diventare ricchissimo, perché in Birmania l’oppio si vendeva molto bene e il F. era l’unico mercante ad esserne fornito; invece una nave dirottata da una tempesta ne scaricò una quantità grandissima che fece crollare il prezzo. Per non perdere tutto il F. restò due anni in Birmania, probabilmente nel 1571 e 1572.

Finalmente poté riprendere la strada per l’India e per Hormuz con una grossa partita di lacca. Da Hormuz tornò a Chiaul e qui l’esperienza precedente gli suggerì di comprare oppio, ma non in grande quantità. Fece male, perché il prezzo salì e in Birmania, dove si recò ancora una volta, gli si sarebbe nuovamente offerta l’occasione di far fortuna. Ma guadagnò egualmente abbastanza per decidere di tornare a casa. Partito da Pegù, trascorse l’inverno a Cochin e quindi andò a Hormuz. Il tratto successivo, fino a Basra, lo percorse a bordo di un “navilietto” che noleggiò in compagnia col veneziano Francesco Beretin. A Basra i due soci dovettero aspettare quaranta giorni che si formasse un convoglio di barche per risalire il fiume senza pericolo di subire assalti di predoni; anche a Baghdad, dopo cinquanta giorni di viaggio, restarono fermi per la stessa ragione quattro mesi, finché non si radunò una carovana per Aleppo. Erano quaranta giornate di strada, trentasei delle quali nel deserto, ma, forniti di una tenda da campo e di cavalli e di mule, oltre ai cammelli sui quali caricarono la merce, viaggiarono ottimamente, con acqua in abbondanza e mangiando ogni giorno carne fresca di castrato.

Prima d’imbarcarsi a Tripoli, sulla nave “Ragazzona”, sempre in compagnia col Beretin, il F. andò in pellegrinaggio a Gerusalemme, forse per adempiere un voto. Poi, “con l’aiuto divino, dopo tanti travagli” arrivò finalmente a Venezia.

Egli era partito per l’India con poche decine di ducati e ritornava “con buon capitale”. Erano paesi, quelli nei quali aveva condotto i suoi affari, dove “con fatiche e viaggi” era “facil cosa di niente fare assai”, a patto di comportarsi in modo corretto, evidentemente perché, in difetto di una tutela adeguata delle istituzioni mercantili, il sistema dei rapporti funzionava solo con l’onestà reciproca. Le occasioni di guadagno non mancavano. Da quello che traspare dal suo racconto, il F. operava nel commercio a largo raggio, speculando sulle varietà di prezzo nello spazio e nel tempo, talvolta fortemente aleatorie, come nel caso dell’oppio che sulla piazza birmana, quando egli si apprestava a vendere, crollò da 50 unita’ di moneta locale a due e mezzo. Egli trafficò in vetri, cotonine indiane, lacca, oppio, pepe, legno di sandalo, porcellane cinesi, rubini e altre gioie, secondo la pratica veneziana di trattare un ampio ventaglio di prodotti, ponendosi – come scrive – “a sbaraglio in molte cose”, ed è probabile che nei suoi trasferimenti a lunga distanza sulle rotte costiere abbia esercitato anche il commercio itinerante, traendo profitto dalle varie occasioni che si presentavano. In una circostanza, a Sandwip, è lui che compra vacche da salare, cinghiali e galline per la nave. In alcune piazze commerciali si tratteneva a lungo; in Birmania si fece costruire una casa di canne di bambù spaccate e disposte ad intreccio secondo l’uso del luogo. Conosceva perfettamente le spezie: infatti descrive le piante del pepe e dello zenzero, la prima rampicante, coi “corimbi o i graspi come fa l’edera”, la seconda simile al panico, con un grosso rizoma; l’albero della noce moscata, che nien gran somiglianza con l’albero delle nostre noci, ma non troppo grande”, quello dei chiodi di garofano simile al nostro lauro. Di altre indica la provenienza.

Ma in India si specializzò soprattutto nel commercio delle pietre preziose. È significativo che nel ritorno in patria si sia accompagnato con Francesco Beretin, di Giovanni, che in documenti più tardi figura in tale attività, in particolare nell’agosto 1583, in partenza da Venezia per Costantinopoli, con una grossa quantità di smeraldi. Il F. non parla di questa merce nella prima parte del viaggio, fino al ritorno da Bezeneger a Goa, ma poi ne tratta in modo particolareggiato, diffondendosi anche sulle condizioni della loro contrattazione in Birmania.

Dopo il rientro in patria, nei documenti il F. figura di regola come gioielliere, al centro di una complessa rete d’affari. Nel 1589 arrivò a Costantinopoli dall’India una partita di rubini e di zaffiri nella quale egli era il maggior interessato: era “roba vistosa e granda” che non solo non riscuoteva il favore della piazza ma scoraggiava altre spedizioni commerciali del genere. Nel novembre 1587 compì un viaggio in Sicilia per ricuperare un credito di 100 zecchini presso la vedova di un suo agente morto intestato, e al ritorno andò direttamente a Costantinopoli, dove giunse il 3 ag. 1588. Negli anni tra il 1590 e il 1592 fece altri viaggi a Costantinopoli, dove lo troviamo spesso nella cancelleria del bailo veneziano, per azioni contro debitori insolventi e questioni varie. La principale fu con un altro suo agente su quella piazza, Zuane Lullier, per la vendita al patriarcato greco locale, nell’aprile 1587, di gioie per 10.000 scudi d’oro per riscattare dalle mani dei Turchi il patriarca Geremia e certi beni della Chiesa. La lite era ancora aperta nel giugno 1600, dopo la morte del Lullier. A Costantinopoli un’altra forte somma gli era dovuta da un mercante ebreo per una collana d’oro ornata di gioielli, e a Napoli, nel 1594, aveva un credito col gioielliere Matteo Storaco per due pugnali gioiellati e denaro vario.

Ma gli affari dovevano comunque andare bene, perché il F. mostra di avere larghe disponibilità di denaro investito in varie imprese. Nel 1595 conferi un capitale di 3.000 ducati in società con Francesco di Bernardo Buschi per il commercio di cordovani e nel 1596 diede il suo apporto in capitale ad una società “per il viaggio delle Indie”, della quale Giovan Paolo Mariani era il socio viaggiante, accompagnato da un Giob. Federici, forse parente del F., come apprendista. Dalla sentenza arbitrale di liquidazione, del 1599, abbiamo notizia di molte delle operazioni compiute, per la maggior parte riguardanti il commercio di gioie. La società col Bruschi chiuse i conti in perdita, nel 1600, ma l’operazione ha tutta l’Iaria di un mutuo simulato. Il F. prestò anche denaro a livello francabile ad Antonio e Pietro Mazzocchi, mercanti di panni, e al convento di S. Michele di Murano.

Dai testamenti che fece il 4 apr. 1590, alla vigilia della partenza per Costantinopoli, e il 4 dic. 1599, con numerosi lasciti a chiese, ospedali, zitelle, apprendiamo il nome della moglie, Ortensia (o Orsetta) Maragna, alla quale destinò un cospicuo legato che includeva la restituzione dei 1.850 ducati della dote; tutto il resto doveva essere diviso tra i quattro figli dei suoi fratelli Zuan Maria e Bernardino.

Il testamento del 1599 fu pubblicato il 7 nov. 1601, alla sua morte, che curiosamente nel Necrologio della Sanità veneziana appare invece registrato l’8 novembre. Moriva ottantenne, di una malattia polmonare, in otto giorni.

Il F. affidò il “memoriale” che aveva steso del suo viaggio in India a Bartolomeo Dionigi da Fano, perché lo elaborasse per la stampa. Letto più volte dall’autore e riconosciuto “vero e fedele” venne pubblicato “a commune delettatione ed utile” nel 1587. La non eccelsa personalità letteraria del Dionigi, compilatore di cronologie ecclesiastiche e di compendi di fatti memorabili, fa pensare che nella sua sostanza il testo originale sia rimasto intatto, né è scomparso del tutto il colorito veneto del discorso. È invece probabile che sia opera del Dionigi il tentativo di fare una descrizione sistematica dell’India, sul modello di quella della Sarmazia europea di Alessandro Guagnino che qualche anno prima egli aveva tradotto dal latino per la grande raccolta del Ramusio. Ne è risultato un compromesso tra il diario di viaggio e l’abbozzo di una geografia, che non sempre trova un suo equilibrio.

Sotto l’aspetto geografico non ci sono molte cose nuove, in particolare nella parte che riguarda l’India, ma la sua è tra le prime descrizioni particolareggiate del viaggio da Aleppo al Golfo Persico. Modesto, come rileva Olga Pinto, è anche il suo contributo linguistico, limitato a poche parole delle parlate indocinesi. La relazione è invece apprezzabile per il suo realismo e infatti non accoglie credenze del tipo di quella araba che la sorgente di bitume nelle vicinanze di Hit, nel Vicino Oriente, sia la bocca dell’inferno, limitandosi ad ammettere che “in vero è cosa molta notabile”. Non ci sono concessioni ad elementi fantastici neppure per i luoghi sui quali il F. scrive per sentito dire. Di quello che gli sembra stravagante cerca molte volte di fornire la ragione riposta, come a proposito degli abiti di linea troppo audace delle donne birmane, che avevano la funzione di allontanare i maschi dall’omosessualità, e della crudele sorte riservata alle vedove, per rendere le mogli più fedeli, perché in passato molte di loro non esitavano ad avvelenare il marito per il minimo torto che subivano.

Il lungo soggiorno gli aveva insegnato a conoscere l’Oriente e a non respingere le alterità dei suoi costumi. Eccezionalmente parla di “gente molto bestiale”, di “mala gente”, e nel caso degli abitanti delle Andamane, di “gente selvaggia”, per quanto l’attribuzione ad essi della pratica dell’antropofagia appartenga alla consueta immagine dei paesi ai confini del mondo conosciuto. Per lui “quelle parti dell’India sono paesi molto buoni”. Egli non dà mai l’impressione d’aver incontrato le limitazioni di movimento e le difficoltà di comunicazione per le quali un viaggiatore ha il sentimento dello straniero sottoposto a discriminazioni. A Martaban riesce a difendere i suoi beni da una rappresaglia provocata dai Portoghesi sostenendo con fermezza di essere estraneo ad ogni questione che riguardasse costoro, essendo di un’altra nazionalità.

Però non perde l’istintiva prevenzione per ciò che non assomigli ai modelli europei. Così, disprezza i cibi dei Birmani – “tutto fa per la lor bocca, sina i scorpioni e le serpi” – i costumi coniugali di una casta di guerrieri del regno di Cochin, le città indiane. Su queste il suo giudizio soltanto di rado è moderatamente positivo, come per Aḥmadâbâd, Goa, Satigam, abbastanza belle tenuto conto che sono “città de Gentili”. La sua ammirazione va alla città coloniale portoghese, dalle strade lunghe e diritte e con molte chiese. Comunque i suoi criteri di stima sono l’abbondanza dei viveri e il “gran negotio di forestieri”.

Mercante, è molto attento a quello che interessa la sua professione. Descrive con competenza la forma delle barche e delle navi, definendone le caratteristiche mediante il confronto con quelle veneziane, e parla volentieri di mercati, di correnti di traffico e di modalità degli scambi, dando evidenza a quelli ineguali del commercio coloniale, i Portoghesi che importano dalla costa orientale dell’Africa avorio, schiavi, ambra, oro pagando con cotonine e conterie di cattiva qualità. Particolarmente suggestiva la descrizione della contrattazione muta delle gioie, per mantenere segreto il prezzo, toccandosi reciprocamente in modo convenzionale le dita nascoste sotto un panno. Se di molti prodotti è ben informato, come dello spodio, che in Birmania “si congela d’acqua in alcune canne”, s’appaga invece della spiegazione di fantasia che gli danno della preparazione del muschio della Tartaria, ricavato dalla carne di una specie di volpe, intrisa del sangue dell’animale e finemente pestata.

Quelli orientali sono per lui soprattutto i paesi delle spezie e delle pietre preziose, ma osserva anche le manifestazioni di vita e di costume. Nel racconto trovano posto le cerimonie dell’incoronazione del re di Hormuz, il rito indiano del rogo della vedova al quale ha assistito più volte meno con raccapriccio che col fastidio del “terremoto di pianto e d’urli” che tiene dietro alla festosa allegrezza iniziale; il Gange coi lavacri degli infermi e la sommersione dei cadaveri; le donne Nāyar, nel regno di Cochin, con dei fori “monstruosamente grandi” nei lobi degli orecchi; la pesca delle perle al largo dell’isola di Ceylon; la palma del cocco (al mondo non si trova “arboro della bontà di questo e che se ne cavi più utilità”) e il raccolto della cannella a Ceylon, “quando gli arbori vanno in amore”. Molto particolareggiata è la descrizione della Birmania, il re con le sue trecento concubine, il cerimoniale delle udienze, i templi dai tetti cementati con lo zucchero, gli abitanti vestiti tutti allo stesso modo, la cattura degli elefanti e il loro addomesticamento per l’impiego in pace e in guerra, il miracoloso vino di palma.

In queste pagine il ritratto dell’Oriente è colorato d’esotismo ma non c’è margine per l’immaginario. L’aderenza al vero determinò le fortune dell’opera come fonte di conoscenza di paesi che s’andavano aprendo alla conquista coloniale. Vi attinsero per le loro relazioni di viaggio Gasparo Balbi e Ralph Fitch, che visitarono anch’essi la Birmania, l’accolse la grande raccolta ramusiana e fu più volte tradotta e pubblicata – anche in estratto – in olandese e in inglese.

Un’edizione moderna ne è stata condotta da Olga Pinto, che ha dedicato al viaggiatore numerosi studi. ottimo il commento, particolarmente ricco nei dati geografici e storici, con qualche incertezza nell’interpretazione di vocaboli veneziani, soprattutto dove riduzioni fonetiche o voci dialettali vengono segnalate come errori.

(Da Dizionario Biografico Treccani – Ugo Tucci)

 

 

 

VIAGGIO DI MESSER CESARE DE FEDRICI NELL’INDIA ORIENTALE E OLTRA L’INDIA PER VIA DI SORIA.

 

Capitolo 1

L’anno della redenzione umana 1563, ritrovandomi io Cesare de’ Fedrici in Venezia, oltra modo desideroso di vedere le parti del Levante, m’imbarcai con diverse merci su la nave Gradeniga, patronigiata da Giacomo Vatica, qual andava in Cipri. Ove giunto, passai in Tripoli di Soria con un vassello minore; né qui fermatomi, presi il camino alla volta d’Aleppo, ove si va con le carovane in sei giornate di gambelo. In Aleppo si fa poi prattica co’ mercanti armeni e mori, per andar in lor compagnia in Ormus; e così con essi d’Aleppo partitomi, giungessimo in due giornate e mezza al Bir.

Capitolo 2

Bir.

Il Bir è una picciola cittade, ma molto abbondante di vettovaglia, e appresso le sue mura corre il fiume Eufrate. Fanno in questo luogo i mercanti diverse compagnie, secondo la mercanzia che portano; e ogni compagnia fa fare delle barche, overo ne compra di fatte, per andare con esse in Babilonia, pagando ciascun mercante per ratta della sua mercanzia i patroni e i marinari che le conducono. Sono queste barche in foggia di burchielle col fondo piano, ma forte, né si possono adoperare se non per un solo viaggio all’andare a seconda del fiume, percioché, essendo il fiume impedito in molti luoghi da’ sassi e da discese, non possono esser ricondotte indietro; ma, servitosi d’esse sin ad una villa chiamata la Feluchia, si disfanno, e vendendole se ne cava poco prezzo, percioché quello che costa al Bir quaranta e cinquanta cecchini si dà per sette e per otto. Quando poi i mercadanti ritornano indietro, se essi hanno mercanzie da dazio fanno il viaggio quaranta giornate in circa per il deserto, passando essi per questa strada con assai manco spesa; ma non avendo roba da dazio vengono per la via del Mosul, per dove si fanno molto spesse le caravane e compagnie. Dal Bir alla Feluchia, luogo ove si sbarca, posto all’incontro di Babilonia, quando il fiume ha buona acqua si va in quindeci o dicidotto giorni; ma occorse nel mio viaggio ch’erano passati molti giorni senza pioggia e l’acqua del fiume era bassissima, talché vi stessemo quarantaquattro giornate, percioché, urtando noi spesso in secco, ne conveniva scaricare la barca e passare così vuoti, e indi ritornarla a caricare. Non bisogna partirsi dal Bir per questo viaggio con una barca sola, ma se ne conducono due o tre, accioché, caso ch’una si rompesse, s’abbia ove caricar la mercanzia sino che si racconcia la barca; che, se si mettesse in terra, saria difficile il difenderla la notte dalla gran moltitudine degli Arabi che vanno rubando. E quando la notte si sta ligati alle rive, bisogna farsi buona guardia, per rispetto degli Arabi, che son ladri formicheri: non amazzano, ma rubbano e fuggono; e contra questi sono molto buoni gli archibugi, temendone essi grandemente. Per il fiume Eufrate dal Bir alla Feluchia sono alquanti luoghi ove si paga di dazio tanti maidini (cioè grossetti per soma), qual dazio è del figliuolo d’Aborise, signore degli Arabi e di quel gran deserto; e ha questo deserto alcune città e ville su le rive del fiume.

Capitolo 3

Feluchia e Babilonia.

La Feluchia, ove sbarcano quelli che vengono dal Bir, è una villa, di dove si va in Babilonia in una giornata e mezza. Ed è Babilonia una città non molto grande, ma ben popolata e di gran negozio di forestieri, per esser un gran passo per la Persia, per la Turchia e per l’Arabia, e spesso v’entrano e n’escano caravane per diverse bande. È assai abbondante di vettovaglia, che vi viene d’Armenia giù per il fiume Tigris, il qual bagna le mura della città. Vengono queste robbe sopra alcune zattare fatte d’utri gonfiati e ligati insieme, sopra i quali distendono delle tavole, e sopra esse caricano la roba, che giunta in Babilonia e scaricata, disgonfiano gli utri e gli portano indietro con i gambeli, per servirsene dell’altre volte in altri viaggi. Giace questa città nel regno di Persia, ma da un tempo in qua è signoreggiata dal Turco. Ha dalla banda che guarda verso l’Arabia, oltra il fiume, all’incontro della città, un borgo con un bello bazarro e assai fonteghi, ove alloggiano la maggior parte de’ mercanti forestieri che vi arrivano. Si passa da questo borgo alla città sopra un lungo ponte fatto di barche incatenate insieme con grosse catene; ma quando il fiume per le pioggie s’ingrossa troppo, fa bisogno aprire questo ponte in mezzo, una parte del quale s’accosta alle mura della città e l’altra s’appoggia alle rive del borgo. E in questo tempo si passa il fiume con barche, ma con grandissimo pericolo, percioché, essendo le barche picciole e caricandole essi troppo, spesso si ribaltano o sono dalla correntia del fiume inghiottite, e vi s’annegano molte persone, come ho veduto occorrere nel tempo che ho dimorato in questa città più di una volta.

Capitolo 4

Torre di Babilonla.

La torre di Nembrot è posta di qua dal fiume verso l’Arabia in una gran pianura, lontana dalla città intorno a sette overo otto miglia, qual è da tutte le bande ruinata e con le sue ruine s’ha fatto intorno quasi una montagna, di modo che non ha forma alcuna; pur ve n’è ancora un gran pezzo in piedi, circondato e quasi coperto affatto da quelle ruine. Questa torre è fabricata di quadrelli cotti al sole, a questo modo: hanno posto una man di quadrelli e una di stuore fatte di canne, tanto forti ancora che è una maraviglia, ed è smaltata di fango in vece di calcina. Io ho caminato intorno al piede di questa torre, né gli ho trovato in alcun luogo intrata alcuna: può circondare, al mio giudicio, intorno ad un miglio, e più tosto manco che più. Fa questa torre effetto contrario a tutte l’altre cose che da lontano si vedono, percioché esse da lontano paiono picciole, e quanto più l’uomo si gli avicina più grande si dimostrano; ma questa da lontano pare una gran cosa, e avvicinandoseli manca sempre più l’apparente grandezza. Io stimo che sia cagione di questo l’esser posto essa torre in mezzo ad una larga pianura e non avere all’intorno cosa alcuna rilevata, fuor che le ruine ch’intorno si ha fatte, e per questo rispetto scoprendosi da lontano quel pezzo di torre ch’ancora è in piedi, con la montagna fattasi all’intorno con la materia da essa caduta, fa mostra assai maggiore di quello che poi avvicinatosi si trova.

