Andrea Corsali. L’esploratore amico di Leonardo Da Vinci, scomparso in Oriente

La Croce del Sud, che fu schizzata su una lettera dal Corsali

CORSALI, Andrea. – Non si hanno notizie precise sulla sua nascita e sulla sua morte. Fu astronomo, cosmografo e navigatore; intimo di casa Medici, visse certamente a Firenze nei primi anni del sec. XVI. Sappiamo che il 6 ott. 1514 Leone X, non ignorando l’imminente viaggio del C. nelle lontane Indie, gli dette una lettera commendatizia, scritta da Pietro Bembo, allora segretario del papa, e indirizzata “Davidi regi Abissinorum”, il mitico Prete Gianni, meglio conosciuto come Lebna Dengel, della dinastia Amhara, re d’Etiopia dal 1508 al 1540. Sappiamo, ancora, dal navigatore Giovanni da Empoli, nella lettera scritta il primo gennaio 1517 dall’India al vescovo di Pistoia Antonio Pucci, che il C. era “uomo certamente di ogni fede degno, per essere litterato, e che ha cognizione assai, quanto fa di bisogno a questi avvisi, e della astrologia e della cosmografia; el quale assai tempo ha consumato utilmente a ricercare questi mari e terre et insule di qua, e datone di tutto perfettamente buon conto: talmente che io tengo per cosa certa, che altro meglio di lui non possa scrivere, per le molte buone qualità che sono in lui”. Infine, in un manoscritto cartaceo della prima metà del Cinquecento, conservato alla Biblioteca nazionale di Firenze (Magl. XIII, 84, c. 58 r), un religioso abissino, certo Abbā Tomās, asserisce che nel maggio 1524 nella capitale dell’Etiopia il C. svolgeva l’attività di tipografo: “a Barara… [Ifat] dove al presente si ritrova Andrea Corsali fiorentino che va stampir Libri Caldei in ditta terra”.

Questa è l’ultima notizia sicura che ci è giunta del C. che presumibilmente trascorse il resto dei suoi giorni in Etiopia perché agli stranieri non era consentito lasciare il paese una volta che avevano avuto la ventura di entrarvi.

Il C. fu autore di due lettere: la prima inviata da Cochin, in India, il 6 genn. 1515 a Giuliano de’ Medici; la seconda da una località ignota dell’Oriente a Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino il 18 sett. 1517. Queste due lettere furono prontamente stampate per diffondere le avvincenti notizie sulle terre visitate dal C.: la prima, Lettera allo illustrissimo Iuliano de Medici venuta dell’india da Io. Stephano di Carlo da Pavia l’11 dic. 1516, l’altra Lettera allo ill. Laurentio de’ Medici ex India venne stampata sempre in Firenze nel 1518, ma è priva di illustrazioni e di indicazioni tipografiche. Degno di nota appare il frontespizio della prima lettera, illustrato da un cerchio con contorno di due nuvolette e numerose stelle che vogliono raffigurare la visione del cielo australe così come apparve al C., appena superato il Capo di Buona Speranza “due nugolette [erano le nubi magellaniche, ammassi di stelle extragalattiche] di ragionevol grandezza, ch’intorno al polo Antartico, continuamente hora abbassandosi, hora alzandosi in moto circulare camminano, con una stella [secondo Humboldt è la Beta dell’Idra] sempre nel mezzo… sopra di queste apparisce una croce maravigliosa [la costellazione della Croce del Sud] nel mezzo di cinque stelle, che la circondano con altre stelle… è di tanta bellezza, che non mi pare ad alcuno segno celeste doverla comparare”.