Di Babilonia mi parti’ per Basora, imbarcandomi in barche che vanno per il fiume Tigris da Babilonia a Basora e da Basora a Babilonia, che sono fatte a guisa di fuste con speroni e con la poppa coperta; non hanno sentina perché non gli bisogna, non facendo né anco una goccia d’acqua, per la molta pegola che li danno, avendone essi grandissima abondanza. Percioché due giornate di qua da Babilonia, appresso il fiume Eufrate, è una città che si chiama Ait, vicino alla quale giace una pianura tutta piena di pegola che in essa nasce, ed è cosa maravigliosa da vedere una bocca che di continuo getta verso l’aere la pegola con una spessa fumana, la qual si va poi spargendo per quella campagna, di modo che n’è sempre piena. Dicono i Mori che quella è bocca dell’inferno, e in vero è cosa molto notabile. E per questo hanno que’ popoli gran commodità d’impegolar bene le lor barche, che da essi sono chiamate danec e safine. Quando il fiume Tigris ha pur assai acqua, in otto o nove giornate si va da Babilonia a Basora; noi vi stessemo la metà più, perché l’acque erano basse; e si naviga di giorno e di notte a seconda d’acqua, e vi sono per il viaggio alcuni luoghi ove si paga di dazio tanti maidini per soma. E in 18 giorni in Basora giungessemo.

Capitolo 5
Basora.

Basora è città dell’Arabia e la signoreggiavano anticamente gli Arabi Zizaeri, ma ora dal Turco è dominata, il quale vi tiene con gran spesa un grosso presidio. Possedono questi Arabi Zizaeri un gran paese, né possono essere dal Turco sottoposti, percioché sono in esso diversi canali che vengono dal mare, crescendo e calando, di maniera che par tutto diviso in isolette, e però non vi si può condurre esercito né per acqua né per terra; e sono i suoi abitatori gente molto bellicosa. Prima che si giunga a Basora forsi una giornata, si trova una picciola fortezza chiamata Corna, qual è fondata su una ponta di terra che fanno il Tigris e l’Eufrate nel congiungersi insieme; li quali così congiunti fanno un grosso e gran fiume, e vanno a scaricare le lor acque nel golfo di Persia, verso mezzogiorno. Basora è distante dal mare intorno a quindeci miglia, ed è città di gran negocio di speziarie e di droghe, che vengono d’Ormus, e vi è gran quantità di frumento, di risi, di legumi e di dattili, che nascono nel territorio. M’imbarcai in Basora per Ormus, e si velleggia per il mar Persico seicento miglia da Basora in Ormus, con certi navilii fatti di tavole cusite insieme con aco e corda sottile, e in vece di caleffattarli cacciano tra una tavola e l’altra una certa sorte di paglia, onde fanno molta acqua e sono molto pericolosi. Partendosi da Basora si passa ducento miglia di colfo col mare a banda destra, sino che si giunge nell’isola di Carichi, di dove fina in Ormus si va sempre vedendo terra della Persia a man sinistra, e alla destra verso l’Arabia si vanno scoprendo infinite isole.

Capitolo 6
Ormus.

Ormus è un’isola che circonda intorno a venticinque o trenta miglia, ed è la più secca isola che al mondo si trovi, percioché in essa non si trova altro che sal, e acqua e legne e altre cose all’uman vitto necessarie vi si conducono di Persia, indi dodeci miglia distante, e dall’altre isole circonvicine, in tanta abbondanzia e quantità che la città n’è copiosamente fornita. Ha una fortezza bellissima, vicina al mare, nella qual risiede un capitano del re di Portogallo con una buona banda di Portoghesi, e inanzi alla fortezza è una bella spianata. Nella città poi abitano i suoi cittadini, uomini maritati, soldati e mercadanti di ogni nazione, tra i quali assai Mori e Gentili. Si fanno in questa facende grossissime d’ogni sorte di speziarie, di drogarie, sete, panni di seta, broccati e di diverse altre mercanzie, che vengono di Persia; e tra l’altre gran trafico è quello de’ cavalli, che di qui si portano in India. Ha questa isola un proprio re moro, di generazione persiano, il qual però vien creato capitano della fortezza in nome del re di Portogallo. Io mi trovai alla creazione d’un re di questa isola e viddi le cerimonie che s’usano. Morto il re, il capitano n’elegge un altro di sangue reale, e si fa questa elezione nella fortezza con assai cerimonie; ed eletto che egli è, giura fedeltà al re di Portogallo, e allora il capitano li dà il scetro regale in nome del re di Portogallo suo signore, e indi con gran pompa e festa l’accompagnano al palazzo reale posto nella cittade. Tiene detto re onesta corte e ha sofficiente entrata senza fastidio alcuno, percioché il capitano li difende e mantiene le sue ragioni; e quando cavalcano insieme l’onora come re, né può detto re cavalcare con la sua corte se prima non lo fa sapere al capitano. Si fa e comporta questo perché così è necessario di fare per il negozio di quella città, la propria lingua della quale è la persiana.

M’imbarcai in Ormus per Goa, città dell’India, in una nave che portava ottanta cavalli. Avertisca il mercante che vuol passar d’Ormus a Goa d’imbarcarse su nave che porti cavalli, che vi passano anco nave e navili che non portano cavalli; percioché tutte le navi che portano da venti cavalli in su sono privilegiate, che tutta la mercanzia che ‘n essa si ritrova, e sia pur di chi esser si voglia, non paga dazio alcuno; ove la mercanzia ch’è caricata sopra legni che non portano cavalli è sottoposta a pagar di dazio otto per cento.

Capitolo 7
Goa, Diu e Cambaia.

Goa è la principal città ch’abbiano i Portoghesi in India, ove risiede il vice re con la corte e ministri regii. E da Ormus a Goa vi sono novecento e novanta miglia di passaggio, nel quale la prima città che si trova dell’India si chiama Diu, posta in una picciola isola del regno di Cambaia, ove è la miglior fortezza che sia in tutta l’India. Ed è picciola città, ma di gran facende, perché vi si caricano assai nave grosse di diverse robbe, e per lo stretto della Mecca e per l’isola d’Ormus; e queste sono nave de’ Mori e de’ Cristiani, ma i Mori non possono navigare per quei mari senza il cartacco, cioè licenzia del vice re di Portogallo, altramente si pigliarebbono per contrabando. Vengono le robbe che si caricano su queste navi da Cambaiette, porto di Cambaia, sopra navilii e legni piccioli, non potendovi andare né navi né navilii grossi per rispetto che le acque vi sono molto basse; ed è questo un pareggio d’intorno a cento e ottanta miglia di golfo e stretto, che in lor lingua chiamano maccareo di Cambaia, perché corrono qui l’acque fuori d’ogni misura a parangon degli altri luoghi, eccettuando che nel Pegu vi è un altro maccareo ove corrono con empito maggiore. La città reale di Cambaia si chiama Amadavar ed è una giornata e mezza fra terra da Cambaiette; è città grande e ben popolata, e per città de’ Gentili è molto bene edificata, con belle case e strade e piazze larghe con assai botteghe, ed è quasi su l’andar del Cairo, ma non è così grande. Cambaiette è sul mare ed è assai bella città, nella quale io mi son ritrovato in tempo di calamità di carestia, e ho visto i padri e le madri gentili andar pregando i Portoghesi che comprassero i loro figliuoli e figlie, e gli vendevano per sei, otto e dieci larini l’uno; e un larino, ridotto alla nostra moneta, può valer intorno ad un mocenigo. Con tutto questo, s’io non l’avesse veduto, non avrei creduto le grande e grosse facende di mercanzia che vi si fanno. E ogni luna nuova e ogni luna piena è il tempo ch’entrano ed escono i vasselli, percioché in quei due punti l’acque gonfiano; d’altro tempo sono l’acque tanto basse che non si può navigare. Entrano nella volta e nel tondo della luna col crescente dell’acque assai navilii piccioli carichi d’ogni sorte di spezie, di seta della China, di sandolo, di dente d’elefante, verzini, veluti, gran quantità di panina, che vien dalla Mecca, zechini, moneta e diverse altre mercanzie. Escono poi di qui navilii carichi d’una quasi infinita quantità di tele di bombaso, bianche, stampate e dipinte, grandissima quantità d’endighi, zenzari secchi e conditi, mirabolani secchi e conditi, boraso in pasta, assai zuccaro, molto cottone, assaissimo anfione, assa fetida, puchio e molte altre sorti di droghe, li turbiti si fanno in Diu, pietre grosse, come corniole, granate, agate, diaspri, calcidonii amatisti e anco qualche sorte di diamanti naturali.

Una usanza è in Cambaiette alla quale niuno è sforzato, ma però da tutti i mercadanti portoghesi è osservata, la qual è questa. Sono in questa città alquanti sensari gentili e di grande autorità, ciascuno de’ quali ha quindeci e venti servitori, e’ mercadanti che sono usi nel paese hanno il suo sensaro del quale si servono, e quelli che non vi sono più stati sono dagli amici di questa usanza informati, di qual sensaro si debbano servire. Or ogni quindeci giorni, come di sopra ho detto, che le flotte de’ navilii entrano in porto, vengono questi sensari a marina, e li mercadanti, sbarcati che sono, danno le pollize di tutta la lor mercanzia a quel sensaro del qual servir si vogliono, insieme col segnal delle lor balle. E indi fatto sbarcar i fornimenti di casa (percioché per tutta l’India bisogna che i mercanti portino seco tutti i mobili più necessarii di casa, poi che in ogni luogo gli conviene far casa nuova), il sensaro ch’ha da loro avuto la poliza fa che i suoi servitori caricano questi fornimenti di casa sopra alcune carette assai deboli e, dicendo al mercante che vadi a riposare, gli manda nella cittade, ove ogni sensaro ha diverse case vuote, nette e polite, per alloggiare i mercanti, fornite solo di lettiere, tavole, carieghe e vasi da acqua. Resta il sensaro con la poliza alla marina, fa sbarcar la mercanzia, la dispaccia dal dazio e la fa portare con carette alla casa ove è alloggiato il mercadante, senza ch’esso sappia cosa alcuna né di dazio né di spesa fatta. Condotta che è la mercanzia a questo modo in casa del mercante, gli dimanda il sensaro s’egli fa pensiero di vendere allora per il prezzo corrente, e volendo vender gliela fa subito dar via, dicendogli: “Voi averete tanto di cadauna sorte di mercanzia, netto d’ogni spesa e in dinari contanti”; e se ‘l mercante vuol investire il dinaro in altre mercanzie, gli dice: “La tal e la tal cosa vi costarà tanto posta in barca”, senza sentire alcuna sorte di spesa. E il mercante, intesa la proposta, fa i suoi conti e, se li par di vendere e comprare per i prezzi correnti, gli ordina che facci botta, e se ben avesse robba per ventimila ducati, in quindeci giorni tutta si smaltisse senza alcun suo pensiero o fatica. Quando poi non li pare poter dar la sua roba per quelli prezzi, può aspettar quanto li piace, ma la mercanzia non può esser venduta per altre mani che di quel sensaro che l’ha spedita di doana; e alle volte aspettando qualche tempo a vendere si guadagna e alle volte si discaveda, ma per il più, in alcune sorte di mercanzie che non vengono ogni quindeci giorni, aspettando si fa assai meglio.

I navilii ch’escono di questo porto carichi vanno al Diu a caricar le navi, che de lì vanno poi alla Mecca e in Ormus, e parte vanno a Chiaul e a Goa, con la scorta sempre dell’armata de’ Portoghesi, per rispetto de’ molti corsari che vanno corseggiando e robando tutta quella costa dell’India, per tema de’ quali non è sicuro il navigarvi se non con navi ben armate overo con la scorta dell’armata portoghese. In somma il regno di Cambaia è luogo di gran traffico e di grosse facende, con tutto che da un tempo in qua sia in mano de’ tiranni. Percioché, essendo già sessantacinque anni stato ammazzato il suo vero re gentile, chiamato sultan Badu, all’impresa del Diu, quattro o cinque capitani si partirono il regno fra loro e ciascuno tiranneggiava la sua parte; ma già dodeci anni il gran Magol re moro d’Agra e del Deli, infra terra da Amadavar quaranta giornate, si è impatronito di tutto il regno di Cambaia senza contrasto alcuno, percioché, essendovi esso con grand’empito e sforzo di gente entrato e trovandolo diviso, non fu chi se gli opponesse, ma fu subito obbedito da tutti; e sono gente molto bestiale e tiranna. Mentre io dimorai in Cambaiette vidi cosa che mi fece molto maravigliare, che fu il quasi infinito numero de’ maestri che del continuo fanno manini di denti d’elefanti lavorati a varii colori per le donne gentili, le quali tutte ne portano piene le braccia, e vi si spende ogni anno assai migliara di scudi; e la cagione è che, quando li muore alcun parente, è costume che le donne per segno di dolore si spezzano tutti i manini che hanno intorno alle braccia, e subito poi ne comprano degli altri, percioché stariano più presto senza mangiare che senza manini.

Capitolo 8
Daman, Basain e Tana.

Passato il Diu si trova Daman, seconda città de’ Portoghesi, posta nel territorio di Cambaia, lontana dal Diu cento e venti miglia. Non è luogo di mercanzia, fuor che di risi e di frumento; ha molte ville sotto di sé, le quali in tempo di pace sono godute da’ Portoghesi, ma in tempo di guerra sono da’ nemici con le spesse correrie ruinate, di modo che i Portoghesi niuna o poca utilità ne cavano. Dopo Daman si trova Basain, con molte ville dell’istessa condizione di quelle di Daman; né di questa altro si cava che risi, frumento e molto legname da far navi e galee. Oltra a Basain poco distante è una isola picciola, chiamata Tana, con una terra assai popolata da’ Portoghesi, da’ Mori e da’ Gentili. Qui non fanno altro che risi, e vi sono molti telari da far ormesini e gingani di lana e di bombaso, che sono dell’andar dei mocaiari, neri e colorati.

Capitolo 9
Chiaul, e l’albore “palmar”.

Oltra a questa isola si trova Chiaul in terra ferma, e sono due cittadi, una de’ Portoghesi, l’altra de’ Mori. Quella de’ Portoghesi è posta più a basso e signoreggia la bocca del porto, ed è murata e posta in fortezza, discosto dalla quale un miglio e mezzo è quella de’ Mori, signoreggiata da Zamalucco, re moro; ma in tempo di guerra non possono andar legni grossi alla città de’ Mori, percioché sono battuti e messi a fondo dall’artiglieria della fortezza portoghese, inanzi alla quale convengono passare. L’una e l’altra sono porto di mare e vi si fanno molte facende d’ogni sorte di spezie e di droghe, sete, panni di seta, sandolo, marfin, verzin, porcellane della China, veluti e scarlatti, che vengono di Portogallo e dalla Mecca, e molte altre mercanzie. Vi vengono ogni anno di Cochin e di Canenor dieci e quindeci nave cariche di noci grosse curate e di zuccaro dell’istessa noce, chiamato giagra. L’arbore che produce questa noce si chiama palmar e per tutta l’India, massime da Goa in là, ve ne sono boschi grandissimi; ed è molto simile al dattolaro, né in tutto il mondo si trova arbore della bontà di questo, e che se ne cavi più utilità; né in esso è cosa alcuna da abbrucciare. Del suo legname solo, senza mescolarvene d’altra sorte, si fanno i navilii, delle foglie si fanno le vele, e del suo frutto si caricano, che sono noci, zuccaro, vino e aceto, che si fa del vino. Qual vino si cava del fiore in mezzo all’arbore, che getta di continuo un liquor bianco come acqua, e, tenendoli un vaso sotto, ogni mattina e ogni sera si leva pieno, e fatto lambicare al fuoco diventa potentissimo liquore; nelle botte del qual postovi una certa quantità di zibibbo, o nero o bianco, in poco tempo è fatto perfettissimo vino, e se ne fa gran quantità. Della noce poi si cava oglio assai; dell’arbore si fanno tavole e travi per gli edificii; della scorza si fanno gomene e corde d’ogni sorte per le navi, migliori che quelle di canevo; degli rami si fanno lettiere per dormire, overo scafacci per la mercanzia; le foglie si tagliano minute e, tessendole, se ne fanno vele per ogni legno, overo finissime stuore; del primo scorzo della noce pestato si fa stoppa perfettissima da calefattar navi e navilii, e della scorza dura se ne fa cucchiari e altri vasi da manestrare; di modo che non si getta né si abbruccia altro di questo arbore se non la sola radice. E quando la noce è fresca è piena d’un’acqua eccellentissima da bevere, e, per gran sete che abbia un uomo, con una di queste noci se la cava; quando poi la noce si matura, quell’acqua diventa tutta noce.

Escono di Chiaul per tutta l’India, per Malacca, per Portogallo, per lo stretto della Mecca, per la costa di Melindi e per Ormus, una quasi infinita quantità di robe, che si cavano del regno di Cambaia, come sono panni di bombaso bianchi, stampati e depinti, assai endego, amfione, gottoni, sete fine e d’ogni sorte, assai boraso in pasta, assa fetida, assai ferro e frumento e molte altre mercanzie. Il re Zamaluco è moro ed è molto potente, come quello che ad ogni sua requisizione mette in campagna ducentomila persone da guerra, e ha molta artiglieria fatta di pezzi, alcune d’esse dico, che per la lor grandezza non si potriano condurre e però sono fatte di pezzi, ma talmente accommodati che s’adoprano benissimo, le cui balle sono di pietra: sono state mandate di queste balle in Portogallo a mostrare al re, come cosa di gran maraviglia. La città ove il re Zamalucco fa la sua residenza è infra terra da Chiaul sette overo otto giornate, e si dimanda Abdeneger. Sessanta miglia da Chiaul verso l’India si trova Dabul, porto del Zamalucco, di dove a Goa sono cento e venti miglia.

Capitolo 10
Goa.

Goa è la principal città ch’abbian i Portoghesi in India, nella quale stanzia il vice re con la corte regia, ed è in una isola che può circondare da venticinque in trenta miglia. È cittade con i suoi borghi onestamente grande, e per città dell’Indie assai competentemente bella; ma più bella è l’isola, come quella che è piena di giardini e di boschi de’ palmari detti di sopra, su per la quale sono ancora alcune villette. È questa città di grandissimo negozio di tutte le sorte di mercanzie che ‘n quelle parti si trafficano; e la flotta che viene ogn’anno di Portogallo, che sono quattro, cinque e sei grosse navi, viene a dirittura a Goa, e giungono ordinariamente dalli sei alli dieci di settembre e si fermano in Goa intorno a cinquanta giorni; indi partono per Cochin, ove caricano per Portogallo, e molte volte caricano una nave in Goa per Portogallo e le altre vanno a caricare a Cochin, distante da Goa trecento miglia. È situata Goa ne’ paesi del Dialcan, re moro qual sta infra terra intorno ad otto giornate, la cui città real si chiama Bisapor, ed è re molto potente. Io mi ritrovai in Goa l’anno del 1570, quando venne detto re ad assediarla, essendoseli accampato sotto (ma però di là dal rio) con un esercito qual si diceva passar ducentomila persone; vi tenne l’assedio quattuordeci mesi, in capo al qual tempo fece pace, si dice per il gran danno che ebbe la sua gente per una infermità mortale che l’inverno l’assalse, quale uccise anco molti elefanti.

Del 1566 io mi parti’ di Goa per Bezeneger, città reale che fu del regno di Narsinga, otto giornate da Goa infra terra; andai in compagnia di due mercanti, che conducevano al re trecento cavalli arabi. Percioché i cavalli del paese sono piccioli, pagano bene i cavalli arabi, e bisogna venderli bene, perché vi va molta spesa a condurli dalla Persia in Ormus e da Ormus in Goa, ove dell’entrare non pagano gabella alcuna; anzi nelle navi che portano da venti cavalli in su passa franca anco tutta l’altra mercanzia, ove quelle che non portano cavalli sono tenute a pagare otto per cento d’ogni sorte di mercanzia. Nello uscir poi i cavalli arabi di Goa si paga di dazio quarantadue pagodi per cavallo, e ogni pagodo val otto lire alla nostra moneta, e sono monete d’oro; di modo che li cavalli arabi sono in gran prezzo in que’ paesi, come sarebbe trecento, quattrocento, cinquecento e fina mille ducati l’uno.

Capitolo 11
Bezeneger.

La città di Bezeneger fu messa a sacco l’anno del 1565 da quattro re mori e potenti, che furono il Dialcan, il Zamaluc, il Cotamaluc e il Veridi; e si dice che il poter di questi quattro re mori non era bastante ad offendere il re di Bezeneger, qual era gentile, se non vi fosse stato tradimento. Aveva questo re tra gli altri suoi capitani due capitani mori, ciascun de’ quali commandava a settanta e ottantamila persone. Trattarono questi due capitani, per esser d’una istessa legge, co’ re mori di tradire il suo re; e il re gentile, che non stimava le forze de’ nemici, volse uscir della città a far fatto d’arme co’ nemici alla campagna; qual dicono che non durò più di quattro ore, percioché li due capitani traditori nel più bello del combattere voltarono le sue genti contra al suo signore, e misero in tal disordine il suo campo, che i Gentili confusi e sbigottiti si posero in fuga. Già trenta anni era stato occupato questo regno da tre fratelli tiranni, li quali, tenendo il vero re come prigione, una sol volta all’anno lo mostravano al popolo, ed essi il tutto a lor voglia governavano. Erano stati questi tre fratelli capitani del padre del re da loro tenuto prigione, qual avendo alla sua morte lasciato questo re picciolo fanciullo, essi del regno s’impatronirono. Il maggiore di questi tre fratelli si chiamava Ramaraggio, e questo sedeva nel trono regale e chiamavasi re; il secondo avea nome Timaraggio, qual si aveva preso l’officio di governatore; il terzo, chiamato Bengatatre, era capitano generale della milizia. Si ritrovarono tutti tre questi fratelli in questo fatto d’arme, nel quale il primo e l’ultimo si dispersero, che non si trovarono più né vivi né morti, e Timoraggio fuggì con un occhio manco. Venuta che fu la nuova di questa rotta nella cittade, le donne e i figliuoli di questi tre tiranni, insieme col legittimo re da essi tenuto prigione, fuggirono così spogliati come si trovarono; e i quattro re mori entrarono in Bezeneger trionfando e vi stettero sei mesi, cavando fina sotto le case per ritrovar i dinari e l’altre cose ascose, e indi a’ suoi regni tornarono, percioché non averiano potuto mantenersi tanto paese e tanto da’ suoi regni lontano.

Partiti i Mori, Timaraggio tornò in Bezeneger, fece ripopolare la cittade e mandò a dire a Goa alli mercanti che, se gli avessero condotti delli cavalli, esso gli avrebbe pagati bene: e per questo i predetti due mercanti e io con loro in Bezeneger andassemo. Fece eziandio il detto tiranno andare un bando, che chiunque li menasse cavalli del suo bollo, che nella guerra gli erano stati presi, ch’esso glieli pagaria quello che volessero, dando in oltre salvocondotto generale a tutti quelli che gliene conducessero. Vidi che gliene furono menati assai in più volte, ed esso dette buone parole a tutti fina che vide che non gliene poteano essere condotti più, e poi licenziò i mercadanti senza dargli cosa alcuna; onde i poveretti andavano per la città piangendo e disperandosi, quasi matti per il dolore.

Mi fermai in Bezeneger sette mesi, quantunque in un mese io mi spedi’ da tutte le mie facende, ma mi convenne starvi per esser rotte le strade da’ ladri; nel qual tempo vidi cose stranie e bestiali di quella gentilità. Usano primamente abbrucciare i corpi morti, così d’uomini come di donne nobili; e se l’uomo che muore è maritato, la moglie è obligata ad abbrucciarsi viva col corpo del marito: e assai domandano tempo uno, due e tre mesi, e gli è concesso. E il giorno che si deve abbrucciare va questa donna la mattina a buon’ora fuor di casa a cavallo, overo sopra un elefante, overo in un solaro, qual è uno stado, sopra i quali vanno gli uomini di conto, portato da otto uomini; e in uno di questi modi, vestita da sposa, si fa portare per tutta la città, con i capegli giù per le spalle, ornata con fiori e assai gioie, secondo la qualità della persona, e con tanta allegrezza come vanno le novizzie in trasto in Venezia. Porta nella sinistra mano uno specchio e nella destra una frezza, e va cantando per la città e dicendo che va a dormire col suo caro marito, da’ parenti e amici accompagnata, sino alle diecinove o venti ore; indi esce dalla città e caminando lungo il fiume Negondin, che passa appresso alle sue mura, giunge in una pradaria, ove si sogliono fare questi abbrucciamenti di donne restate vedove. È già apparecchiata in questo luogo una cava grande fatta in quadro, con un poggiolo appresso, nel quale si saglie per quattro o cinque scalini, e detta cava è piena di legne secche. Giunta quivi la donna, accompagnata da gran gente che vanno a vedere, gli apparecchiano bene da mangiare, ed essa mangia con tanta allegrezza come se fosse a nozze, e, come ha mangiato, si mette a ballare e a cantare ad un certo loro suono quanto li pare, e dapoi ella istessa ordina che s’impicci il fuoco nella cava. E quando è in ordine se gli fa intendere ed essa, subito lasciata la festa, dà mano al più stretto parente del marito e vanno ambidue alla riva del fiume, ove essa nuda si spoglia e dà le gioie e i vestimenti a’ suoi parenti, e se gli tira dinanzi un panno, accioché non sia veduta nuda dalle genti, e si caccia tutta in acqua, dicendo i meschini che si lava i peccati. Uscita dell’acqua, si rivolge in un panno giallo lungo quattuordeci braccia e, dato di nuovo mano al parente del marito, sagliono ambidue così per mano tenendosi sopra il poggiolo, ove essa ragiona alquanto col popolo, raccomandandoli i figliuoli, se ne ha, e i suoi parenti. Tra il poggiolo e la fornace tirano una stuora, accioché essa non veda il fuoco, ma ne sono assai che fanno subito tirar via detta stuora, mostrando animo intrepido, e che di quella vista non si spaventano. Ragionato che ha la donna quanto li pare, un’altra donna li porge un vaso d’oglio ed essa, presolo, se lo sparge sopra la testa e se ne unge tutta la persona, e getta il vaso nella fornace e tutto ad un tempo se gli lancia dietro. E subito la gente che sta intorno alla fornace li gettano con forza grossi legni addosso, talché tra per il fuoco e per i colpi de’ legni essa presto esce di vita; e allora la tanta allegrezza si converte tra quei popoli in sì dirotto pianto, che mi era necessario a correre via, per non sentir tal terremoto di pianto e d’urli. Io n’ho viste abbrucciare assai, percioché la mia stanzia era appresso a quella porta per la quale esse uscivano ad abbrucciarsi. Quando poi muore qualche grande uomo, oltra la moglie, tutte le schiave con le quali esso ha avuta copula carnale con esso s’abbrucciano. In questo istesso regno tra persone basse è un’altra usanza, percioché, morto che è l’uomo, lo portano al luogo ove gli vogliono far la sepoltura, e con essi vien la moglie, e il corpo è posto su qualche cosa a sedere e la moglie se gli inginocchia dinanzi e, gettateli le braccia al collo, qui si ferma. E fra tanto i muratori li fanno un muro attorno ad ambidue e, quando il muro è arrivato al collo della donna, viene un uomo di dietro alla donna e li storcie il collo, e, morta ch’essa è, il muro si finisce e restano ambidue ivi sepolti. Oltra queste vi sono altre infinite bestialità, qual io non mi curo di scrivere. Volsi intendere perché così si facessero queste donne morire, e mi fu detto che fu fatta anticamente questa legge per provedere alli molti omicidii che le donne de’ lor mariti facevano, percioché, per ogni poco di dispiacere che esse avessero da’ mariti, li attossicavano per pigliarne un altro; onde con questa legge le rendettero a’ mariti più fedele e fecero che le vite dei mariti al par delle sue avessero care, poiché con la lor morte ne seguiva anco la sua.

Del 1567 si dispopolò Bezeneger, avendo per cattivo augurio per essere stato saccheggiato da’ Mori, e il re con la corte andò ad abitare in Penigonde, qual è una fortezza fra terra, otto giornate distante da Bezeneger. Sei giornate lontano da Bezeneger si cavano i diamanti; io non fui là, ma dicono esser un luogo grande circondato di muro, e che ‘l terreno si vende a misura, un tanto il quadro, con limitazione quanto debbano andare sotto; e i diamanti da una certa caratta in su son del re. Sono molti anni che non si cavano per i gran disturbi del regno, e maggiormente da un tempo in qua, che ‘l figliuolo del Timaraggio, re tiranno, ha fatto morire il re legittimo che teneva prigione, e i baroni poderosi del regno non lo vogliono conoscere per re, di modo che ‘n detto regno sono assai re e gran divisione. La città di Bezeneger non è distrutta, anzi è con tutte le sue case in piedi, ma è vota, né gli abita anima viva se non tigri e altre fiere. Si dice che circonda ventiquattro miglia e ha dentro alle mura alcune montagne; le case sono tutte a piè piano e murate di fango, fuor che i tre palazzi de’ tre tiranni e i pagodi, che sono fatti di calcina e di marmori fini. Ho visto molte corti di re, ma non vidi tal grandezza come tiene il re di Bezeneger, dell’ordine dico del suo palazzo, percioché aveva nuove porte prima che s’entrasse ove abitava il re, cinque grandi con guardia di capitani e di soldati e quattro con guardia di portieri. Fuori della prima porta era un portico, ove stava alla guardia di giorno e di notte un capitano con venticinque soldati, e dentro alla porta ve ne era un altro con guardia simile; di dove s’entrava in una piazza assai grande, in capo alla quale era l’altra porta, guardata come la prima, e indi un’altra piazza: e in tal modo erano le prime cinque porte, da dieci capitani guardate. Si trovavano poi l’altre quattro porte minori con portieri alla guardia, che stavano la più parte della notte aperte, percioché è costume dei Gentili di far le lor feste e negozii più di notte che di giorno. La città era sicurissima dai ladri, e i mercanti portoghesi dormivano per il caldo su le strade, cioè sotto i portici di quelle, né gli era mai fatto danno alcuno.

In capo ai sette mesi io mi deliberai d’andare a Goa con altri dui compagni portoghesi che erano alquanto indisposti, li quali tolsero dui palanchini, che sono come lettierette, con li quali si va in viaggio molto commodamente, con otto fachini per cadauno palanchino che lo portano, scambiandosi a quattro per volta; e io comprai dui buoi, uno per mio cavalcare e l’altro per la compagnia da portar i drappi e la vettovaglia. Si cavalcano in quei paesi i buoi con buone bastine, staffe e briglia, e hanno un commodo e buon passo. Da Bezeneger a Goa sono d’estate otto giornate di viaggio; ma noi lo facessimo di mezo l’inverno, il mese di luglio, e penassimo quindeci giorni a venire sino in Ancola sul lito del mare. E in capo agli otto giorni persi i dui buoi: quello che portava la vettovaglia s’indebolì di maniera che, non potendo più caminare, ne bisognò lasciarlo; e quello ch’io cavalcava, nel passare un fiume, noi su un ponticello ed egli a nuoto, trovò egli in mezo al fiume un’isoletta piena d’erba fresca e ivi si fermò, né potendo noi in alcun modo passarvi, per forza convenissimo lasciarlo: ed era in quel punto una grossissima pioggia, onde mi convenne andare a piedi sette giornate con travaglio grandissimo, e avessimo ventura in ritrovar fachini che ne portarono le robbe. Passassemo per questi giorni gran fortune, percioché, essendo quel regno tutto sottosopra per le gran dissensioni che in esso erano, ogni giorno eravamo fatti prigioni e, volendo la mattina caminare inanzi, bisognava pagare per nostro riscatto quattro o cinque pagodi ogni mattina per testa. Un altro travaglio anche avessimo, che ogni giorno entravamo in terre di nuovi signori, tutti però tributarii del re di Bezeneger, ciascun dei quali fa batter moneta di rame una diversa dall’altra, talché la moneta d’un giorno l’altro non era buona. Con l’aiuto di Dio giungessimo finalmente in Ancola, terra della regina di Garcopan, tributaria del regno di Bezeneger.

Le mercanzie ch’andavano ogn’anno da Goa a Bezeneger erano molti cavalli arabi, veluti, damaschi, rasi e ormesini di Portogallo, e anche pezze di China, zafaran e scarlatti; di là si cavava per Goa gioie e ducati pagodi d’oro. Il vestir di Bezeneger era cavaie sopra le camise, over zuppe ugnole, overo imbottite, di veluto, raso, damasco, scarlatto, overo panni bianchi di bombaso, secondo la qualità degli uomini, con berette lunghe in testa, da essi chiamate colae, di veluto, di raso, di scarlato o di damasco, cingendosi in vece di poste con alcuni panni di bombaso fini. Portavano braghesse quasi alla turchesca e anche salvari; portavano in piede alcune pianelle alte, dette da loro asparche, e all’orecchie portavano attaccato assai oro.

Ora al mio viaggio ritornando, giunti che fossemo in Ancola, un dei miei compagni, che non aveva cosa alcuna da perdere, tolse una guida e andossene a Goa, ove si va in quattro giornate. L’altro compagno, essendo alquanto indisposto, volea fermarsi per quell’inverno in Ancola (l’inverno di quelle parti dell’India comincia a mezzo maggio e dura sina a parte del mese d’ottobre); ma, stando esso in Ancola, vi giunse un mercante da cavalli da Bezeneger in un palanchino, e vi giunsero anche duoi soldati portoghesi che venivano di Seilan e dui porta lettere cristiani nativi dell’India. Fecero tutti questi compagnia insieme per andare a Goa, ond’io mi deliberai d’andar con essi e, fattomi fare un palanchino assai povero di canne, misi ascosamente in una delle sue canne tutto il mio poco avere, ch’erano gioie, e secondo l’uso presi 8 fachini che mi portassero. E un giorno intorno alle 19 ore si mettessemo in viaggio e alli 22, nel passare una montagna che divide il territorio d’Ancola dal regno di Dialcan, essendo io dietro a tutti gli altri, fui assaltato da 8 ladroni, quattro dei quali avevano spada e rotella e gli altri quattro archi e frezze. Quando i fachini che mi portavano sentirono il rumor degli assassini, lasciando cascare il palanchino si misero subito in fuga, e io restai solo in terra involto nei drappi del palanchino. Mi furono subito i ladri adosso e mi spogliarono con suo commodo tutto nudo, e io per non abbandonare il palanchino mi finse esser amalato; e perché io avevo fatto sul palanchino un letticello delli miei drappi, li cercarono i ladri sottilmente e, avendovi trovato due borse ben ligate nelle quali aveva io posta la moneta di rame di quattro pagodi ch’in Ancola avevo cambiati, credettero essi che fossero tanti pagodi e non cercarono più, ma, fatte abbracciate di tutti i drappi, nel bosco si cacciarono. E volse Dio che nel partirsi gli cascò un lenzuolo, ond’io, levatomi del palanchino, tolsi detto lenzuolo e me gli rivoltai dentro. E in questo i miei fachini furono tanto da bene che tornarono a trovarmi, non sperando io in loro tanta bontà, percioché, essendo essi pagati (che così si usa di pagargli inanzi tratto) e avendoli dati in Ancola sette pagodi, non sperava più di rivederli; ma avevo determinato di cavar la canna delle gioie del palanchino e, mostrando di servirmene per bordone, condurmi a piedi a Goa. Ma la fedeltà di quelli uomini mi cavò di questo travaglio, e mi portarono in quattro giorni a Goa; nel qual tempo la feci molto stretta del mangiare, perché non m’era restato né dinari, né oro, né argento, né pagodi, né moneta, e mangiava solo qualche cosa che per compassione mi era data dai fachini; ma, giunto in Goa, gli pagai ogni cosa onoratamente. Di Goa mi parti’ per Cochin, qual è pareggio di trecento miglia, e tra l’una e l’altra di queste due cittadi sono molte fortezze de’ Portoghesi.

Capitolo 12
Onor, Mangalor, Barzelor e Cananor.

La prima fortezza de’ Portoghesi che si trova per andar da Goa a Cochin si chiama Onor, qual è posta nel paese della regina di Batecala, tributaria del re del Bezeneger: qui non si fa trafico alcuno, ma è solo di spesa per il capitano e presidio che vi si tiene. Passata questa s’arriva in Mangalor, picciola fortezza e di poco negozio, di dove si cavano poca quantità di risi; indi si va alla fortezza di Barcelor, picciola, ma se ne cava assai risi per Goa. Indi si giunge a Cananor, città picciola, un tiro d’archibugio distante dalla quale è la città del re di Cananor, re gentile, ed egli e il suo popolo sono mala gente; stanno volentieri in guerra coi Portoghesi, e, quando stanno in pace, stanno per lor interesse, per dar spacio alle loro mercanzie. Esce di Cananor tutto il cardamomo, assai pevere e zenzaro, assai mele, navi cariche di noci grosse, gran quantità d’areca; qual è frutto della grandezza della noce muschiata, e si mangia in tutte quelle parti dell’India e oltra l’India con la foglia d’un’erba che si chiama betle, che s’assomiglia assai la foglia della nostra edera ma è più sottile, e la mangiano impiastrata con calcina fatta di scorze d’ostreghe. E per tutta l’India ogni giorno si spende gran quantità di denari in tal composizione, e tanti che chi nol vede li par quasi cosa incredibile, e grand’utile cavano i signori dei dazii che di questa erba hanno. Masticandola, fa i denti negri e rende il sputo del color del sangue; dicono che fa buono stomaco e buon fiato, ma io giudico che l’usino più tosto per poltronaria, percioché questa erba è calidissima e li rende più potenti al coito. Da Cananor a Crangenor, ch’è un’altra picciola fortezza de’ Portoghesi in le terre del re di Crangenor, re gentile, e luogo di poca importanza, sono cento e cinque miglia; ed è tutta terra di ladri, sottoposta al re di Calicut, re gentile e gran nemico de’ Portoghesi, coi quali sta sempre in guerra, ed è nido e refugio di tutti i ladri forestieri, che si chiamano Mori di carapuza, perché portano in testa una beretta lunga rossa. E questi ladri fanno parte al re di Calicut delle prede che fanno in mare, e lui permette che chi vuol andare in corso vada, di modo che per quella costa sono tanti corsari che non si può navigare, se non con buone navi grosse ben armate, overo con la scorta dell’armata portoghese. Da Grangenor a Cochin sono quindeci miglia.

Capitolo 13
Cochin.

Tiene Cochin il primo luogo dopo Goa tra le città ch’hanno i Portoghesi in India, e vi si fanno molte facende di spezie, di droghe e d’ogni altra sorte di mercanzia per il regno di Portogallo: e qui infra terra è il regno del pevere, del qual si caricano le navi che vanno in Portogallo a refuso e non posto in sacchi. Il pevere che va in Portogallo non è così buono come quello che va nello stretto della Mecca, percioché i ministri del re di Portogallo già molti anni fecero l’appalto col re di Cochin per nome del re di Portogallo e posero il prezzo al pevere, qual per convenzioni fatte insieme non si può né crescere né callare, ed è prezzo molto basso, di modo che i paesani gli lo danno mal volentieri, e verde e molto sporco; ma i mercadanti mori pagandolo meglio, gli è dato megliore e meglio condizionato. Tutto il pevere però e altre droghe che vien per il stretto della Mecca passa di contrabando. Cochin sono due cittadi: quella de’ Portoghesi è vicina al mare e un miglio e mezzo fra terra è la città del re di Cochin, e ambedue sono poste su la riva d’uno istesso fiume grande e di buona acqua, che viene dalle montagne del re del pevere, re gentile e nel cui regno sono molti Cristiani di san Tomaso. Il re di Cochin è re gentile e molto amico e fedele al re di Portogallo e alli cittadini portoghesi, che abitano e sono maritati in Cochin de’ Portoghesi, e con questo nome di Portoghesi chiamano in India tutti i Cristiani che vengono di Ponente, siano o Italiani, o Francesi, o Allemani. E tutti quelli che si maritano in Cochin si acquistano un’entrata secondo le facende che fanno, per li gran privilegi ch’hanno i cittadini di quella cittade; percioché delle due principali mercanzie che si contrattano in quel luogo, che sono le molte sete che vengono della China e i molti zuccari che vengono di Benagala, non pagano i cittadini in quella città maritati dazio alcuno, dell’altre sorti di mercanzie pagano quattro per cento al re di Cochin con ogni lor commodità; quelli che non vi sono maritati e i forestieri pagano in Cochin al re di Portogallo otto per cento d’ogni mercanzia. Mi ritrovai in Cochin in tempo che ‘l viceré travagliò assai per rompere i privilegi ai detti cittadini e per farli pagare come pagano gli altri, e proprio in quel tempo si pesavano dì e notte i peveri per caricare le navi portoghese; e il re di Cochin, avisato di questa cosa, fece subito restar di pesare il pevere, onde in un tratto furono licenziate le mercanzie, né più si parlò di fargli questo torto.