Con la prima lettera il C. annunciò a Giuliano de’ Medici il successo del suo viaggio in India, raccontò come esso era avvenuto e descrisse tutte le cose interessanti che aveva visto. Salpato da Lisbona e superato agevolmente, col favore del vento, il Capo di Buona Speranza, la prima terra avvistata fu il Mozambico, già dominio portoghese, abitata da maomettani e da “huomini bestiali”: qui incrociò due navi portoghesi che provenivano dall’isola di San Lorenzo [oggi Madagascar] “che sta a fronte di Monzambiqui… copiosa d’infiniti armenti e di ogni sorte d’animali silvestri… di risi e altri semi… argento, ambracan [ambra grigia], gengiovo [zenzero], limoni, cedri, aranci… di molti fiumi… di porti sicuri”. Ancora quasi un mese di navigazione e il C. sbarcò a Goa, conquistata nel 1510 dal condottiero portoghese Alphonso de Albuquerque e da questo trasformata in una poderosa fortezza. Goa era abitata da popolazioni indigene “di bell’aspetto e di color lionato” e dai Nairi, “huomini di guerra”, i migliori di tutta l’India che “con un panno di cottone si copron le parti vergognose del corpo”. Questa terra fertilissima era ricca di animali domestici e selvatici, in particolare di tigri, coccodrilli e “serpenti d’incredibil grandezza”. Fiorentissimo era il commercio dei cavalli, importati da Ormūz, sul Golfo Persico, che venivano venduti a tutte le popolazioni dell’Indostan. I Portoghesi, dominatori di questi mari, avevano gravato di forti dazi questo commercio sicché fruttava moltissimo all’erario: nel solo 1514 30.000 ducati. Il C. lamentò la distruzione, da parte dei Portoghesi, di una pagoda situata nell’isola Dinari (nei pressi di Goa), mirabilmente costruita e ornata con meravigliose figure in pietra nera. Partito da Goa approdò nella terra di Batticala (dovrebbe corrispondere alla regione circostante l’odierna città di Mangalore), quindi nella città di Cannanore ove era una munitissima fortezza portoghese ed infine a Calicut, dal clima mitissimo, capitale del regno Malabari, fortemente decaduta perché i Portoghesi avevano dirottato il commercio delle spezie nelle città di Cochin e Cannanore, roccaforti e basi di spedizione per Lisbona. La politica imperialista portoghese di supremazia assoluta nei mari caldi e il conseguente blocco navale del Mar Rosso e del Golfo Persico, che non permetteva il flusso delle merci verso il Mediterraneo, attraverso le tradizionali vie di comunicazione per Aden, La Mecca e Il Cairo, aveva messo in crisi Venezia che deteneva, in Europa, il monopolio del commercio delle spezie.

Il C. descrisse, poi, la terra di Cambaia (Cambay, a est della foce dell’Indo) produttrice di “indaco, storace liquido [balsamo medicinale], corniole, calcedoni” e abitata dai Guzzaratti (popolazione che viveva nell’odierno Gujarāt), vegetariani e abilissimi mercanti. Descrisse anche l’isola di Zeilan (Ceylon), ricchissima di “zaffiri perfetti, rubini, balasci [specie di rubino], topatij, giacinti [zircone], cannella e elephanti”. Criticò, quindi, Tolomeo che aveva mal localizzato la Taprobana (nome con cui era noto ai Greci e ai Romani l’isola di Ceylon); narrò del viaggiatore italiano Piero Strozzi che in una non meglio identificata terra di Paliacatte, ricca di pietre preziose, acquistò un diamante di 23 carati. Descrisse, infine, le terre ad oriente dell’India: Malacha (la penisola di Malacca), l’isola di Sumatra e la Cina, meta nello stesso anno del viaggiatore fiorentino Giovanni da Empoli, esportatrice di “Reubarbaro, perle, stagno, porcellane e sete, drappi di ogni sorte lavorati, damaschi, rasi, broccati di molta perfettione”.

Il 18 sett. 1517, due anni dopo aver scritto la lettera a Giuliano de’ Medici, che nel frattempo era morto, il C. scrisse la seconda lettera dove riferì di avere partecipato con l’armata portoghese a una spedizione militare contro il sultano d’Egitto che minacciava la supremazia portoghese sui mari e i loro possedimenti in India. La flotta mosse da Goa l’8 febbr. 1516, prima tappa l’isola di Soquotora (Socotra), abitata da pastori cristiani dal “capello lungo, nero e riccio” che vestono alla “moresca” e da curiosissimi camaleonti. Il 14 marzo furono ad Aden “porto e scala principale di Arabia e d’Etiophia”, ricco mercato delle “spetiarie, droghe medicinali, odori, tinte, gioie, panni di seta finissimi, di cotone e d’ogni qualità di mercantie orientali”. Ripreso il mare una tempesta causò il distacco, dal grosso della flotta, della nave su cui erano imbarcati il C. e l’ambasciatore etiope Mattheo di ritorno dal Portogallo e ciò “fu cagione anchora che gli Ambasciatori che noi levavamo per il Prete Ianni non andassero a lor cammino”.