Il re di Cochin non è molto potente rispetto agli altri re delle Indie, né mette in campagna più di sessantamila uomini da guerra. Ha uno gran numero d’amochi, che sono gli suoi gentiluomini, chiamati anche Nairi, li quali non apprezzano punto la vita, ove va il servizio o l’onore del suo re, anzi l’espongono ad ogni pericolo, quando fossero eziandio certi di morire. Sono uomini che vanno nudi dalla centura in su, con un panno cento e rivoltato infra le gambe; vanno scalci, hanno i capegli lunghi e rivoltati in cima alla testa, e sempre portano la spada nuda e la rotella. Hanno questi Nairi le lor donne commune tra loro, e quando alcuno d’essi entra in casa d’una di queste donne, lasciano la spada e la rotella appresso la porta su la strada, e mentre sta lì quella spada e rotella non è alcuno ch’ardisca entrarvi. I figliuoli dei re non succedono nel regno, percioché hanno questa opinione, che potriano non esser generati dal re, ma da qualcun altro; accettano per re un figliuolo di sorella del re o d’altra donna della stirpe regia, percioché dicono esser certi quelli esser veramente di sangue regale. Li Nairi e le lor donne usano per gentilezza farsi grandissimi buchi nelle orecchie, e tali che par impossibile il crederlo, tenendo per più nobili quelli che hanno i buchi più grandi: ebbi licenza da un di loro di misurargli la circonferenza di esso buco con un filo, nel qual postovi poi il braccio, vi andò tutto sina alla spalla, e dico il braccio così vestito. Sono in effetto mostruosamente grandi, e per farli così grandi si forano l’orecchie da piccioli e vi attaccano un peso grande, o d’oro o di piombo, e nel foro mettono una certa sorte di foglia che così larghi li fa.

Si caricano in Cochin le navi che vanno in Portogallo e anche in Ormus; vero è che quelle d’Ormus non portano pevere, se non di contrabando. Della canella facilmente hanno licenza di levarne; di tutte l’altre speziarie e droghe possono liberamente levarne, così per Ormus come per Cambaia, e così di tutte l’altre mercanzie che da diverse bande vi sono portate. Ma del proprio regno di Cochin si cavano assai peveri, che vanno in Portogallo, gran quantità di zenzari secchi e conditi, canella salvatica, molta areca, assai cordovaglia di cairo, fatta del scorzo dell’arbore della noce grossa, ed è meglio che quella di canevo, della qual se ne porta anche assai in Portogallo. Si parteno ogn’anno le navi da Cochin per Portogallo dal fin di decembre sina per tutto genaro. Or seguitando il viaggio dell’India, da Cochin si va a Coilan, distante da Cochin settantadue miglia, qual è fortezza picciola del re di Portogallo, posta nelle terre del re di Coilan, qual è re gentile; è luogo di poco negozio, vi si carca solo mezza nave di pevere, che va poi a Cochin a finir di carcare. Di qui a Cao Comeri si fanno settantadue miglia, e qui finisse la costa dell’India; e per tutta questa costa appresso al mare, e anche da Cao Comeri alle basse di Chilao, che sono intorno a ducento miglia, sono quasi tutti venuti alla cristiana fede e vi sono assai chiese dei padri di San Paulo, i quali fanno in quei luoghi gran profitto in convertire quei popoli e gran fatiche nell’ammaestrarli nella legge di Cristo.

Capitolo 14
Pescaria delle Perle.

Il mare che giace tra la costa che si distende da Cao Comeri alle basse di Chilao e l’isola di Seilan si chiama la Pescaria delle Perle, qual pescaria si fa ogn’anno cominciando di marzo o d’aprile e dura cinquanta giorni; né ogni anno si pesca in un istesso luogo, ma un anno in un luogo e l’altro in un altro di detto mare. Quando s’avicina il tempo di pescare, mandano buoni nuotatori sott’acqua a scoprire ove è maggior quantità d’ostreghe, e su la costa all’incontro piantano una villa di case e bazarri di paglia, che tanto dura quanto dura il tempo del pescare, e la forniscono di quanto è necessario: e ora si fa vicino ai luoghi abitati, ora lontano, secondo il luogo ove vogliono pescare. I pescatori sono tutti Cristiani del paese, e va chi vuole a pescare, pagando però un certo censo al re di Portogallo e alle chiese dei padri di San Paulo che sono per quella costa. Mentre dura il tempo di pescare, stanno in quel mare tre o quattro fuste armate, per diffendere i pescatori dai corsari. Io mi ritrovai qui una volta di passaggio e vidi l’ordine che tengono a pescare. Fanno compagnia due, tre e più barche insieme, che sono dell’andare delle nostre peotte e più picciole; vanno sette overo otto uomini per barca; e holle viste la mattina a partire in grandissimo numero e andare a sorgere in quindeci sina dicidotto passa d’acqua, che tale è il fondo di tutto quel contorno. Sorti che sono, gettano una corda in mare, nel capo della quale è ligato un buon sasso, e un uomo, avendosi ben stretto il naso con una moleta e ontosi con oglio il naso e l’orecchie, con un carniero al collo overo un cesto al braccio sinistro, giù per quella corda si calla. E quanto più presto può empie il carniero o il cesto d’ostreghe che trova in fondo del mare, e indi scorla la corda, e i compagni che stanno attenti in barca tirano su detta corda in pressa, e con essa anche l’uomo. E così vanno d’uno in uno a vicenda, sinché la barca è carica d’ostreghe, e poi la sera vengono alla villa. E cadauna compagnia fa il suo monte d’ostreghe in terra, distinti uno dall’altro, di modo che si vede una fila molto lunga di monti d’ostreghe, né si toccano sin che la pescaria non è compita; e allora s’acconciano ogni compagnia attorno il suo monte ad aprirle, che facilmente s’aprono, percioché sono già morte e fragide: e s’ogni ostrega avesse perle, saria una gran bella preda, ma ne sono assai senza perle.

Finita la pescaria, e visto se è buona ricolta o cattiva, vi sono certi uomini periti, che si chiamano chitini, li quali metteno il prezzo alle perle secondo la lor carrata, facendone quattro cernide con alcuni crivelli di rame. Le prime sono le tonde e si chiamano l’aia de’ Portoghesi, perché i Portoghesi le comprano; le seconde, che non sono tonde, si chiamano l’aia di Bengala; la terza sorte, che sono manco buone, chiamano l’aia di Canara, cioè del regno di Bezeneger; la quarta e ultima sorte, che sono più triste e più minute, si chiama l’aia di Cambaia. Messo il prezzo, vi sono tanti mercadanti di diverse parti che con dinari stanno aspettando, che in pochi giorni ogni cosa si compra a prezzo aperto, secondo la carrata di dette perle.

In questo mare della pescaria delle perle è una isoletta chiamata Manar, abitata da’ Cristiani del paese, che prima erano gentili, con una picciola fortezza de’ Portoghesi, situata all’incontro dell’isola di Seilan; tra le quali passa un canale non troppo largo e con poco fondo, per il qual non si può navigare, se non con vascelli picciolli, e col crescente dell’acqua nel voltar della luna overo nel tondo. E con tutto ciò bisogna anche scaricar detti vascelli in barchette, e passare alcune secche voti e poi tornare a caricare: e questo fanno li navilii che vanno in India; ma quelli che vanno d’India verso levante per la costa di Chiaramandel passano dall’altra banda per le basse di Chilao, che sono tra l’isola di Manar e terra ferma. E andando d’India per la costa di Chiaramandel, si perdeno alcuni navilii, ma voti, percioché si scarcano ad una isola detta Peripatan e mettonsi le mercanzie in barchette picciole, chiamate tane, che sono piane di fondo e pescano poco, e però possono passare sopra ogni secca senza pericolo di perdersi. Aspettano in Peripatan il buon tempo da partirsi per passar le dette secche, e si partono i navilii e le tane di compagnia, e, navigato ch’hanno trentasei miglia, arrivano alle secche; e perché tal volta il tempo carca assai con vento fresco e bisogna per forza passare, non essendo ove salvarsi, le tane passano sicure, ma i navilii, se fallano il canale, urtano nelle secche e si perdono. Al venire in qua non si fa questa strada, ma si passa per il canal di Manar detto di sopra, il cui fondo non essendo altro che fango, ancorché i navilii restino in secco, gran sorte è che ne pericoli alcuno. La cagione perché non si fa questa strada più sicura all’andare in là è perché a quel tempo, per i venti ch’allora regnano tra Manar e Seilan, è tanta secca d’acqua che non si può a modo alcuno passare. Da Cao Comeri all’isola di Seilan sono cento e venti miglia di traverso.

Capitolo 15
Seilan.

Seilan è un’isola grande, e al mio giudicio assai maggiore di Cipro; su la banda che guarda verso l’India per ponente è la città di Colombo, fortezza de’ Portoghesi, ma fuora delle mura è de’ nemici, ha solo verso il mar il porto libero. Il re legitimo di questa isola sta in Colombo, fatto cristiano e privo del regno, sostentato dal re di Portogallo. Il re gentile a chi si apparteneva il regno, chiamato il Madoni, avendo dui figliuoli, il principe nomato Barbinas e il secondo nomato Ragiu, è stato con astuzia dal figliuolo minore privo del regno, percioché, avendosi esso fatta benevole tutta la milizia, a dispetto del padre e del prencipe suo fratello si ha usurpato il regno, ed è gran guerriero. Aveva prima questa isola tre re: il Ragiu, col padre e Barbinas suo fratello, re della Cotta con li suoi conquisti; il re di Candia in una parte dell’isola che si chiama regno di Candia, qual aveva onesta possanza ed era grande amico de’ Portoghesi, e dicevasi che secretamente viveva da cristiano; aveva il re di Gianifanpatan. Da tredeci anni in qua, il Ragiu s’è impatronito di tutta l’isola e si è fatto un gran tiranno.

Nasce in questa isola la canella fina, assai pevere e zenzero, gran quantità di noce e arecca; vi si fa assai cairo da far cordovaglia, produce assai cristallo e occhi di gatta, e dicono che vi si trovano anche rubini, ma io ve n’ho venduti assai bene di quelli ch’un viaggio vi portai dal Pegu. Io ero desideroso di veder come la canella si cavava dall’arbore che la produce, e tanto più che quando mi ritrovai su l’isola era la stagione che si cavava, del mese d’aprile, onde, quantunque i Portoghesi fossero in guerra col re dell’isola, e che però io correva un gran pericolo ad uscir della cittade, tuttavia volsi pur questa mia voglia contentare e, uscito fuori con una guida, andai in un bosco lontano dalla città tre miglia, nel quale erano assai arbori di canella, mescolati però per il bosco con altri arbori salvatichi. È questo arbore sottile e non troppo alto, e ha la foglia simile a quella del lauro. Del mese di marzo o d’aprile, quando gli arbori vanno in amore, si cava la canella da questi arboscelli a questo modo: tagliano la scorza di sotto e di sopra da un nodo all’altro intorno all’arbore, indi gli danno un taglio per il lungo, e con la mano pigliando la scorza facilmente la levano d’intorno all’arbore, e la mettono nel sole a seccare e per questo si torce nella maniera che noi la vediamo. Non si secca per questo l’arbore, anzi torna a fare un’altra scorza per l’anno seguente, e la canella buona è quella che ogn’anno si scorza, percioché quella di due o di tre anni è grossa e manco buona. Nasce in questi istessi boschi anche molto pevere.

Capitolo 16
Negapatan.

Da Seilan per dentro dell’isola si va a Negapatan in terra ferma, con navilii piccioli, e vi è settantadui miglia di strada. È città assai grande e ben popolata, parte da’ Portoghesi e da’ Cristiani del paese e parte da’ Gentili; è terra di non troppo negozio, né vi si cava altro che buona quantità di risi e alcune sorti di panni di bombaso, ch’in diverse parti si portano. Fu già terra abondantissima di vettovaglia, ora è assai manco; e la sua grande abondanza mosse assai Portoghesi ad andare ad abitarvi, e a fabricar case in paese alieno per vivervi con poca spesa. La città è d’un gran signore gentile del regno di Bezeneger, nondimeno e i Portoghesi e gli altri Cristiani vi stanno assai bene, con chiese e un monasterio di S. Francesco di gran divozione, e ben accommodati di casamenti. Pur alla fine sono in terra de tiranni, ch’a ogni lor voglia gli possono far qualche dispiacere, come occorse l’anno 1565, se mi ricordo bene, che il Naic, cioè il signor della città, li mandò a domandare certi cavalli arabi, e avendoglieli essi denegati, di là a pochi giorni venne voglia al signore di vedere il mare; onde i poveri cittadini, per esser questa cosa insolita, dubitarono che per sdegno venisse a saccheggiar la lor cittade e imbarcarono tutto il meglio ch’avessero, i mobili, mercanzie, dinari e gioie, e fecero slargar i navilii dalla terra. Volse la lor sorte cattiva che la notte seguente fece una gran burasca in mare, che cacciò tutti i navilii a rompersi in terra, e tutto quello che si puoté ricuperare fu dipredato dall’esercito che col signore era venuto e che sul lito del mare era attendato, senza ch’essi avessero pensiero alcuno di fare un tal buttino.

Capitolo 17
San Tomé.

Da Negapatan seguitando il viaggio verso levante cento e cinquanta miglia, si trova la casa del ben avventurato San Tomé, qual è una chiesa di grandissima divozione ed è molto rispettata eziandio dai Gentili, per la notizia ch’essi hanno dei molti miracoli fatti da quel benedetto apostolo. Appresso a questa chiesa hanno fabricato i Portoghesi una cittade, in le terre del regno di Bezeneger, la quale, quantunque non sia molto grande, è al parer mio la più bella di quante ne sono in quelle parti dell’India. Ha bellissime case accommodate di vaghi giardini, ha strade larghe e dritte, con molte belle e divote chiese; sono le case serrate una all’altra, con le porte picciole, e ogni porta ha il suo bastione, di modo ch’è sufficiente fortezza per il paese. Non possedono i Portoghesi altri stabili che le case e i giardini che sono dentro alla città. I dazii sono del re di Bezeneger, i quali sono molto buoni, percioché è terra d’assai ricchezza e di molte facende: n’escon e vi entran ogni anno due navi grosse, molto ricche, oltra i molti altri navilii piccioli. Delle due navi una va a Pegu e l’altra a Malacca, carche di panni fini e d’ogni sorte di bombaso dipenti; la quale è veramente cosa molto vaga, percioché pareno smaltati di diversi colori, e quanto più si lavano, tanto più restano vivi i colori; e altri panni pur di bombaso tessudi a diversi colori, di gran valuta. Di più si fanno in San Tomé assai filati cremesini, tenti con una certa radice che chiamano saia, e anche questi per lavare mai perdono il colore, anzi più se gli aviva il cremesino; si portano questi filati per la maggior parte a Pegu, percioché là si adoperano nel tessere i loro panni a loro usanza ed è di manco spesa. Spaventosa cosa è chi non ha più visto l’imbarcare e sbarcar le mercanzie e le persone a San Tomé, percioché è costa brava, né si può servire d’alcun navilio né delle barche delle navi a far questo servizio, perché tutte andarebbono in pezzi; ma adoperano certe barchette fatte aposta molto alte e larghe, ch’essi chiamano masudi, e sono fatte con tavole sottili, e con corde sottili cusite insieme una tavola con l’altra. Quando s’imbarca, s’imbarcano le persone e le robe su queste barchette in terra, e poi li barcaruoli le gettano così cariche in mare, e con prestezza si mettono a vogare contra le grossissime onde del mare, sin che alle navi sorte, si conducono. E così medesimamente venendo dalle navi o dai navilii in terra con queste barchette carche d’uomini e di mercanzia, li barcaruoli, quando sono vicini a terra, saltano in acqua per tenere il masudi dritto, che non si ribalti, e l’onde del mare gettano il masudi in terra, talché li passagieri e la roba si discarca a piè sutto; e alle volte se ne ribalta qualcuno, ma con poco danno, perché poco si carcano; e tutta la mercanzia che va per fuora si imboglia benissimo con buone pelle di manzo, percioché se si bagnasse patirebbe gran danno.

Al mio viaggio ritornando, del 1566 mi parti’ di Goa per Malacca, in un galione del re di Portogallo ch’andava a Banda a carcare noci muschiate e macis, e da Goa a Malacca si fanno mille e ottocento miglia: si passa di fuora dell’isola di Seilan, e si passa per il canale di Nicubar overo per quello del Sombrero, li quali sono per mezzo l’isola Sumatra, detta Taprobana. E da Nicubar sina a Pegu è una catena d’isole infinite, delle quali molte sono abitate da gente selvaggia, e chiamansi l’isole d’Andeman. Chiamo i suoi abitanti gente selvaggia percioché mangiano carne umana: guerreggiano un isola con l’altra con alcune lor barche, e pigliandosi si mangiano una con l’altra; e se per disgrazia si perde in queste isole qualche nave, come già se n’ha perso, non ne scampa alcuno, che tutti gli amazzano e mangiano. Non ha questa gente commercio con alcuno, ma vivono con quello che l’isole producono; pur si avvicinano alle volte alle navi che di là passano, come occorse in un viaggio ch’io da Malacca veniva per il canal del Sombrero: se ne avvicinarono alle navi due lor barchette carche di frutti, cioè muse e noci di quelle fresche, e molti ignami cotti alesso, qual è frutto che assimiglia il nostro navone, ma molto dolce e buono da mangiare. Non vogliono ad alcun modo entrare in nave, né vogliono dei lor frutti danari, ma li barattano con qualche straccia di camisa o di braghesse: se li callano i stracci con una corda in barca, ed essi danno all’incontro quei frutti ch’a lor par che meriti; e si dice ch’alle volte per uno straccio di camisa si ha avuto a baratto buoni pezzi di ambra.

Capitolo 18
Sumatra.

L’isola di Sumatra è una grande isola, ed è da molti re signoreggiata, ed è divisa da molti canali che per essa passano. Sul capo verso ponente è il regno del re d’Assi, re moro e molto potente, come quello ch’oltra il suo gran regno possede anche molte fuste e galee; nasce nel suo regno assai pevere e zenzaro e molto belzuin. È nemicissimo de’ Portoghesi, ed è stato alcune volte a combatterli in Malacca e gli ha fatto gran danni nelli borghi; ma la città si è sempre valorosamente difesa, e fattoli anche con l’artigliarie molto danno nell’armata. Io giunsi finalmente alla città di Malacca.

Capitolo 19
Malacca.

Malacca è una grandissima scala d’infinite mercanzie, che vengono da diverse parti, percioché tutte le navi e navilii che per quei mari navigano sono obligati di fare scala a Malacca e pagar il dazio, ancorché non vogliano discarcar cosa alcuna; e se per fuggir di pagar detto dazio passassero oltra di notte senza far scala, cascano in pena di pagar poi in India doppio dazio. Io non son passato più inanzi di Malacca verso levante, ma quello ch’io ne parlarò sarà per buona informazione che n’ho avuto da quelli che vi sono stati. La navigazione da Malacca in là non è commune a tutti (dal viaggio della China e del Giapan in fuora, al quale può andar ciascuno), ma è sol del re di Portogallo overo de’ suoi gentiluomini per grazia a lor concessa, overo di giuridizione del capitano di Malacca, al qual eziandio s’aspetta di sapere i viaggi che di là da Malacca si fanno. I viaggi del re sono questi, ch’ogni anno si partono due galioni, uno per le Malucche a carcare di garofoli e l’altro per Banda a carcare di macis e di noci muschiate. Si carcano questi dui galioni per lo re, né levano roba d’alcun particolare, dalle portade de’ marinari e de’ soldati in fuora; e per questo non sono viaggi per mercadanti, perché andando là non avriano su che carcar la lor roba di ritorno, oltra che né anche il capitan del galione levaria alcun mercadante per niuno di questi luochi. Vi vanno bene delli navilii de’ Mori della costa della Giava, che vengono a smaltir la roba nel regno d’Assi, e questi sono il garofoli, macis e noci, che vengono per lo stretto della Mecca. Li viaggi di grazie che fa il re ai suoi gentiluomini sono quello della China e dalla China al Giapan, e dal Giapan di ritorno alla China e dalla China in India, e il viaggio di Bengala a Sonda con carico di panni fini e d’ogni sorte di bombaso: ed è Sonda un’isola de’ Mori appresso la costa della Giava, e ivi caricano poi peveri per la China. La nave che va ogni anno dall’India alla China si dimanda la nave delle droghe, perché porta là diverse droghe di Cambaia, ma il più si è argento.