La nave errò a lungo nel Mar Rosso e non poté rifornirsi d’acqua né all’isola di Camaran (Kamarān, lungo la costa dello Yemen del Nord), né all’isola di Suaché (Swakin, nel Mar Rosso, lungo le coste sudanesi) “dove i Christiani di Etiophia s’imbarcano per Gierusalem”; finalmente, dopo aver molto patito, la nave approdò a Dalaccia (isola Dahlak, di fronte a Massaua), dove la sete fu soddisfatta. Rimasero a Dahlak “isola di sano aere, bassa et sterile con certi colli e valli pieni di pruni e stecchi senza nessun arboro fruttifero” un mese intero; qui il C. raccolse interessanti notizie sul Prete Gianni, sul suo regno che secondo lui comprendeva, oltre all’Etiopia, tutte le terre sino alla Guinea portoghese sull’Oceano Atlantico. I sudditi del Prete Gianni erano cristiani usi al battesimo e alla circoncisione, che osservavano “le festività degli Apostoli et de Sancti moderni et de patriarchi et padri del vecchio testamento”.

Ripartiti e ricongiuntisi al grosso della flotta, in vista della città di Zidem (l’odierna Gidda), porto della Mecca, il capitano maggiore Lopo Soares decise di non dare battaglia. Il C. lamentò, quindi, che pur essendo stato diverso tempo così prossimo all’Etiopia, non gli fu consentito di sbarcare in quella mitica terra perché nell’isola Kamarān sopraggiunse la morte dell’ambasciatore portoghese che accompagnava quello etiopico. Furono a Kamarān sino al 12 giugno e dopo aver distrutto la fortezza eretta dai Mamelucchi, il 13 giugno si diressero verso Seyla, nel Nord della Somalia, importante centro di interscambio commerciale tra l’Etiopia cristiana e il mondo musulmano, che fu saccheggiata e rasa al suolo dall’armata portoghese. Il C. riprese il mare su una nave araba e dopo aver costeggiato il Sudest della penisola arabica, visitò l’isola di Ormūz, in posizione strategica all’imbocco del golfo Persico; qui raccolse interessanti notizie sulla Persia e sui suoi abitanti, che sebbene professassero l’islamismo (setta degli sciiti), spesso erano in lotta con gli altri popoli della stessa fede perché “la differenza ch’è fra Turchi e Mori d’Arabia e d’Africa procede dalli compagni che furno di Maumetto… e che solamente Aly, che fu genero di Maumetto, fu ambasciador e propheta di Dio… e che tutti gli altri furono falsi”.

Lasciata Ormūz, dopo trenta giorni di navigazione, il C. ritornò al porto indiano di Goa e quindi a Cochin “dove arrivammo nel mese di Decembre, e qui finimmo un’anno giustamente dal dì che di là eravamo partiti e passati alli travagli soprascritti”. Il C. concluse questa seconda lettera proponendosi di trascorrere un anno col viaggiatore fiorentino Piero Strozzi alla “casa di San Thomaso, di qua distante leghe 250”, ripromettendosi, poi, di recarsi in una regione che dovrebbe corrispondere all’odierna Birmania “con certi Armeni Christiani miei amici determino di transferirmi per la terra ferma e spendere cinque o sei mesi in vedere…” per poter riferire a Lorenzo de’ Medici ulteriori notizie tramite Piero Strozzi che stava per rientrare in Italia.

Il C. fu uno dei primi viaggiatori europei a descrivere con acume e col tipico interesse dello studioso il mondo, allora ancora fantastico ed esotico, dell’Oriente. La sua figura è certamente misteriosa: non sappiamo, infatti, bene chi fosse né quale fu il vero motivo che lo spinse ad intraprendere il viaggio verso le lontane Indie, né, ancora come gli sia riuscito di imbarcarsi su navi da guerra portoghesi che svolgevano missioni evidentemente segrete. A spingerlo al viaggio non fu solo il desiderio di riferire alla famiglia Medici, cui era molto devoto, precise notizie su terre poco conosciute, ricche dì spezie e di oggetti preziosi, affinché se ne potessero avvantaggiare commercialmente, né quello di raggiungere l’Etiopia cristiana di Lebna Dengel per favorire una alleanza politico-religiosa tra la Chiesa di Roma e il regno etiope contro la strapotenza musulmana, in nome di papa Leone X, anch’egli di casa Medici. Dalle due lettere del C. emerge con chiarezza che fra i moventi dei suoi viaggi fu prevalente quello scientifico. La sua notevole cultura, la descrizione minuziosa ed appassionata delle terre visitate e delle popolazioni incontrate, l’uso dell’astrolabio e di altri strumenti scientifici per lo studio delle coordinate geografiche dei luoghi attraversati, stanno a confermare che il C. non era mosso da semplici interessi mercantili. Tra i suoi meriti: l’aver individuato l’errore di Tolomeo che aveva mal calcolato la distanza tra l’Africa e l’India; l’aver cercato di distinguere l’isola di Ceylon dall’isola di Sumatra che spesso venivano confuse e l’essere stato, infine, con i viaggiatori Cadamosto, Pigafetta e Vespucci tra i primi ad osservare e a studiare il cielo australe. Una delle prime citazioni della Croce dei Sud e delle nubi magellaniche è nelle sue lettere, ma in seguito la scoperta delle nubi magellaniche fu erroneamente attribuita al Pigafetta come avvenuta nel 1521, cioè sei anni dopo essere state descritte dal C. nella lettera a Giuliano de’ Medici.

(Fonte: Dizionario Biografico Treccani)

 

 

 

 

 

Due lettere dall’India di Andrea Corsali

 

Discorso sopra la prima e seconda lettera di Andrea Corsali fiorentino.

Essendone pervenute alle mani queste due lettere di Andrea Corsali, nelle quali si narra del voler condur alli porti dell’Etiopia un ambasciador del Prete Ianni nominato Matteo con un altro del re di Portogallo detto Odoardo Galvan, e volendole fare stampar, la buona ventura volse che le mostrai al magnifico messer Iulio Sperone, gentiluomo padoano, non meno ornato di buone lettere che di somma cortesia, il qual mi disse che altre volte avea inteso da un gentil cavaliere portoghese che avea studiato in Padoa, nominato il signor Damian Goes, come il viaggio che fecero li sopradetti due ambasciadori alla corte del detto Prete Ianni era sta’ scritto particolarmente da don Francesco Alvarez, che fu in compagnia loro; e che queste lettere del Corsali, stampandole avanti detto viaggio, iscusariano per un proemio, che daria gran luce e intelligenza a chi lo leggesse dapoi, perciò che molte cose precedenti a quelle dal detto don Francesco lassate si narrano in dette lettere; e che la copia di tal viaggio si trovava appresso al prefato signor Damiano nell’estreme parti di Olanda, e sapeva certo che, per sua natural gentilezza e cortesia, a chi la mandasse a dimandare esso liberamente la daria. Per la qual cosa, accioché a sì buona opera non s’interponesse dilazione, messer Tomaso Giunta, il qual per beneficio di studiosi non ha mai sparagnato né sparagna né danari né fatica, deliberò di mandarla a torre. E dapoi che l’ebbe avuta e letta, gli fu detto che ‘l libro di tal viaggio si trovava stampato in la città di Lisbona di ordine del serenissimo re di Portogallo, onde di nuovo fu necessario di mandare a pigliar ancor quello; e avendolo voluto conferire con questa copia, trovai mancarvi il proemio fatto per il detto don Francesco, e in molti luochi molte righe di cose degne d’intelligenzia, oltra gli errori de’ nomi di molti luochi e dignità di persone, sì come chi vorrà leggere questo nostro tradotto in lingua italiana e il portoghese potrà più particolarmente giudicare. E acciò che ‘l filo di tal istoria non fusse interrotto, ma si leggesse continuato in tutte le sue parti, il prefato messer Tomaso, oltra le lettere del Corsali poste, come abbiamo detto, per proemio avanti di quella, ha voluto nel fine come epilogo aggiugnervi la obedienzia che ‘l prefato don Francesco prestò al sommo pontefice papa Clemente settimo nella città di Bologna del 1532 per nome del prefato Prete Ianni, con le lettere che da quello furono scritte a sua Beatitudine.