Da Malacca alla China sono mille e ottocento miglia, e dalla China a Giapan va ogni anno una nave grossa d’importanza, carca di sete, ch’al ritorno porta argento in verghe, il qual si smaltisce in la China. Sono dalla China a Giapan duimila e quattrocento miglia; sono diverse isole non troppo grande, nelle quali i padri di San Paulo per grazia d’Iddio fanno molti cristiani e buoni. Da queste in là sin ora non è stato scoperto, per le gran secche che si trovano. Hanno i Portoghesi fatta una picciola cittade in una isola vicina ai liti della China, chiamata Macao, le cui chiese e case sono di legno, e ha vescovato; ma i dazii sono del re della China e vanno a pagarli a  Canton  , bellissima cittade e di grande importanza, distante da Macao due giornate e meza; li cui Gentili sono tanto gelosi e timidi che non vogliono che forestiero alcuno passi niente adentro per il paese, e, quando vanno i Portoghesi a pagarli i suoi dretti e a comprar delle mercanzie, non consentono che dormino nella città, ma li mandano fuora nei borghi. Il paese della China è la gran Tartaria, ed è paese di Gentili grandissimo e di grande importanza, per quanto si può giudicare dalle molte e preziose mercanzie che di quello escono, delle quali non credo sian in tutto il mondo le migliori e la maggior quantità; che sono prima assai oro che viene portato in India in pani a guisa di navicelle, di bontà di ventitre caratti, grandissima quantità di seta fina, di panni damaschini e di taffetà, gran quantità di muschio, molto rame in pani grandi, molto ottone in verghe, gran quantità d’argento vivo e di cenaprio, assai canfora, una infinità di porcellane in diverse sorti di vasi, gran quantità di panni dipinti e di quadri, una infinità di radici di China. Ogni anno vengono della China in India due o tre navi grosse cariche di ricchezze e preziose mercanzie; il reubarbaro vien per terra per via della Persia, percioché ogn’anno va di Persia alla China una grossa caravana, che camina sei mesi prima ch’arrivi alla città di Lanchin, città nella quale risiede il re con la sua corte. Ho parlato con un Persiano, qual mi ha detto esser stato tre anni in detta città di Lanchin, e ch’essa è una gran città e di grand’importanza.

I viaggi di Malacca che sono di giuridizione del capitano della fortezza sono ch’egli manda ogn’anno un naviglio a Timor a caricare di sandolo bianco, e il buono vien tutto da questa isola; ne viene anche da Celor, ma non è così buono; e manda eziandio ogn’anno un navilio a Cochinchina a caricare di legno d’aloe. E il legno aloe vien tutto di questo luogo, che è terra ferma contigua al regno della China; né si può saper come ch’ei nasca, percioché non permettono quei popoli che i Portoghesi smontino in terra se non a far acqua e legne e qualche altro servizio per il navilio bisognando: tutto il resto, così la provisione del vivere come la mercanzia, gli è portato con barchette al navilio, di modo ch’ogni giorno si fa la fiera del navilio, sina ch’è finito di caricare. Va eziandio ogn’anno per l’istesso capitano un navilio in Asion, a caricare di verzino. Tutti questi sono i viaggi del capitano della fortezza di Malacca, e quando non li vuol fare, vende la sua giurisdizione a qualcun altro.

Capitolo 20
Sion.

Fu già Sion una grandissima città e sedia d’imperio, ma l’anno MDLXVII fu presa dal re del Pegu, qual caminando per terra quattro mesi di viaggio, con un esercito d’un million e quattrocentomila uomini da guerra, la venne ad assediare; e prima che la pigliasse vi tenne ventiun mese l’assedio, con gran perdita delle sue genti. E lo so io percioché mi ritrovai in Pegu sei mesi dopo la sua partita, e vidi che li mandarono cinquecentomila uomini per supplimento di quelli che gli erano mancati; e con tutto questo, se non vi fosse stato tradimento, non l’avrebbe presa. Una notte li fu aperta una porta della città, per la quale con grande empito entrato, se ne fece patrone, e l’imperator di Sion, quando si vide essere stato tradito e che ‘l nemico era nella città, col veneno si uccise; i cui figliuoli e le donne e altri signori, che non furono in quel primo empito uccisi, furono menati schiavi nel Pegu; ove io mi ritrovai quando il re vincitore con trionfo fece l’entrata, e tra l’altre gran pompe bella cosa da vedere furono la gran squadra degli elefanti, carichi d’oro, d’argento, di gioie, e di signori prigioni.

Ritornando al mio viaggio, io mi parti’ da Malacca sopra una nave grossa ch’andava a San Tomé, città posta su la costa di Chiaramandel; e perché il capitano della fortezza di Malacca per aviso avuto stava in aspettazione di guerra, e che li venisse sopra il re d’Assi con grossa armata, non voleva dar licenza che questa nave partisse; onde si partissemo di notte senza far acquata, e vi erano su detta nave quattrocento e più persone, con intenzione d’andare ad una certa isola a far acqua. Ma il vento non ne lassò pigliar detta isola, di modo ch’andassemo settantaquattro giorni persi per mare, e fossemo a scoprir terra oltra San Tomé più di cinquecento miglia, ch’erano le montagne del Zergelin, appresso il regno d’Orisa. E così fossemo a Orisa con assai morti di sete e molti amalati, che fra pochi giorni morirono, e io per un anno ebbi sempre la gola tanto arsa che non mi poteva saziar di bevere acqua: io credo che ne fossero cagione le suppe fatte in oglio e aceto, con le quale molti giorni mi sostentai. Biscotto non ne mancava, né anche vino, ma sono vini tanto gagliardi che senza acqua uccidono la gente, né si può continuare il beverli. Quando si cominciò a patir d’acqua, vidi alcuni officiali mori che ne venderono ad un ducato la scudella ben picciola; dipoi ho visto che uno volse dar un bar di pevere, che sono dui quintali e mezzo, per una mezaruola d’acqua, e non gliela volse dare. Credo certo che ancor io sarei morto, insieme con un mio schiavo solo ch’avevo in quel tempo, qual mi era molto caro; ma quando previddi il pericolo che si era per scorrere, vendei il schiavo per la mettà meno di quello che valeva, per avanzar per me quello ch’egli bevuto avrebbe.

Capitolo 21
Orisa, e fiume Gange.

Orisa fu già un regno molto bello e sicuro, per il quale caminare si poteva con l’oro in mano senza pericolo alcuno, sina che regnò il suo re legitimo, qual era gentile, e stava sei giornate infra terra nella città di Catheca. Amava questo re grandemente i forestieri e i mercadanti, che entravano e uscivano del suo regno con le lor mercanzie senza pagar né dazii, né alcuna altra sorte di gravezze: solo le navi secondo la lor portata pagavano una certa poca cosa; e ogni anno nel porto d’Orisa si carcavano venticinque e trenta navi tra grosse e picciole, di risi, di diversi panni bianchi di bombaso, fini d’ogni sorte, oglio di zerzelin, qual si fa d’una semenza ed è assai buono cotto e da frigere, assai butiro, lacca, pevere longo, zenzari, mirabolani secchi e in conserva, assai panni di erba, qual è una seta che nasce ne’ boschi senza fatica alcuna degli uomini: solo quando le boccole sono fatte, e sono grosse come ogni grossa naranza, hanno pensiero d’andare a raccoglierle. Sono intorno a sedeci anni che questo regno fu preso e distrutto dal re di Patane, che fu anche re di gran parte di Bengala, e subito vi pose il dazio di venti per cento, come nel suo regno si pagava; ma poco lo godette questo tiranno, perché di là a pochi anni fu soggiogato da un altro tiranno, dal grande Magol re d’Agra, del Deli e di tutta Cambaia, senza quasi metter mai mano alla spada.

Io mi parti’ d’Orisa per Bengala al porto Picheno, qual è distante de qui cento e settanta miglia verso levante; si va cioè scorrendo la costa cinquantaquattro miglia, indi s’entra nel fiume Ganze, dalla bocca del qual fiume sino a Satagan, città ove si fanno i negozii e ove i mercadanti si riducono, sono cento e venti miglia, che si fanno in dicidotto ore a remi, cioè in tre crescenti d’acqua, che sono di sei ore l’uno. Quando poi l’acqua le sei ore calla, non si può far viaggio, perché l’acque corrono troppo di furia e, ancora che le barche siano leggiere e ben fornite di remi e in foggia di fuste, non si può andar inanzi, ma bisogna legarsi per non esser portati adietro dal reflusso. Si chiamano queste barche bazaras e patuas, e si vogano alla galeotta così bene come abbia mai visto. Una buona marea prima che si arrivi a Satagan, si trova un luogo che si chiama Bettor, e da lì in su non vanno le navi grosse, perché il fiume ha poca acqua. Qui in Bettor ogni anno si fa e disfa una buona villa con case e boteghe di paglia, fornite di tutte le cose necessarie a usanza loro; e dura questa villa sina che le navi parteno per India, e, partite che sono, tutti vanno alle sue terre e danno fuoco alla villa. Mi fece questa cosa molto maravigliare, perché nell’andare a Satagan vidi questa villa con grandissimo popolo e infiniti bazarri e botteghe, e al ritorno, essendo restato degli ultimi, e con l’ultima nave, la qual di qui era partita e aviatasi inanzi, venivo giù in una barca col capitano della nave, e restai stupido quando vidi quel luogo campagna rasa e con solo i segnali dell’abbrucciate case. Li navilii piccioli vanno a Satagan e ivi carcano.

Capitolo 22
Satagan

Nel porto di Satagan si carcano ogn’anno trenta e trentacinque vascelli, tra nave e navilii, di risi, di panni di varie sorti di bombaso, lacca, grandissima quantità di zuccari, zenzari e mirabolani secchi e conditi, pevere longo, buttiro assai e oglio di zerzelin e molte altre mercanzie. La città di Satagan è onestamente bella per città di Mori, ed è molto abondante. Fu signoreggiata dal re Patane, ubbidisce ora al re Magol. Io stetti in questo regno quattro mesi, ove assai mercadanti per loro utile comprano una barca, over la pigliano a nolo, e con essa vanno per il fiume alle fiere, comprando con assai maggiore avantaggio, percioché tutti li giorni della settimana hanno fiere, ora in un luogo ora nell’altro; e però ancor io tolsi una barca, e andando su e giù per il fiume di notte, ho veduto molte stranie cose. Il paese di Bengala da un tempo in qua è quasi tutto in poter de’ Mori, tuttavia vi è ancora grandissimo numero de’ Gentili (per tutto ove dico Gentili intendasi idolatri, e ove dico Mori s’intenda macomettani), massime quelli infra terra. Hanno tutti in grandissima venerazione l’acqua del Gange, e quando sono infermi si fanno portare di lontani paesi su la riva di detto fiume e, fabricatavi una casetta di paglia, ogni giorno con quell’acqua si bagnano; onde assai ne muoreno, e morti che sono pongono i corpi su un monte di frasche, e dattoli il fuoco lasciano che siano mezzi arrostiti; indi, attaccatogli un vaso grande al collo, nel fiume gli precipitano. Questa cosa ogni notte l’ho vista per due mesi, ch’andai su e giù per il fiume a trovare i mercati e fiere; e questa è la cagione che i Portoghesi non vogliono bevere di quell’acqua, con tutto che sia eccellentissima e perfetta al paro di quella del Nilo.

Dal porto Picheno detto di sopra andai a Cochin e da Cochin a Malacca, di dove mi parti’ per il Perù, ottocento miglia distante, qual viaggio si suol far ordinariamente in venti o venticinque giorni, e noi stessemo su questa strada quattro mesi. E in capo di tre mesi, essendo ormai il navilio con poca vettovaglia, disse il peotta che per il suo sol eravamo a fronte della città di Tenasari, città del regno del Perù; e il suo detto era vero, ma eravamo in mezzo a molte isole picciole o scogli disabitati. E alcuni Portoghesi dicevano che conoscevano la terra e che sapevano ove era detta città di Tenasari, la qual è città delle ragioni del regno di Sion, posta infra terra due o tre maree, sopra un gran fiume che viene d’infra terra del regno del Sion. E ove il fiume entra in mare è una villa chiamata Mergi, nel porto della quale ogn’anno si caricano alcune navi di verzino, di nipa, di belzuin e qualche poco di garofoli, macis, noci, che vengono dalla banda di Sion; ma il sforzo della mercanzia è verzino e nipa, qual è un vino eccellentissimo che nasce nel fior d’un arbore chiamato niper, il cui liquor si distilla e se ne fa una bevanda eccellentissima, chiara come un cristallo, buona alla bocca e migliore allo stomaco: e ha una gentilissima virtù, che s’uno fosse marcio da mal francese, bevendone assai, in poco tempo si risana. E io n’ho veduto l’effetto, percioché, stando io in Cochin, era un mio amico al qual cascava il naso da mal francese e fu consigliato da medici ch’andasse a Tenasari a’ vini nuovi e che ne bevesse giorno e notte quanto più poteva, inanzi però che si destillasse, che ‘n quel stato è delicatissimo, ma destillato è gagliardo e bevendone assai va alla testa: andò questo uomo e ne bevve, e io l’ho visto dapoi con buonissimo colore e sano. Questo vino è molto apprezzato in India, ma per venir di lontano è assai caro; nel Perù ordinariamente è buon mercato, per esser vicino al luogo ove si fa e facendosene ogni anno quantità grande.

Ora al proposito ritornando dico che, ritrovandosi noi lontani da terra fra quei scogli all’incontro di Tenasari con molta carestia di vettovaglia, e per detto del peotta e de’ due Portoghesi tenendoci al fermo esser all’incontro di detto porto, fu determinato d’andar con la barca a proveder di vettovaglia, e ch’il navilio n’aspettasse in un luogo designato. Si partissemo ventiotto persone con la barca su l’ora del mezogiorno, credendoci al fermo di giunger inanzi sera nel porto detto di sopra, ma vogassemo tutto quel giorno, gran parte della notte e tutto il giorno seguente, senza trovar porto né segnale alcun di buona terra: e questo avvenne per il cattivo commando de’ dui Portughesi, che errarono, e si lasciò il porto indietro, di modo che perdessemo la terra popolata e anche il navilio con ventiotto persone, senza aver in barca sorte alcuna di vettovaglia. Volse il Signor Iddio ch’un marinaro aveva portato un poco di risi, da barattare in qualche cosa, quali non erano tanti che tre o quattro persone non gli avessero mangiati in un pasto. Io con licenza di tutti presi il dominio de’ risi, promettendogli che, con l’aiuto di Dio, quei risi ne sariano un intertenimento sina che la sua bontà n’averia fatto grazia di ritrovar qualche luogo abitato, e la notte io dormivo con essi in seno, accioché non mi fossero rubati. Andassemo nove giorni così persi scorrendo la costa senza trovar altro che paese disabitato e isole diserte, che se avessemo trovato erba ne saria parsa un zuccaro, ma non trovammo se non alcune foglie d’arbori grosse e tanto dure che non si potevano masticare. Avevamo abbondanza d’acqua sola e di legne, né potevamo far viaggio se non col crescente dell’acqua, e quando l’acqua callava si fermavamo al lito di qualcuna di quelle isole. Trovassemo solo in questi nove giorni una covata d’ova di tartaruga, che furono cento e quarantaquattro, li quali ne furono di grande aiuto: sono grandi come ova di gallina, né hanno altro scorzo che una tenera pelle; e ogni giorno facevamo un caldarone di brodo con un pugno di risi. Piacque a Dio ch’in capo al giorno nono scoprissemo su le ventidue ore alcune peschiere, e indi a poco alcune barchette, che per esse andavano. Non credo che fosse mai più stata altratanta allegrezza in alcun di noi, percioché eravamo ormai tanto afflitti che appena si potevamo regger in piedi, e alla regola sina allora osservata avevamo ancora risi per quattro giorni. La prima villa che trovassemo era nel colfo di Tavai, sottoposto al re del Pegu, ove trovassemo vettovaglia in abondanza, ma per dui o tre giorni non si lasciò mangiare a cadauno se non molto poco, e con tutto questo ne stettero assai in ponto di morte. Da Tavai al porto di Martavan del regno del Pegu sono settantadui miglia. Carcassemo la barca di vettovaglia, che per sei mesi abondantemente averebbe bastata, e si partimmo per il porto e città di Martavan, ove in poco tempo giungessimo; ma non vi trovassemo il nostro navilio, secondo che pensavamo di trovare, onde spedissemo subito diverse barche a cercarlo. E fu trovato in gran calamità e bisogno d’acqua, sorto con tempo cattivo e vento contrario, ed era a cattivo termine, percioché era un mese ch’era privo della barca, che d’acqua e di legne lo provedeva; qual, con la scorta della barca che trovato l’aveva, giunse anch’esso per grazia di Dio a salvamento in detto porto.

Capitolo 23
Martavan.

Trovassimo nella città di Martavan intorno a novanta Portoghesi, tra mercadanti e uomini vagabondi, li quali stavano in gran differenza co’ rettori della città, per aver certi Portoghesi vagabondi uccisi cinque fachini del re. Era forsi un mese che ‘l re di Pegu era andato con un millione e quattrocentomila persone all’acquisto dell’imperio del Sion, e perché è costume in quel regno, che sia il re ove si voglia fuora del regno, ch’ogni quindeci giorni li va dal Pegu una caravana di fachini con cesti in testa pieni di diversi rinfrescamenti e panni netti, occorse che, passando essi per Martavan e riposandosi quivi una notte, vennero alquanti di loro a parole con alcuni Portoghesi e indi ai pugni; e perché parve che i Portoghesi n’avessero il peggio, la notte seguente dormendo i fachini alla campagna, andarono i Portoghesi e tagliarono la testa a cinque di loro. È una legge nel Pegu che, se uno ammazza un altro, si compra il sangue sparto con tanti dinari, secondo la qualità dell’ucciso; ma, per esser questi fachini ne’ servizii del re, non ardirono i rettori d’accommodare questa cosa senza saputa del re, e però li fu necessario farglielo sapere. Venne ordine dal re che i malfattori fossero ritenuti sino alla sua venuta, perché egli allora, inteso che avesse come il fatto era passato, averebbe integramente amministrata giustizia; ma il capitano de’ Portoghesi non gli volse presentare, anzi, messisi tutti i Portoghesi in arme, andavano ogni giorno per la città col tamburro e l’insegna spiegata, percioché la città stava assai vuota d’uomini da guerra, essendo quasi tutti andati nell’esercito del re.

Tra questi rumori noi quivi giungessimo, e a me parve molto stranio di veder che i Portoghesi facessero queste insolenze nell’altrui città; e dubitando di quello che poteva intervenire, non volsi metter le mie robbe in terra, per esser più sicure nella nave, la maggior parte del carco della quale era del parzenevole che stava in Malacca; vi erano bene diversi mercadanti, ma con roba di poca importanza. Tutti questi mercadanti a me si riportavano, né volevano sbarcar la roba s’io non cominciava; ma dapoi lasciato il mio consiglio misero la roba in terra e tutta la persero. Mi fecero un giorno chiamare il rettore e i daziari, e mi adomandarono perché io non metteva la roba in terra e non pagava il suo dretto alla doana. Gli risposi che io era mercadante venuto qui di nuovo e che, vedendo la terra andar in tal rivolta co’ Portoghesi, dubitava perder la mia roba, che mi costava tanti sudori; e che però avea deliberato di non metterla in terra, se prima sua signoria non m’assicurava in nome del re che se qualche cosa intervenisse co’ Portoghesi, che né la mia persona né la mia mercanzia fosse a modo alcuno offesa, poiché io non avevo parte né interveniva in questi rumori e differenze. Parve buona la mia ragione al rettore e mandò subito a chiamare il bargite della città, che sono gli uomini di consiglio, e mi promisero sopra la testa del re che per cosa che fosse potuta succeder coi Portoghesi, che la mia persona e la mia roba saria sicura e salva; della qual promessa ne fu fatto nota negli atti pubblici. E io andai e feci subito portar le mie robe in terra, e pagai il dazio, qual in quel regno si paga dell’istessa roba che si porta a dieci per cento, e per più mia maggior sicurezza presi casa all’incontro della casa del rettore. Il capitan maggiore de’ Portoghesi e quasi tutti li mercadanti stanziavano di fuora ne’ borghi; solo io e da ventidui altri Cristiani portoghesi, povere persone e officiali de’ navilii portoghesi, avevamo la nostra abitazione nella città.