E per non mancar ancor noi, secondo le deboli forze del nostro ingegno, di far più chiaro e più aperto il principio e causa di tal viaggio, abbiamo pensato non dover esser ingrato alli lettori se discorrendo si rinoverà la memoria di molte cose pertinenti a quello per molti anni per lo adietro successe, cavate dall’istorie portoghesi, dove parlano della vita e fatti delli loro re e principi, e da un libro del prefato signor Damiano. E per tanto è da sapere che ‘l primo che cominciò a far discoprir le marine attorno l’Africa fu lo illustre infante don Enrico di Portogallo, che vi mandò le sue caravelle, e vivendo lui arrivorono quasi appresso la linea dell’equinoziale. Dapoi, per ordine d’altri re, e principalmente del re don Giovanni secondo di questo nome, le giunsero fin al capo di Buona Speranza, il qual fu chiamato con questo nome percioché tutti quelli che avean gli anni passati navigato drieto quella costa tenevan per fermo ch’ella corresse verso mezzodì fin all’altro polo, e disperavan di poter trovar via di passare nell’Indie orientali: ma giunti che furon a detto capo e vedutolo voltar verso levante, lo chiamaron di Buona Speranza.

Questo re fu il primo al qual fu portato la mostra di certo pepe cavato del regno de Benim sopra l’Etiopia, e fece abitar l’isola de S. Tomé, che era disabitata e piena di bosco, e vi mandò infiniti giudei a starvi e lavorar i zuccari. Ed essendo di sublime ingegno e non pensando mai ad altro se non come potesse far navigar le sue caravelle nell’India orientale, deliberò mandar per terra suoi messi a scoprir le marine dell’Etiopia, Arabia e India, della immensa grandezza e ricchezza della qual era molto ben informato e da diverse persone che vi erano state e da molti libri degli antichi, e massimamente da quello del magnifico messer Marco Polo, gentiluomo veneziano, il qual fu portato in Lisbona dall’illustre infante don Pietro, quando egli fu nella città di Venezia: e dicono l’istorie portoghesi che gli fu donato per un singular presente e che ‘l detto libro, dapoi tradotto nella loro lingua, fu gran causa che tutti quelli serenissimi re s’infiammassero a voler far scoprir l’India orientale, e sopra tutti il re don Giovanni. Onde, per far l’effetto sopra detto, trovò due uomini portoghesi che sapevan la lingua araba, e dette carico ad un di loro di andar ambasciador a quel gran principe de’ Negri detto il Prete Ianni, e all’altro di scoprir prima le marine dell’Etiopia, e poi di andar a veder l’isola di Ormus e li regni e città della costa dell’India, dove nascono i pepi e gengevi. Alfonso di Paiva, che era un di loro, giunto alla corte del detto Prete Ianni moritte, e in suo loco vi andò l’altro, che si chiamava Pietro de Covillan, il qual però prima era stato a discoprir la costa di Calicut e di tutte quelle marine, e de lì passato poi sopra l’Etiopia e arrivato fino a Cefala, e avea dato aviso al prefato re don Giovanni di tutto quello che egli avea scoperto, come più particolarmente si leggerà nel viaggio che scrive il prefato don Francesco Alvarez: e per questa causa non ne voglio dir altro.

E stando questo Pietro di Covillan nella detta corte, dapoi passati molti anni (conciosiacosaché mai non poté aver licenzia di partirsi), essendo morto il detto re don Giovanni secondo, successe il re don Emanuel, il qual fece passar le sue caravelle intorno tutta l’Etiopia, e giunsero in l’India, dove per virtù di molti suoi capitani, uomini eccellentissimi nell’arte militar, ebbe molte vittorie nelle parti del mar Rosso, sino Persico e nella India, e molte città e isole furono ridotte a sua obedienzia, e furono mandati diversi ambasciadori alla corte del detto Prete Ianni, che allora era fanciullo di anni undici, nominato David. E di tanta efficacia fu la fama di queste vittorie, che commosse la regina Elena, ava del detto re David, la qual era quella che ‘l governava, ch’ella deliberò al tutto di mandar un suo ambasciador in Portogallo, e trovò un cristian armeno nominato Matteo, uomo pratico e che sapeva diverse lingue, e per darli maggior credito volse che vi andasse seco un giovene negro abissino. Costoro, imbarcati in un porto del mar Rosso, se n’andorono in India alla città di Goa, nella qual era il signor Alfonso Dealburqueque vice re, il qual li raccolse graziosamente e, fattili montar sopra le sue caravelle, li mandò a Lisbona, dove giunti alla presenza del re esposero la loro ambasciata, e furono interpretate le lettere della regina Elena, che dicevano in questo modo:

Lettera della regina Elena, ava del re David Prete Ianni imperator de’ Negri, scritta ad Emanuel re di Portogallo nell’anno 1509.

“Nel nome di Dio Padre e Figliuolo e Spirito Santo, che è un solo in tre persone. La salute, grazia e benedizion del Signor nostro e Redentor messer Iesù Cristo, figliuolo di Maria Vergine, nasciuto nella casa di Bethleem, sia sopra il diletto fratel nostro cristianissimo il re Emanuel, dominator del mare e vincitor de’ crudeli e incredibili Mori. Il Signor nostro Iddio ti dia ogni buona fortuna e ti doni vittoria de’ tuoi nimici, e tutti i tuoi regni e paesi, per i devoti preghi de’ nonzii del Redentor messer Iesù Cristo, cioè li quattro evangelisti san Giovanni, Luca, Marco e Matteo, da ogni canto siano prolungati e istesi, e le loro sante orazioni li conservino.

Ti avisamo, dilettissimo fratel nostro, esser venuti a noi da quel tuo gran capitano Tristan de Cugna duo nonzii, delli quali uno si chiamava Giovanni, che diceva esser prete, e l’altro Giovan Gomez, a dimandarne vittuarie e soldati. Per il che ne è parso di mandar questo nostro ambasciador detto Matteo, fratello del nostro servizio, con licenzia del patriarca Marco, che ne dà la benedizion quando mandamo alcun prete in Ierusalem, conciosiacosaché egli sia nostro padre e di tutti li nostri paesi, e colonna della fede di Cristo e della santa Trinità. Questo nostro ambasciador per nostro ordine ha fatto intender a quel gran capitano delli vostri, che per la fede del nostro Salvator messer Iesù Cristo combatte in la India, come noi siamo pronti a mandarli vittuarie e soldati, se gli sarà bisogno, conciosiacosaché abbiamo inteso il soldan principe del Caiero metter insieme una grande armata per venir contra li vostri eserciti, non per altro se non per vendicarsi delle ingiurie e danni (sì come noi sapemo) che per li capitani delle vostre genti che avete nell’India gli sono stati fatti, li qual vostri capitani il Signor Iddio per la sua santa bontà ogni giorno di più in più si degni di far prosperare, acciò che finalmente tutti quelli che non credono siano del tutto in tutto posti sotto il giogo. Noi per tanto contra gli assalti di questi tali siamo per mandar buon numero di soldati, che staranno dove è il stretto del mar della Meca, cioè all’isola di Bebbelmandel, o veramente, se vi parerà più commodo, andaranno al porto del Zidem over al Tor, accioché finalmente si ruini e levi via questa sorte di Mori e increduli dalla faccia della terra, e che li presenti e doni che si portano al santo Sepolcro nell’advenire non siano devorati da’ cani.

Al presente è giunto il tempo promesso, il qual (come dicono) messer Iesù Cristo e la sua madre Maria hanno predetto, cioè che negli ultimi tempi era per nascer nelli paesi de’ Franchi un certo re, che levaria via tutta la generazion de’ barbari e Mori: e questo veramente è il tempo presente, il qual Cristo promesse alla benedetta sua madre dover essere.

Tutto quello veramente che vi dirà l’ambasciadore nostro Matteo, reputate che venga come dalla nostra propria persona, e dategli fede, percioché è un de’ principali della nostra corte e per questo ve l’avemo voluto mandar. Avremmo ben dato il carico di queste cose alli vostri messi, quali ne avete mandato, ma dubitammo che le faccende nostre secondo il voler nostro non vi fussero esposte.

Mandiamo per questo nostro ambasciador Matteo una croce, fatta senza dubbio alcuno di un pezzo del legno nel qual il Salvator nostro messer Iesù Cristo fu crocifisso in Ierusalem, di donde il pezzo di questo legno santo n’è sta’ portato: e del detto ne abbiamo fatto far due croci, delle qual l’una è restata appresso di noi, l’altra abbiamo dato a questo nostro ambasciador, ed è attaccata con uno anelletto d’argento.