Avevano già i Gentili ordinata la vendetta contra i Portoghesi, ma non l’esequivano, aspettando che prima il nostro navilio si discarcasse, e però, subito che fu la roba in terra, giunsero la notte seguente dal Pegu quattromila soldati con alcuni elefanti da guerra; e prima che si levasse il rumore, mandò il rettore a far intendere a casa per casa a tutti i Portoghesi ch’erano nella città che, sentendo rumore, non dovessero per cosa alcuna e per suo bene uscir de’ loro alloggiamenti. Alle quattro ore di notte si sentì lo strepito e rumor grande di gente e d’elefanti, che gettavano per terra le porte delle case e de’ magazeni de’ Portoghesi e le case di legne e di paglia; nel qual rumore furono feriti alcuni Portoghesi e uno ucciso, e gli altri, senza far prova alcuna degna dell’orgoglio i passati giorni mostrato, vergognosamente si posero in fuga e si salvarono sui navilii che in porto erano surti. Tutta quella notte si careggiò la mercanzia de’ Portoghesi nella città, di modo che tutti quelli che stavano nel borgo persero tutta la roba loro e molti di loro, trovandosi a quel punto in letto, con la sola camisa fuggirono. Un altro errore fecero poi i Portoghesi, che dopo imbarcati, avendo ripreso animo, vennero con un buon vento a metter fuoco nelle case del borgo, che essendo di tavole e di paglia, e il vento gagliardo, in poco tempo abbrusciò il borgo e quasi mezza la città; con la qual fazione persero in tutto ogni speranza di ricuperar la roba loro, la quale poteva montar intorno a sessantamila ducati, percioché, se non avessero fatto questo danno, si teneva per certo che sariano stati reintegrati del tutto, perché si seppe che questa fazione non era stata ordinata dal re, ma dal suo luogotenente e dal rettor della città, che n’erano poi malcontenti, parendogli d’aver fatto un grande errore. La mattina seguente cominciarono i Portoghesi a battere la città con l’artigliaria delle navi, e la batterono quattro giorni continui, ma indarno, percioché i colpi non ferivano nella città, ma nell’alto della montagna a lei vicina. Quando il rettore vide che principiarono a far la batteria, fece subito prender ventiun Portoghesi ch’erano nella città e mandolli 4 miglia fuori d’essa, ove stettero fina che i Portoghesi se n’andarono, e poi senza offenderli li lasciò in libertà. Io stetti sempre nella mia casa con una buona guardia postavi da’ rettori, accioché non mi fosse fatto oltraggio alcuno, osservandomi quanto promesso m’avevano; ma non volsero ch’io di qui mi partisse sina alla venuta del re, il che mi fu di gran danno, percioché io stetti ventiun mese sequestrato, senza poter vendere la mia mercanzia, la quale era pevere, sandolo e porcellane della China. Giunto che fu pur finalmente il re, gli appresentai una supplica e subito fui licenziato.

Capitolo 24
Pegu.

Da Martavan mi parti’ per andare alla città reale del Pegu, chiamata anco essa col nome del regno; qual viaggio si fa per mare in tre over quattro giornate. Si puol andare anco per terra, ma a chi porta mercanzia è più commodo e manco spesa l’andar per mare; e in questo viaggio si passa il maccareo, qual è una delle maravigliose cose che faccia la natura e che ‘n questo mondo si possa vedere; e a chi non ha visto parerà dura cosa il credere il gran crescimento e callo che in un attimo fa l’acqua, e l’orribil terremoto e strepito col quale essa si muove. Si parte da Martavan col crescente in alcune barche che sono come peotte, le quali vanno come una frezza vogando a seconda d’acqua fina che dura tutta la marea, e quando conoscono che la marea sia in colmo, si tirano fuori del canale in un luogo alto e quivi sorgeno, e quando l’acqua è callata restano in secco e tanto alto dal vaso del canale quanto è alta ogni gran casa. Si fa questo perché, se una nave grossa restasse nel canale a basso, è tal l’empito col quale l’acqua comincia a crescere, che la ribaltaria; e con tutto che la barca sia tanto alta fuora del vaso, e che prima che l’acqua aggiungi là abbia perso gran parte della sua furia, tuttavia rende gran spavento e bisogna tenerli la prova contra, altramente si perderia con tutte le persone. Quando l’acqua è per cominciare a crescere, si sente strepito così grande che pare un terremoto, e indi in un subito fa tre onde; la prima, con tutto che la barca sia tanto distante, la bagna da poppe a prova, la seconda è manco terribile, e alla terza si leva in pressa l’ancora, e per sei ore che l’acqua cresce si voga con tal velocità che par che si voli; né bisogna perder punto di tempo, perché è necessario aggiunger all’altra posta ove si sorge prima che l’acqua daga volta, altramente bisognerebbe tornare di dove si fosse partiti; e queste poste sono più pericolose una dell’altra, secondo che sono più e manco alte. Quando poi si ritorna dal Pegu a Martavan, non si camina se non mezza marea alla volta, per restar in alto, per la ragione detta di sopra. Non ho mai potuto intendere la cagione di questo strepito, crescere e callare dell’acque. Un altro maccareo è anco in Cambaia, ma si può riputar niente rispetto a questo.

Con l’aiuto del Signore io giunsi a salvamento al Pegu, che sono due città, la vecchia e la nuova. Nella vecchia stanno i mercadanti forestieri e anco gran parte dei terrieri, e quivi si fa il sforzo delle facende; la città non è troppo grande, ma ha borghi grandissimi, e le sue case sono fatte di canna e coperte di foglie e di paglia; e le case de’ mercadanti hanno tutte un magazeno, che si chiama godon, fatto di pietre cotte, nel qual ripongono le lor mercanzie e tutta la roba di valuta, per salvarle da’ spessi incendii che occorrono in case di tal materia fatte. Nella città nuova sta il re e tutti i suoi baroni e altre persone signorili e gentiluomini, e al mio tempo fu questa città finita di fabricare; è città molto grande, piana e fatta in quadro perfetto, murata d’intorno e con fosse che la circondano, piene di molta acqua, nella qual sono molti cocodrilli; non ha ponti levatori, ha venti porte, cinque per ogni quadro, con assai luoghi da sentinelle di legno indorate. Le sue strade sono più belle di quante io abbia mai visto, perché tutte sono dritte a linea da una porta all’altra, e stando su una porta in una occhiata si scuopre sina all’altra, e per esse si possono cavalcare dieci e dodeci uomini al paro; e anco quelle che sono per traverso sono così belle e dritte ma non sono salicate; da una banda e dall’altra delle strade sono piantate all’incontro delle porte delle case noci d’India, che fanno un’ombra molto bella e commoda. Le case sono fabricate di legno e coperte di coppi, fatte in un solaro, assai buone a lor usanza. Il palazzo del re è in mezzo alla città, fatto in fortezza murata, con le sue fosse intorno piene di acqua; e l’abitazioni dentro sono di legno indorate, con alcune grottesche, overo piramidi con gran fatture coperte d’oro di foglia: sono veramente case da re. Dentro alla prima porta è una larga piazza, da una banda e dall’altra della qual sono le stanze degli elefanti più poderosi e più belli, destinati al servizio della persona del re; e tra gli altri n’ha 4 bianchi, cosa talmente rara che non si trova altro re che ne abbia, e trovandosene qualcuno in qual parte si sia, gli è subito mandato a donare. E al mio tempo in due volte gliene furono menati due di lontani e diversi paesi, e mi son costo eziandio a me qualche cosa, percioché obligano tutti li mercadanti ad andarli a vedere e donare una cortesia a quello che li conduce; e gli officiali de’ mercadanti metteno a questo effetto una tansa, che può importar mezzo ducato per testa, che viene ad esser gran summa, per i molti mercadanti che ‘n quella città si trovano; e pagata che si ha la tansa, si può anco lasciar star d’andarli a veder per quella volta, perché quando sono poi nelle stalle regie si posson veder quanto si vuole, ma si va quella volta perché si sa che ‘l re ha caro che se li vada. Questo re tra gli altri suoi titoli si chiama re degli elefanti bianchi, e si dice che, s’egli sapesse ch’altri re n’avesse, metteria tutto il suo stato in pericolo più tosto che non lo conquistare. Fa egli tenere questi elefanti bianchi con servitù e politezza grandissima, cadaun dei quali sta in una casa indorata, e se gli da da mangiare in vasi d’argento e d’oro; ve n’è uno negro che, per essere il più grande che mai sia stato visto, è tenuto con commodità simile, e veramente è tanto grande e tanto grosso ch’è una meraviglia, e la sua altezza è di nove cubiti. Si dice che questo re ha quattromila elefanti da guerra, cioè armati de’ denti, in cima a dui delli quali li mettono dui spontoni di ferro, imbroccati e con annelli che li tengono fermi, percioché con i denti questi animali fanno la guerra; ne ha poi assai di gioveni, che non hanno ancora fatti i denti.

Ha questo re la più bella caccia da pigliar gli elefanti salvatichi che al mondo sia. Dui miglia lontano dalla città nuova ha fabricato un palazzo bellissimo tutto indorato, con una bella corte dentro e intorno ad essa molti corritori, nei quali può star infinita gente a veder la caccia. Quivi appresso sono grandi e foltissimi boschi, per i quali vanno di continuo i cacciatori del re a cavallo d’elefante femine ammaestrate in questo negozio, e ogni cacciatore ne mena cinque o sei, e si dice che gli ongono la natura con certa composizione, ch’annasata che l’hanno gli elefanti salvatichi la seguitano, né posson più lassarla. Quando i cacciatori hanno a questo modo adescato qualche elefante, s’aviano verso il detto palazzo, qual chiamano il Tambel e ha una porta che con ingeno s’apre e si serra, dinanzi alla quale è una strada lunga e dritta con arbori da una banda e dall’altra, che coprono la strada a guisa di pergola in volto scura, affine che l’elefante salvatico entrando in questa strada si creda esser nel bosco; in capo a questa strada è un campo grande. Quando i cacciatori hanno la preda, prima ch’arrivino a questo campo mandano a darne aviso alla città, e subito n’escono cinquanta o sessanta uomini a cavallo e circondano quel campo, e le femine già amaestrate vanno alla volta d’imboccar la strada; e come gli elefanti salvatichi sono dentro, gli uomini a cavallo si metteno a cridare quanto che possono e a far strepito, per farli entrar dentro alla porta del palazzo, qual in quel tempo sta aperta, e subito che sono entrati la porta senza veder come si serra, e si trovano i cacciatori con l’elefante femine e il salvatico nella corte detta di sopra. E a poco a poco l’elefante femine una dopo l’altra escono della corte, lasciando solo l’elefante salvatico, che, quando s’accorge esser restato solo, fa tante pazzie che non è il maggior solazzo al mondo: per due o tre ore piange, urla, corre e giostra per tutta quella corte, e urta nel corritore di sotto per amazzar quella gente che quivi sta a vedere; ma i legni sono tanto spessi e grossi che non possono offendere alcuno, ma ben alle volte si rompeno in essi i denti. Finalmente si straccano tanto che restano tutti bagnati di sudore, e allora si pongono la tromba in bocca e si cavano del corpo tanta acqua, che ne spruzzano i riguardanti sino all’ultimo corridore, con tutto che molto alto sia. Quando poi vedeno ch’egli è stracco ben bene, escono alcuni officiali nella corte con canne lunghe e aguzze, e pungendolo lo fanno con gran travaglio entrare in una delle molte casette che sono fatte a posta intorno alla corte, lunghe e di modo strette che, come l’elefante è dentro, non può voltarsi per ritornar fuora; e bisogna che questi uomini stiano bene avvertiti ed esser veloci, percioché, quantunque le canne siano lunghe, l’elefante gli ammazzarebbe se non fossero presti a salvarsi. Quando poi pur finalmente l’hanno in una di esse fatto entrare, stando in alto li congegnano alcune corde sotto la pancia, al collo e alle gambe, e lo fanno star così ligato quattro o cinque giorni senza dargli da mangiare né da bevere; in capo al qual tempo lo disligano e lo mettono appresso ad una femina, e gli danno da mangiare e da bevere, e in otto giorni diventa domestico affatto.

Non credo sia al mondo animale di più intendimento di questo, che fa tutto quello che gli dice l’uomo che lo governa, né altro par che li manchi che ‘l parlare umano. Si dice che le forze in che più si fida il re del Pegu sono questi elefanti, e quando vanno in battaglia li mettono addosso un castello di tavole, legato con buone cente sotto la pancia, nel qual vi stanno commodamente quattro uomini, che combattono con archibugi, frezze, dardi e altre arme da lanciare; e si dice anco che la sua pelle è sì dura che resiste ad un colpo d’archibugio, eccetto se non lo giungesse in un occhio, in una tempia o in altri luoghi teneri. E oltra questa gran forza degli elefanti, hanno anco bellissima ordinanza in battaglia. Ho veduto io in alcune feste che si fanno fra l’anno, nelle quali il re trionfa, cosa rara e degna d’ammirazione in quei barbari, la bella ordinanza del suo esercito, distinto in squadre d’elefanti, di cavalleria, d’archibugieri e di picche. Sono in vero grandissimo numero, ma debole e triste sono l’armi loro, così quelle di dosso come l’armi offensive, che sono triste picche e spade come cortelli, lunghe e senza punta; perfettissimi sono gli archibugi, e dir si può migliori dei nostri: tra buoni e cattivi ascendono gli archibugieri al numero di ottantamila, e da un tempo in qua del continuo crescono, percioché ogni giorno vuole il re che si tiri al pallio, col qual continuo esercitarsi si fanno eccellenti archibugieri; e si trova l’istesso re eziandio artegliaria di metallo. Concludo che non è in terra re di possanza maggiore del re del Pegu, percioché ha sotto di sé venti re di corona e ad ogni suo volere può mettere in campagna un milion e mezo d’uomini da guerra, tutti del suo stato; cosa che parerà dura da credere, rispetto a considerare la vettovaglia che faria bisogno a mantenere così gran numero di gente, ma chi sa la natura di quelle nazioni facilmente la crederà. Ho veduto coi proprii occhi ch’essi mangiano di quante sorti d’animali è sopra la terra, sia pur sporco e vile se sa essere tutto fa per la lor bocca, sina i scorpioni e le serpi, e di più d’ogni erba si pascono, onde ogni grosso esercito, pur che non li manchi acqua e sale, in un bosco si mantenerebbe lungo tempo di radici, di fiori e di foglie degli arbori; portano del riso per viaggio come per confetto.

Non ha il re del Pegu potere alcuno in mare, ma in terra di gente, di paese, d’oro e d’argento avanza di gran lunga la possanza del Turco; tiene alcuni magazeni pieni d’oro e d’argento, e ogni giorno ve n’entra e mai non se ne cava, ed è signore delle minere de’ rubini, de’ safili e delle spinelle. Appresso il palazzo regio è un tesoro inestimabile, del qual par che non se ne facci conto, rispetto che sta in luogo dove puol andare ciascuno a vederlo ad ogni sua voglia. È questo luogo una gran piazza, d’ogni intorno serrata di muro, con due porte, le quali di giorno sempre stanno aperte; in questa piazza sono quattro case indorate e coperte di piombo, in ciascuna delle quali sono alcuni pagodi, cioè idoli, grandi e di gran valuta. Nella prima è una statua di un uomo grande d’oro, con una corona in testa d’oro, piena di rarissimi rubini e safili, intorno alla quale sono quattro statue di quattro fanciulli d’oro. Nella casa seconda è una statua d’un uomo d’argento di moneta a sedere, qual supera con la testa, tanto è grande, così a sedere l’altezza d’una casa d’un solaro (io misurai i suoi piedi e li trovai così lunghi come io tutto sono), con una corona in testa simile alla prima. È nella terza una statua di rame dell’istessa grandezza e con simile corona di gioie in capo. Nella quarta e ultima casa è un’altra statua così grande fatta di ganza, che è un mettallo di che fanno le lor monete, fatte di rame e di piombo mescolato insieme; qual ancor essa ha in capo una corona simile alla prima. Sta questo tesoro così grande in luogo aperto, come si disse, e ogni uomo a sua voglia può andar a vederlo, che coloro che gli fanno la guardia non proibiscono l’entrarvi ad alcuno.

Dissi disopra che questo re ogni anno in certe feste trionfa, che per esser cosa bellissima da vedere, mi par di doverla scrivere. Va il re sopra un carro trionfante tutto indorato, qual tirano sedeci belli cavalli, ed è alto, con una bella cuba; dietro gli caminano venti signori con una corda in mano per ciascuno al carro ligata, per tenerlo dritto e che ribaltar non si possi. Sta il re in mezzo al carro, e su l’istesso carro li stanno intorno quattro signore da lui più favorite; inanzi e dietro camina il suo esercito in ordinanza come di sopra si disse, e in mezzo a questo intorno al carro tutta la nobiltà della sua corte e de’ suoi regni: cosa maravigliosa certo a vedere tanta gente, tanta richezza e tanto bell’ordine. Ha il re di Pegu una moglie principale, e in un serraglio ha intorno a trecento concubine, delle quali dicono che sin ora ha novanta figliuoli. Dà ogni giorno audienza in persona, ma non se li parla se non con suppliche a questo modo. Siede il re in una gran sala sopra un alto tribunale, e i suoi baroni intorno a lui, ma più bassi; quelli che dimandono audienza entrano in una piazza inanzi al re, e si pongono a sedere in terra quaranta passi lontani dalla persona del re, né in questo si fa differenza a persona alcuna, con le sue suppliche in mano, che sono foglie d’un arbore lunghe più d’un braccio e larghe intorno a due deta, scritte con la punta d’un ferro fatto a posta; e insieme con la supplica tengono anco in mano un presente, secondo l’importanza della lor dimanda. Vengono gli scrivani e pigliano queste suppliche e le leggono, e poi vanno a leggerle dinanzi al re: se pare al re di farli quella grazia o giustizia che essi adimandano, manda a pigliar il presente; ma quando li pare che la domanda sia ingiusta, gli fa mandar via senza pigliare il presente.

In India non è mercanzia alcuna che buona sia da portare al Pegu, se non si ha alcuna volta sorte a portarvi amfion di Cambaia; portando dinari se gli perderia assai. Solo da S. Tomé è buono andarvi, percioché quivi si fa gran quantità di panni che s’usano nel Pegu, che sono tele di bombaso dipinte e tessute, cosa rara, che quanto più si lavano rendono i colori più vivi, e se ne fanno di molta importanza, che una balla molto picciola valerà mille e duemila ducati; vi si portano anco da San Tomé filati di bombaso cremesini, tenti con una certa radice che chiamano saia, qual fa un colore che mai si smarisse; delle qual robbe ne va ogni anno da San Tomé al Pegu una nave carica, ch’importa gran valuta. Si parte alli dieci overo undeci di settembre, e, se ne sta sino alli dodeci, porta pericolo di bisognar ritornare senza far il viaggio. Solito era di partirsi agli otto ed era viaggio sicuro, ma perché gli è gran travaglio in quelle tele, di ridurle a perfezione e che siano ben sutte, e anco per l’ingordigia de’ capitani, che vogliono straguadagnare e aspettano assai per aver più noli, con credenza che ‘l vento gli abbia da servire, si tarda alle volte tanto che la cola de’ venti si volta (percioché là sono cole de’ venti ad un certo tempo prefisso, con le quali si va al Pegu sempre col vento in poppa, e non essendo giunti prima che il vento si volti alla costa del Pegu e preso fondo, bisogna per forza ritornare adietro), percioché la cola che poi contra si volta suol durare tre o quattro mesi; ma se, prima che ‘l vento volti, s’avicina tanto alla costa che si pigli fondo, quantunque poi si volti, avendo terra, si travaglia tanto che non si perde il viaggio. Va un’altra nave da Bengala al Pegu, pur carca di tele di bombaso bianche, fine e d’ogni sorte, ch’entra in porto al tempo che quella di S. Tomé si parte, come anco quella di San Tomé entra quando quella di Bengala si parte. Il porto nel quale entrano queste due navi è una città chiamata Cosmin. Di Malacca a Martavan, porto del Pegu, vengono assai navilii carichi di pevere, di sandolo, di porcellana di China, di canfora di Bruneo e d’altre mercanzie. Nel porto del Cirion entrano le navi che dalla Mecca vengono, con panni di lana, scarlatti, veluti, anfione e cecchini, ne’ quali si perde, e li portano per non aver altro che portare che sia buono per il Pegu, ma non gl’importa niente, perché si rifanno col grosso guadagno che fanno nelle robe che di quel regno cavano; e in questo istesso porto vengono anco vasselli del re d’Asia, carichi di pevere.

Dalla banda di San Tomé e di Bengala del mar della Bara al Pegu sono trecento miglia, e si va tre e quattro giorni su per il fiume col crescente dell’acqua sino alla città di Cosmin, e qui si discaricano le navi; ove vengono i daziari del Pegu a pigliar tutta la roba in nota e sopra di sé, co’ segnali e bolli di ciaschedun mercante, ed essi hanno pensiero di farla condurre a Pegu, nelle case del re, nelle quali si fa doana di dette mercanzie. Quando i daziari hanno ricevuto tutta la roba e postala nelle barche, licenzia il rettore della città i mercadanti che possino pigliar barca e andarsene a Pegu con le lor massarizie, e s’accordano tre e quattro mercanti per compagnia e, tolta insieme una barca, al Pegu se ne vanno. Guardi Dio ognuno da far contrabandi, perché per picciolo che ‘l fosse saria affatto ruinato, percioché il re l’ha per grandissimo affronto, e tre volte si vien diligentemente cercati: quando si sbarcano della nave, quando si vogliono partir di Cosmin con la barca e quando sono giunti a Pegu. Questo cercar quando si esce di nave lo fanno per i diamanti, perle e panni fini, che pigliano poco luogo, percioché tutte le gioie ch’entrano nel Pegu e che non vi nascono pagano dazio; ma li rubini, li safili e le spinelle, che vi nascono, non pagano né all’entrare né all’uscire. Ho tocco altre volte che i mercadanti che vanno attorno per l’India convengono portare seco tutte le massarizie che sono più necessarie per servizio d’una casa, percioché in quelle parti non sono ostarie né camere locande, ma, come s’arriva in una città, la prima cosa si piglia una casa a fitto, o per mesi o per anno, secondo che si disegna di starvi: e nel Pegu è costume di pigliarla per moson, cioè per sei mesi. Or da Cosmin si va alla città di Pegu col crescente di sei ore in sei ore, e le sei ore che l’acqua calla bisogna ligarsi alla riva e ivi aspettare l’altro crescente. È bellissimo e commodissimo viaggio, trovandosi da una banda e dall’altra del fiume spessissime ville, così grosse che le chiamano città, nelle quali per buon mercato si comprano galline, oche, anatre, colombini, ova, latte e risi. Sono tutte pianure e bel paese, e in otto giorni si fa commodamente il viaggio sina a Maccao, distante da Pegu dodeci miglia, e qui si sbarca, e si mandano le robe a Pegu sopra a carette tirate da’ buoi; e i mercadanti sono portati in delingi, qual è un panno attaccato ad una stanga, nel qual sta l’uomo disteso con cosini sotto la testa, ed è coperto per difesa dal sole e dalla pioggia, e l’uomo può dormir se n’ha voglia: lo portano quattro fachini correndo, cambiandosi due per volta.

Il dazio del Pegu col nolo della nave può montare venti, ventiuno, ventidua e sina ventitre per cento, secondo che si è più e manco rubati, e il giorno che si fa doana bisogna avere l’occhio a penello e star all’erta e aver molti amici, percioché, facendosi doana in una sala grande del re, vi vengono molti signori a vedere, accompagnati da gran numero de’ suoi schiavi; né si tengono questi signori a vergogna che i lor schiavi rubano o panno o altro nel mostrar la roba, anzi se ne ridono, e con tutto che i mercadanti si serveno uno con l’altro a far la guardia alle cose loro, non si può tanto guardare che a ciascuno non sia qualche cosa rubato, a chi più e a chi manco, secondo che ne hanno più commodità. Ed è nell’istesso giorno un’altra gran pena, percioché, mettiamo che si abbia tanti occhi che si passi senza esser rubati da’ schiavi, non si può l’uomo difendere di non esser rubato dagli officiali di doana, percioché, pagandosi il dazio dell’istessa roba, pigliano essi spesse volte tutto della meglio che si abbia, e non per ratta d’ogni sorte come doverebbono, con che si viene a pagar più del dovere. Spedita finalmente a questo modo la roba di doana, il mercadante se la fa portare a casa e ne può disporre a sua voglia. Sono in Pegu otto sensari del re, che si chiamano tareghe, li quali sono obligati di far vendere tutte le mercanzie che vanno a Pegu per il prezzo corrente, volendo però i mercadanti a quel prezzo allora vendere, e hanno per lor provisione dui per cento d’ogni mercanzia, ma sono obligati far buone le ditte, perché il mercadante vende per sua mano e sotto la sua fede, e molte volte non sa a chi si dia la roba, ma perder non può, perché il sensaro è obligato in ogni caso a pagar lui. E se il mercadante vende senza adoperar questi sensari, bisogna nondimeno che li paghi li dui per cento, e corre qualche pericolo del pagamento, ma questo rare volte occorre, percioché la moglie, i figliuoli e i schiavi sono al creditor obligati; e come passa il termine del pagamento può il creditor pigliare il debitor per mano e menarlo a casa sua e serrarlo in un magazeno, onde subito pagano; e non si trovando da pagare, può il creditore pigliarsi la moglie, i figliuoli e i schiavi del debitore, che tale è la legge di quel regno.

Corre in questa città e per tutto il regno del Pegu una moneta che chiamano ganza, fatta di rame e di piombo; non è moneta del re, ma ogn’uomo ne può far battere, pur che abbia la sua giusta partison, perché se ne fa anco di falsa, con assai piombo, e questa non si può spendere. Con questa ganza si compra l’oro, l’argento, i rubini, il muschio e ogn’altra cosa, né altro dinar corre tra loro, e l’oro e l’argento e mercanzia, e vale ora più ora manco, come l’altre merci. Va questa ganza a peso di bize, e questo nome di biza corre per il conto e per il peso; e communemente una biza di ganza vale a conto nostro intorno a mezo ducato, e più e manco secondo che l’oro e l’argento è più o manco in prezzo, ma la biza non muta mai: ogni biza fa cento ticaii di peso, e così il numero degli denari sono bize. Quelli che vanno a Pegu per comprar gioie, volendo far bene il fatto suo, conviene che vi stiano almanco un anno per negociar bene, percioché, volendo tornar con quella nave con la qual si va, per la brevità del tempo da negoziare non si può far cosa buona; percioché prima che in Pegu si faccia doana della nave di San Tomé è quasi il Natale, e fatta la doana si vendono le robe in credenza un mese e un mese e mezzo e al principio di marzo la nave si parte. Li mercadanti di San Tomé pigliano per pagamento oro e argento, qual mai non manca, e otto e dieci giorni prima che sia il tempo di partirsi sono tutti sodisfatti; si troveriano anco rubini in pagamento, ma non mette così conto. E quelli che vogliono invernar là per un altro anno bisogna che siano avertiti, quando vendono la roba loro, di specificar nel patto il termine di due o tre mesi del pagamento, e che vogliono che gli sia fatto in tanta ganza e non altro, né oro né argento, perché con la ganza si compra ogni cosa con molto più avantaggio; come gli bisogna anco avertir, quando è il tempo di riscuoter il pagamento, a che modo piglia la ganza, perché chi non sta avertito potria far grande errore, così nel peso, come che ve ne potria esser di falsa. Nel peso potria esser ingannato perché da un luogo all’altro cresce e calla assai, e però, quando si ha da fare un pagamento, bisogna pigliar un pesador publico qualche dì avanti, al qual si dà di salario due bise al mese; il qual è tenuto a far buono il denaro e per buono mantenerlo, percioché esso lo riscuote e bolla i sachetti del suo bollo, e lo porta o fa portare, quando è assai, nel magazen del principale. Quella moneta pesa assai, e quaranta bize sono una gran carga da facchino. E medesimamente, quando il mercante ha da far qualche pagamento di robe da lui compre, il pesador lo fa, talché con la spesa di due bize al mese il mercadante riscuote e spende il suo denaro senza fastidio alcuno.

Le mercanzie che escono di Pegu sono oro, argento, rubini, safili, spinelle, muschio, belzuin, pevere lungo, piombo, lacca, risi, vin di risi, qualche poco di zuccaro, percioché, quantunque se ne faccia assai, assai anco nel regno se ne consuma in canna che si fa mangiare agli elefanti, ed eziandio i popoli ne mangiano. Gran quantità se ne consuma ancora in quel regno nelle lor varelle, che sono gli suo pagodi, de’ quali ve n’è gran quantità di grande e di picciole: e sono alcune montagnuole fatte a mano, a guisa d’un pan di zuccaro, e alcune d’esse alte quanto il campanil di S. Marco di Venezia, e al piede sono larghissime, talché ve ne sono alcune di quasi mezzo miglio di circonferenza. Dentro sono piene di terra, d’intorno murate con quadrelli e fango in vece di calcina, ma li fanno poi sopra della cima sino al piede una coperta di calcina nuova e di zuccaro, in che se ne consuma gran quantità, perché altramente sariano dalla pioggia distrutte. Si consuma in queste istesse varelle anco gran quantità di oro di foglia, perché gli indorano a tutte la cima, e vi sono alcune che sono indorate dalla cima sino al fondo; in che vi va gran quantità d’oro, percioché ogni dieci anni bisogna indorarle di nuovo, per rispetto che le pioggie lo consumano, e se tanto in questa vanità non se ne consumasse, saria l’oro nel Pegu in assai miglior mercato.

Maraviglia parerà a sentire che nel comprare le gioie nel Pegu così spende bene i suoi dinari uno che non ha cognizione alcuna di gioie, come qualunque esercitato e prattico in questo negocio, e pur è così, per il modo che hanno trovato i venditori di venderle con più reputazione e più care; percioché, se non comprassero gioie nel Pegu se non quelli che se n’intendono, saria poco il numero de’ compratori e nel Pegu non saperiano che fare de’ tanti rubini che in quel regno si cavano, e gli bisogneria darli per prezzo vilissimo; il qual modo è questo. Sono nella città di Pegu quattro botteghe di sensari gioielieri, uomini di gran credito, che si chiamano tareghe; per le man di questi quattro passano quasi tutti i rubini che si comprano e si vendono, e nelle lor botteghe si riducono sempre i compratori e i venditori; e quelli mercadanti che non s’intendono di gioie trovano uno di questi tareghe e li dicono che hanno tanti danari da investire in rubini, e che se esso li farà far buona spesa, che compraranno, quando che no, che lasciaranno star di comprare. È costume in questa città generalmente che, quando si ha comprato una quantità di rubini, il compratore fatto l’accordo se gli porta a casa, e sia di che valuta esser si voglia, e li vede e rivede due o tre giorni, e non se n’intendono, sono sempre nella città molti mercanti che se n’intendono, co’ quali si può consigliare e mostrarglieli; e trovando di non aver fatto buona spesa, li può ritornare al tarega che glieli ha fatto torre senza perdita alcuna, la qual cosa è di tanta vergogna al tarega che ha fatto quel mercato, che vorrebbe che li fusse più tosto dato uno schiaffo. E però s’affaticano sempre questi tarega di far fare buona spesa, massime a quelli che non se n’intendono, né lo fanno tanto per bontà, quanto per non perdere il credito. Quando poi compra alcuno che facci professione d’averne cognizione, essi non hanno colpa alcuna se comprano caro, anzi nel trattare il mercato favoriscono quanto più possono i suoi che vendono; ma però è buona cosa l’intendersene. Bello eziandio è il modo che si tiene in far mercato delle gioie, percioché saranno assai mercadanti a veder far un mercato di centenara e migliara di bizze, né alcun d’essi può saper il prezzo che si promette e domanda e che al fin si conclude se non quello che vende, quello che compra e il tarega, percioché si fanno i mercati con toccarsi i deta delle mani ascose sotto un panno, avendo ogni deto e ogni groppo di ogni deto il significato di qualche numero; percioché, se i mercati si facessero a parole che tutti intendessero, nasceriano assai contrasti e disturbi.

Or ritrovandomi io in Pegu il mese d’agosto del 1569 e trovandomi aver fatto un buon guadagno, mi venne un desiderio grande di ritornare alla patria, e volendo far la strada di San Tomé, bisognava ch’io aspettasse sina al marzo seguente; onde fui consigliato e mi risolsi di far la strada di Bengala, con la nave che presto era per andare a quel viaggio, la qual parte da Pegu per Bengala a Chitigan, il gran porto di dove vanno poi i navilii piccioli a Cochin prima che la flotta si parta per Portogallo, per la qual strada avevo fatto deliberazione di venire a Venezia. Fatta questa determinazione, m’imbarcai su detta nave di Bengala, e volse la sorte che quello fu l’anno del tufon; e per dire che cosa sia questo tufon, si ha da sapere che ne’ mari dell’India ordinariamente non fanno le fortune così spesse come in questi nostri mari, ma ogni dieci, undeci o dodeci anni fa una fortuna oltra ogni creder terribile, né si sa fermamente qual anno sia per venire: e tristi quelli che a quel tempo si ritrovano in mare, percioché pochi ne scampano. Ne toccò a noi esser in mare con simil fortuna, e fu ventura che la nave era stata foderata da nuovo, ed era vota, che non aveva altro che la savorna e oro e argento, che dal Pegu per Bengala non si porta altra mercanzia. Durò questa orribil fortuna tre giorni e tre notte, che ne portò via l’antenne con tutte le vele e anco perdessimo il timone, e perché la nave travagliava assai, tagliassimo l’arbore grande, che fu assai peggio, perché la nave senza arbore cadeva ora da una banda ora dall’altra, e s’empiva d’acqua di modo che tre dì e tre notte non fecero altro sessanta uomini che seccare l’acqua che di sopra vi entrava, perché il fondo era buono, né per esso ve n’entrava pur una goccia: venti d’essi attendevano a vodar la sentina, venti nel converso e venti da basso, e tutti con secchie e zare non facevano altro che di continuo gettar il mar nel mare. Finalmente andando ove dal vento e dal mare eravamo portati, si ritrovassimo una notte su le quatro ore con una scurità grandissima in cima di una secca, senza che il giorno avessimo scoperto terra da banda alcuna, né che sapessimo dove che fussimo. Volse la divina bontà che venne un’onda grandissima che ne portò oltra la secca, senza alcun danno della nave, e quando fussimo dall’altra banda della secca tutti resuscitassimo, percioché v’era pochissimo mare, onde, buttato il piombo, trovassimo dodeci passa d’acqua, e fra poco ne trovassimo se non sei; onde dessimo subito fondo con un’ancora picciola che n’era avanzata, che l’altre si erano perse nella fortuna. Non venne giorno che restassimo in secco, e subito che la nave toccò terra fu pontellata da una banda e dall’altra, accioché non si ribaltasse. Venuto il giorno eravamo in secca, e vedessimo che ‘l mare era un buon miglio lontano da noi e molto basso, essendo cessato il tufon e che avevamo per proda molto vicina una grande isola.

Andassemo per terra a veder che isola era questa, e trovassimo ch’era luogo abitato, e al parer mio il più abondante che in tutto il mondo si possa trovare; la qual isola è in due parti divisa da un canale d’acqua salsa, che passa da una banda all’altra dell’isola. Avessimo molto che fare a condurre a poco a poco col crescente dell’acqua la nave in questo canale, e su questa isola si fermassimo quaranta giorni a ristorarci; e subito che fussimo su l’isola, ne fu fatto da quelle genti un bazarro con molte botteghe di cose da mangiare all’incontro della nave, che in tanta copia ve ne condussero e tanto buon mercato ne fecero che restavamo stupiti. Io comprai assai vacche da salare per monizione della nave, per mezzo larin l’una, che sono dodeci soldi e mezzo, per grassa che fosse; quattro porci salvatici grandi e fatti netti per un larin, le galine grandi e buone per un bezzo l’una (e ne fu detto che nelle galine eravamo stati ingannati della metà), un sacco di risi fini per una miseria, e così di tutte l’altre cose da mangiare era un’abondanza incredibile. Si chiama questa isola Sondiva, di ragione del regno di Bengala, lontana dal porto di Chitigan, ove era il nostro viaggio, cento e venti miglia. I Mori sono i suoi popoli, e vi era un governatore molto da bene per Moro, perché, s’egli fosse stato tiranno, n’averebbe potuto rubar tutti, percioché il capitano maggiore e i Portoghesi che erano in Chitigan stavano in guerra con i rettori di quella città, e ogni giorno s’ammazzavano; onde stavamo ancor noi con non poco spavento su quella isola, facendo la notte le guardie e sentinelle secondo che s’usa, e il governatore ne fece intendere che non temessemo di cosa alcuna e che sicuramente si riposassimo tutti percioché, se bene i Portoghesi che stavano in Chitigan avesseno anco ammazzato il governatore di quella città, noi non ne avevamo colpa alcuna. E veramente ne fece egli sempre far così buona compagnia quanto far si puote, che il contrario era da giudicare, poi ch’egli e quelli di Chitigan erano tutti vassalli d’uno istesso re.

Partissemo di Sondiva e giungessemo in Chitigan, il gran porto di Bengala, in tempo che già i Portoghesi avevano fatto pace o triegua con i rettori della città, con questa condizione, che il capitano maggiore si partisse con la sua nave, che essi allora dariano il carco a tutti gli altri vasselli de’ Portoghesi, che erano dicidotto navi grosse e altri navilii minori. E il capitano, qual era gentiluomo generoso e d’anima, si contentò di partirsi con la sua nave vota, accioché tante navi e mercadanti non perdessero la ventura di carcare, e tanto più che era vicino il tempo di tornare in India; onde, avendo tutte quelle navi qualche poco di carco, per ricompensare questa sua generosità, gli dettero la notte tutto il carco che avevano. E mentre egli stava per partirsi, gli venne un messo del re di Rachan, che li disse da parte del suo re che, avendo inteso della sua valorosità, lo pregava che volesse andare nel suo porto, che gli saria usata ogni cortesia: vi andò, e restò di quel re molto sodisfatto. Questo re di Rachan ha il suo stato in mezzo la costa tra il regno di Bengala e quello del Pegu, ed è il maggiore nemico che abbia il re del Pegu, che giorno e notte si va imaginando come soggiogarlo; ma non è possibile, percioché per mare il re del Pegu non ha potere, e questo di Rachan puol armare sin a ducento fuste, e per terra ha certe prese d’acqua con le quali ad ogni sua voglia può allagare un gran paese, con che taglia la strada al re del Pegu di poter venire col suo gran potere ad offenderlo. Dal gran porto di Chitigan esce per l’India gran quantità di risi, molti panni di bombaso d’ogni sorte, zuccaro, frumento e molte altre mercanzie.

Per esser stato quell’anno la guerra in Chitigan, tardarono tanto i navilii piccioli a partirsi che non giunsero, secondo ch’eran soliti gli altri anni di fare, a Cochin prima che la flotta per Portogallo si partisse; anzi, essendo io sopra un navilio ch’era dinanzi a tutti gli altri, nel discoprire Cochin, scopersi anco l’ultima nave di Portogallo che, partita di Cochin, andava a velo. Di che restai io molto sconsolato, poiché per quello anno non era più rimedio di venir in Ponente per la via di Portogallo; onde, giunto che fui a Cochin, mi deliberai di ritornare a Venezia per la strada d’Ormus. E in quel tempo la città di Goa era assediata per terra dal Dialcan, ma si aveva per opinione che questo assedio fosse per durar poco; m’imbarcai per tanto in Cochin sopra una galea per Goa, per imbarcarmi poi quivi per Ormus, ma, quando fui giunto in Goa, trovai che il vice re non lasciava partire niuno Portoghese per rispetto della guerra. Né stetti troppo in Goa, che cascai in una infermità che mi durò quattro mesi, la quale mi costò intorno ad ottocento ducati, perché mi convenne vendere una partita di rubini, che se bene valeva mille ducati, fui dal bisogno sforzato a darla per cinquecento, e di questi quando mi cominciai a risanare me n’erano molto pochi restati per rispetto della gran carestia ch’era d’ogni cosa, e una polastra ben trista si pagava sette e otto lire, oltra le gran spese de’ medici e delle medicine. Passati li sei mesi si levò l’assedio e si cominciò a negociare, e le gioie erano saltate di prezzo, onde io, vedendomi un poco disbarratato, mi risolsi di vender il resto delle gioie ch’io mi trovavo e di ritornare a fare un altro viaggio al Pegu. E perché quando io mi parti’ da Pegu l’anfion era in gran prezzo, andai in Cambaia per fare qui una buona investita in anfion, e vi comprai sessanta man d’anfion, che mi costò duemila e cento ducati serafini, che a nostro conto possono valere cinque lire l’uno; e di più spesi ottocento serafini in tre balle di tele di bombaso, che sono buone per il Pegu. E perché il vice re avea fatto gran pena che il dazio dell’anfion andassero tutti a pagarlo in Goa, qual pagato si poteva poi portarlo ove si voleva, pur che si portasse in paese di pace, io imbarcai le tre balle di tela in Chiaul sopra una nave che andava a Cochin, e io andai a Goa a pagare detto dazio; e da Goa mi parti’ per Cochin con la nave del viaggio del Pegu, qual va ad invernare a San Tomé, e in Cochin seppi che la nave su la quale erano le mie tre balle di tela si era persa, talché persi in questo gli ottocento serafini.

Si partissimo di Cochin per San Tomé, ma nel pigliar la volta intorno all’isola di Seilan il peotta s’ingannò, percioché il capo di Galli dell’isola di Seilan butta assai in mare, e il peotta una notte si pensò d’aver passato detto capo e tenne il viaggio a poggia, talché la mattina si trovassimo dentro a detto capo, senza rimedio per cagione de’ venti di poterlo più montare, né di far il viaggio con detta nave. E però fu necessario tornar indietro a Manar, e che la nave quivi restasse sorta tutto quello inverno senza arbori, e con poca speranza che si potesse salvare; pur si salvò, ma con gran danno del capitano maggior d’essa nave, perché li fu necessario nolizare un’altra nave in San Tomé per Pegu con interesse grande. Io m’accordai con alcuni miei amici a Manar e pigliassimo quivi una barca che ne conducesse a San Tomé, e così fecero tutti gli altri mercadanti. Giunto che io fui a San Tomé, vi trovai una nuova venuta dal Pegu quivi per terra per via di Bengala, che in quel regno l’anfione era in grandissimo prezzo, e in San Tomé non era quell’anno altro anfione da passare al Pegu che ‘l mio, di modo che ‘n San Tomé ero tenuto da tutti quei mercadanti per richissimo: ed era la verità, se la fortuna non mi fosse stata tanto contraria. Si era partita di quei giorni una nave di Cambaia con grandissima quantità d’anfione per andare al re d’Assi, e ivi caricar di pevere, alla qual dette per viaggio una fortuna che la fece poggiare ottocento miglia e venire al Pegu, ove giunse un giorno prima che arrivasse io, di modo che subito l’anfion venne a vil prezzo, e quello che si vendeva 50 bizze venne a valer solo due bizze e mezza, per la quantità grande che n’aveva portato quella nave. Onde io per non discavedar convenni star due anni in Pegu, in capo a’ quali di duemila e 900 ducati che avevo investito in Cambaia mi ritrovai esser venuto in solo mille ducati. Mi parti’ di nuovo dal Pegu per l’India e per Ormus con molta lacca; da Ormus tornai in India a Chiaul, e da Chiaul a Cochin, e da Cochin a San Tomé, e da San Tomé a Pegu. Persi in Chiaul un’altra volta l’occasione di farmi ricco, perché potevo comprar molto anfion e ne comprai poco, spaurito dalla mala ventura dell’altra volta; e in questa poca quantità feci un buon guadagno, e allora di nuovo mi deliberai di venire alla patria, e partitomi da Pegu venni ad invernare a Cochin, e indi, lasciata l’India, me ne venni in Ormus.

Mi pare, prima che finisca di narrare il mio viaggio, di ragionare alquanto sopra le cose che produce l’India e l’altre parti del Levante, e di dir la lor istoria e nascimento. Il pevere e il zenzaro sono spezie che nascono per tutta l’India, e anco in alcuni luoghi di là dall’Indie. La gran quantità del pevere nasce per i boschi salvatici, senza farli intorno sorte alcuna di fatica, se non andare al suo tempo a raccoglierlo; e l’arbore che produce il pevere è un’erba in tutte le sue parti simile alla nostra edera, la quale si rampega ad alto sopra gli arbori, e se agli arbori non s’attaccasse, sia di qual sorte esser si voglia, cascaria in terra e si marciria. Fa questa erba i corimbi o i graspi come fa l’edera, e quelli sono i grani del pevere, il qual quando si raccoglie è di color verde, ma mettendolo al sole a seccare diventa nero. Il zenzaro si coltiva, e la sua erba è giusto come il nostro panizzo, la cui radice è il zenzaro; e queste due spezie, come dissi di sopra, nascono in diversi luoghi. I garofoli tutti vengono dalle Malucche, le quali sono sette isole non molto grande, e l’arbore che li produce è simile al nostro lauro. Le noci muschiate e il macis, ch’è della medesima noce, vengono portate tutte dall’isola di Banda, il cui arbore tien gran somiglianza con l’arbore delle nostre noci, ma non troppo grande. Tutto il sandalo bianco buon si porta dall’isola di Timor. La canfora composta vien tutta dalla China, e quella che nasce in canna viene tutta da Bruneo; non pare a me che di questa canfora ne venga in queste parti, percioché se ne consuma in India e vale assai. Il buon legno aloe viene di Cochinchina; il belzuin vien dal regno di Sion e dal regno d’Assi; il pevere lungo nasce in Bengala, nel Pegu e nella Giava. Il muschio tutto vien di Tartaria, quale a questo modo si fa, per la buona informazione che n’ho avuta dai mercadanti ch’al Pegu lo portano. Dicono ch’in Tartaria sono gran copia di certi animali della grandezza d’una volpe, li quali animali pigliano vivi con i lacci e gli ammazzano con le bastonate, accioché il sangue se li sparga per tutta la persona, poi gli scorticano e, tiratali fuora l’osse, pestano la lor carne mescolata col sangue minutissimamente; della pelle fanno le borse e l’empieno di questo pestume, e questo è il muschio. L’ambra non si sa veramente di che si faccia, e sono d’essa diverse opinioni; questo solo si sa di certo, che dal mar è gettata in terra e in sui liti di quello si trova. Li rubini, i safili e le spinelle si trovano nel regno del Pegu. I diamanti vengono da diversi luoghi, e io so di tre soli; le schiappe vengono di Bezeneger; le ponte naturali d’infra terra del Deli e dalla Giava, ma quelli della Giava sono di maggior peso. Non ho mai potuto intendere da che parti vengano i balassi. Le perle in diversi luoghi si pescano. Di Cambaia escono diverse droghe. Il spodio si congela d’acqua in alcune canne, e io n’ho trovato assai nel Pegu, quando facevo fabricar la mia casa, percioché, come altra volta ho detto, quivi tutte le case si fanno di canna sfessa e tessuda.

Di Chiaul si negozia anco per la costa de Melindi in Etiopia, infra terra della quale è la Caferaria, e sul mare sono assai porti de’ Mori. Vi portano i Portughesi alcune sorti di panni di bombaso di poca spesa e quantità grande de’ paternostri di vetro tristi, a sua usanza, che si fanno in Chiaul; e di là cavano per India denti d’elefanti, schiavi caferi e qualche poco d’ambra e d’oro. Su questa costa è Mozenbich, fortezza del re di Portugallo, la quale è dell’importanti fortezze che sia in India nei luoghi a questo re sottoposti; e il capitano di detta fortezza ha alcuni viaggi alla Caferaria, nei quali non possono andare altri mercadanti che gli agenti di esso capitano, quali vanno in certi porti fra terra con navilii piccioli e contrattano coi Caferi senza parlare a questo modo. Portano a poco a poco sul lito la lor roba e si ritirano, e il mercadante cafero viene a veder la roba, e li mette tanto oro appresso quanto li par di volerla pagare e si ritira: va allora il Portughese a veder l’oro e, se gli par di vender bene, piglia l’oro e lo porta in barca; e il Cafero tornando e non trovando l’oro da lui posto, si piglia la mercanzia e la porta via. Ma, se vi trova l’oro, questo è segnale che il Portoghese non si contenta, e s’al Cafero pare d’avergli dato poco, vi aggiunge tanto oro quanto disegna di voler finalmente spendere; né bisogna ch’i Portughesi stiano duri, perché i Caferi, quando li par di pagar il dovere e che i Portoghesi non se ne contentano, si sdegnano, si ripigliano l’oro, né vogliono più contrattare, percioché ancor essi sono inviziati, essendo molti anni che a questo modo negoziano. E con questo trafico permutano in quel luogo i Portoghesi tutta la lor mercanzia in oro, e ritornano con esso a Mozembich, qual è un’isola poco distante da terra ferma della Caferaria, su la costa d’Etiopia, tra Portogallo e l’India: è distante dall’India duamila e ottocento miglia.

Ora seguendo di raccontare il mio viaggio, trovai in Ormus messer Francesco Beretin da Venezia e nolizassemo di compagnia un navilietto per Basora per settanta ducati, sul qual levassemo alcuni mercadanti che n’aiutarono a pagar il nolo; e molto commodamente a Basora arrivassemo, dove si fermassemo quaranta giorni aspettando che si facesse caravana di barche per Babilonia, percioché non vanno due o tre barche su per il fiume, ma bisogna che siano venti, venticinque e trenta; percioché, non si potendo di notte andare inanzi, bisogna legarsi alle rive e ivi farsi buona e grossa guardia ed esser ben provisti d’arme, per rispetto dei ladri che vengono per spogliare i mercadanti. Partendosi da Basora si va in su qualche poco a velo, ma per il più bisogna tirar l’alzana, sul qual viaggio sino a Babilonia stessemo cinquanta giorni; ove bisognò fermarsi quattro mesi, sino che si fece caravana da passar il deserto per Aleppo. E in questa città s’accompagnassemo sei mercadanti insieme, cinque Veneziani e un Portoghese, che furono messer Fiorin Nasi con un suo cugino, messer Andrea di Polo, il Portoghese, messer Francesco Beretin e io; e si fornissemo di vettovaglia per noi e di biava per le cavalcature per quaranta giorni. Comprassemo cavalli e mule, e se n’ha buonissimo mercato: io comprai un cavallo per undeci zechini, che vendei poi in Aleppo 30 ducati; comprassemo anche un pavion da campo, che vi stessemo sotto molto commodi. Avevamo fra tutti trentadue some di gambelo, delle quali pagassemo di porto sette ducati per gambelo; e d’ogni dieci gambeli ne danno uno di bando, che tollendone dieci se n’ha undeci, che tale è l’usanza, credo io per portare con quello da poter governar gli altri. Pigliassemo tre bastasi, che sono usi andare in quel viaggio, a cinque ducati per ciascun di loro, e sono obligati a servirci sino in Aleppo, di modo ch’eravamo benissimo serviti senza aver fastidio alcuno: come la caravana metteva giù, il nostro pavione era dei primi drizzati. Fa la caravana poco viaggio al giorno, come saria intorno a venti miglia; si lieva due ore inanzi giorno e mette giù intorno alle diecinove. Avessemo ventura che nel nostro viaggio piove alcune volte, onde non ne mancò mai acqua, e quasi ogni giorno trovassemo buona acqua, benché non potevamo patire perché ne portavamo sempre un gambelo carco per ogni rispetto; ma in tutto quel deserto non avessemo bisogno né d’acqua né d’altro che in quelle parti si trovi, percioché venivamo ben forniti d’ogni cosa. E ogni giorno mangiavamo carne fresca, percioché venivano con noi molti castrati coi pastori che li governavano, e i castrati avevamo comprati in Babilonia e ogni mercadante aveva bollato i suoi col suo bollo, e ai pastori per la lor fatica si dà un maidino per ogni castrato ch’essi amazzano, percioché essi erano obligati d’amazzarli e governarli, e oltra il maidino per castrato avevano anco le teste, le pelli e l’interiora d’essi castrati da loro amazzati, li quali erano tenuti di amazzarli quando gli era dai mercadanti ordinato. Per la nostra compagnia dei sei detti di sopra comprassemo venti castrati, e quando giungessimo in Aleppo n’erano ancora sette vivi: son questi castrati molto grandi e grassi e però, con tutto che fossemo tanta gente, un castrato ne faceva due giorni; ed è una usanza nelle caravane, che le compagnie s’imprestano la carne una con l’altra, per non portarsi dietro la carne cruda per viaggio, e s’accommodano tra loro che chi amazza un giorno un castrato l’impresta mezzo, e il giorno seguente gli è restituito.

Da Babilonia in Aleppo sono quaranta giornate di strada, delle quali se ne fa trentasei per il deserto, che non si vede se non pianura aperta e disabitata e senza segnale alcuno di strada: caminano inanzi i peotti e la caravana gli seguita, ed essi sanno le poste dove s’ha da fermarsi, nelle quali sono pozzi; e quando essi si fermano, tutta la caravana mette giù. Dico che sono trentasei giornate per il deserto perché, da Babilonia partendosi, si camina due giorni per luoghi abitati, sino che si passa il fiume Eufrate; e similmente due giornate vicino ad Aleppo si trovano villaggi e luoghi abitati dagli uomini. Va sempre con la caravana un capitano che fa giustizia, e la notte si fanno guardie intorno alla caravana. Giunti in Aleppo, andassemo a Tripoli, ove messer Fiorin e messer Andrea di Polo e io, con un frate di San Francesco, noleggiassemo una barca per andare in Ierusalem. Partiti di Tripoli per il Zaffo, fossemo dai venti contrarii trasportati in Cipro al capo delle Gatte, di dove traversassemo il golfo e andassemo al Zaffo, dal qual luogo a Ierusalem è una giornata e mezza per terra. Ordinassemo che la barca qui n’aspettasse sino alla nostra tornata e andassemo in Ierusalem, ove stessemo quattordeci giorni, per veder quei luoghi santi commodamente. Indi tornati al Zaffo, andassemo a Tripoli, e qui s’imbarcassemo su la nave Ragazzona, e giungessimo con l’aiuto divino dopo tanti travagli finalmente a Venezia adì cinque di novembre del millecinquecentoottantauno.

Se fosse alcuno ch’avesse animo d’andare in quelle parti dell’India, non si sbigotisca nel leggere gli travagli grandi e piccioli che io vi ho passati, percioché io mi posi a sbaraglio in molte cose, per esservi andato molto povero, percioché io mi parti’ di Venezia con mille e ducento ducati investiti in mercanzie. E quando fui in Tripoli mi ammalai in casa di messer Regulo degli Orazii, e il detto messer Regulo di mio ordine mandò la mia roba con una caravana picciola che andava in Aleppo: la caravana fu robata e tutta la mia roba si perse, da quattro cassoni di diversi vetri in fuora, che mi erano costati settanta ducati, li quali fur poi da me trovati rotti e anche in essi molti dei vetri rotti, percioché, pensandosi i ladri che fosse altra mercanzia, gli avevano rotti per cavarla, ma trovando esser vetri la lasciarono stare. E con questo solo capitale di questi pochi vetri mi posi a far il viaggio dell’Indie, e con cambii e recambii e fatiche e viaggi Dio mi aiutò che mi ridussi in buon capitale. Non voglio restare di ricordare a quelli che sono per far questo viaggio il modo di conservar la lor facoltà in caso di morte, che sicuramente sarà data ai loro eredi, secondo ch’essi averanno ordinato. In tutte le città ch’hanno i Portoghesi in India è una scuola che chiamano la scuola della Santa Misericordia, le quali tutte si rispondono una con l’altra e hanno gran privilegi, né il viceré può far contra gli ordini loro. Bisogna per tanto che, quando la persona è giunta in India in una di queste città, facci in sanità il suo testamento e lasci la scuola della Santa Misericordia sua commissaria, con lasciargli qualche elemosina per le fatiche loro, e, fattasi far una copia del testamento, bisogna che sempre la porti con sé, e massimamente passando i mercadanti di là dall’India in paesi de’ Mori e de’ Gentili, nei quai viaggi sempre è sui vascelli un capitano maggior portoghese per amministrare giustizia e ragione tra i Cristiani: e ha anco questo capitano autorità di ricuperare le facoltà dei mercadanti che muoreno in quelli viaggi, che non hanno fatta questa provisione, se bene in tal caso per i più questi capitani sogliono mangiare o giuocare queste facoltà, che poco o niente ne tocca agli eredi. Va in questi istessi viaggi sempre qualche mercadante commissario di questa scuola della Santa Misericordia, con ordine che se muore qualche mercadante ch’abbi il suo testamento e che la scuola sia commissaria, di ricuperare la sua facoltà e mandarla in India alla Santa Misericordia, e ivi la scuola vende dette robe e manda i dinari per lettera di cambio alla scuola della Santa Misericordia di Lisbona, insieme con la copia del testamento; e di Lisbona fanno quelli intendere in qual parte se sia della cristianità agli eredi del tale che, portando le lor fede d’esser quelli, vadino a pigliare la valuta dei suoi beni. Di modo che non si perde cosa alcuna, se non quelli che moreno nel Pegu, che perdono il terzo della sua facoltà, per antico costume di quel regno che, qualunque forestiero vi muore, il re con gli suoi ministri restino eredi d’un terzo dei suoi beni; né mai si ha trovato che sopra questo sia stata usata fraude o fatto ingiuria ad alcuno. Ho veduto io molti ricchi che, doppo l’essere stati molti anni nel Pegu, nella loro decrepità hanno voluto andare a morire nelle patrie loro, e si sono con tutte le loro facoltà partiti, senza esser punto molestati overo impediti.

Vestono nel regno del Pegu tutti ad una guisa, così i signori come il popolo minuto: vi è solo differenza nella finezza de’ panni, che sono tele di bombaso più fine una dell’altra e di più prezzo. Portano prima una cavaia di tela di bombaso bianca, che serve per camisa, e si cingono poi un’altra tela di bombaso depinta di quattordeci braccia, la quale tra le gambe si ravoltano; portano anco in testa una tocca, picciola di tre braccia di tela, rivolta a guisa d’una mitria; alcuni anco vanno senza tocca, ma portano una zazzaretta la quale non gli passa sotto la ponta dell’orecchia, facendosela da quello in giù tosare. Vanno tutti scalzi; vero è che i signori mai non vanno a piedi, ma o si fanno portare in un solaro da otto uomini, con gran riputazione, con un sombrero tessuto di foglie che gli difende dal sole e dalla pioggia, o vanno a cavallo coi piedi nudi nelle staffe. Le donne tutte, siano di che condizione esser si vogliano, portano una camisetta sino alla centura, di dove sino al collo del piede si cingono un panno di tre brazza e mezzo aperto dinanzi e tanto stretto, che non possono far il passo che non mostrino le coscie quasi fino in cima, quantunque caminando fingono di voler con le mani tenersi coperte, ma non è possibile per la strettezza del panno. Dicono che fu questa invenzione d’una regina, per rimuovere gli uomini dal vizio contra natura, che molto vi s’usava, e incitarli con questa vista ad attendere alle donne; le quali anch’esse vanno scalze, con le braccia piene di cerchii d’oro carichi di gioie e le deta di preziosi annelli, con i capegli rivolti intorno alla testa, e molte di loro portano su le spalle un panno, che serve come per ferraruolo. E per compimento di quanto ho sin qui scritto, dico che quelle parti dell’India sono paesi molto buoni, percioché e facil cosa di mente fare assai; solo bisogna essere e farsi conoscere per uomini da bene, perché a tali non mancano maneggi da fare assai bene, ma chi è vizioso non vi vada altramente, perché sarà sempre povero e mendico.

Soscrizione
Io, don Bartolomeo Dionigi da Fano, da un memoriale del soprascritto messer Cesare ho cavato il presente viaggio e fedelmente in questa forma disteso, che, letto più volte dall’istesso autore, come vero e fedele, ha voluto a commune delettazione e utile al mondo publicarlo.