Oltra di questo, se a voi piacesse di dar le vostre figliuole alli nostri figliuoli, over nostri figliuoli dar alle figliuole vostre, questo sopra tutto ne saria molto grato, e a tutti duo utile, e principio di una lega fraternal, perché veramente questo astringersi con nozze con voi sì nel tempo presente come nell’advenir grandemente desideriamo.

Nel resto la salute e grazia del nostro Redentor messer Iesù Cristo e della nostra santa Madonna Maria Vergine si estenda e sopra voi e sopra li figliuoli e figliuole vostre e di tutta la vostra casa. Amen.

Oltra di questo vi avisiamo che, se vorremo congiunger li nostri eserciti insieme per far guerra, noi averemo forze bastanti, mediante l’aiuto divino, di levar via tutti li nimici della nostra santa fede. Ma li nostri regni e li nostri paesi sono posti fra terra, che in alcuna banda non potemo venir sopra il mare, sopra il qual noi non abbiamo potenzia alcuna, conciosiacosaché per laude di Dio voi sete in quello sopra ogn’altro potentissimo. Messer Iesù Cristo sia in nostro adiutorio.

Le cose veramente fatte per voi in India sono certamente più presto miracolose che umane, e se voi volesti armar mille navi, noi vi daremo vittuarie, e vi sumministraremo tutte le cose che saran di bisogno per detta armata abondantissimamente.”

Udita questa lettera dal re don Emanuel e dalli suoi consiglieri, stettero alquanto sospesi, perciò che gli parvero che le cose proferite in quella fossero troppo grandi, e per tanto che ella non fosse vera; dubitarono anche che costui non venisse mandato dalla detta regina, e di questa loro dubitazione ne fu ripiena tutta la corte. Nondimeno dapoi detto re, desideroso di continuar e accrescer più che fosse possibile l’amicizia di questa regina, per potersi servir delle forze e favor d’un regno tanto potente per riputazion delle cose sue nell’India e mar Rosso, elesse un suo ambasciador nominato Odoardo Galvan, il qual insieme con questo ambasciador Matteo con grandissimi presenti mandò con una sua armata in India, capitano Lopes Suarez. Giunto detto capitano in Cochin e messosi ad ordine di vettovaglie, deliberò di tornar verso il mar Rosso, per metter in terra detto Matteo e questo Odoardo Galvan. Allora, trovandosi in Cochin, Andrea Corsali montò sopra la detta armata e scrisse quanto in la seconda lettera si contiene, nella qual si legge che non poterono dismontar mai al porto di Ercoco della Etiopia sopra il mar Rosso, ma che, tornati all’isola di Cameran, vi morse Odoardo Galvan, e così per quello anno fu intermessa la espedizion del detto Matteo. Né più oltra scrive il prefato Corsali, nelle qual due lettere se vi saran degli errori, n’è causa il tristo esemplar che noi abbiamo avuto.

 

Lettera I

DI ANDREA CORSALI FIORENTINO ALLO ILLUSTRISSIMO SIGNOR DUCA GIULIANO DE’ MEDICI LETTERA SCRITTA IN COCHIN, TERRA DELL’INDIA, NELL’ANNO MDXV, ALLI VI DI GENNAIO.

Come nella navigazione passando la linea equinoziale furono in altura di gradi trentasette nell’altro emispero, a traverso di capo di Buona Speranza, dove viddono un mirabil ordine delle stelle nella parte del cielo opposta alla nostra tramontana.

Illustrissimo Signor, non potendo mancar a V.S. di quanto le promisi nel partirmi di costì, ho voluto farle questo poco di discorso per darle notizia del successo del mio viaggio d’India. E avvenga ch’ei non sia così copioso com’io sperava e che ‘l mio desio aria voluto, il che è causato per essere poco tempo ch’io mi trovo in queste parti, nondimeno non m’è parso restar di dirizzarglielo, dettandomi l’animo che V.S. lo debba pigliare con quel cuore che l’affezion mia e osservanzia ch’io le tengo ricercono, riserbandomi a tempo migliore di sodisfarle più compiutamente.

Dapoi che partimmo da Lisbona navigammo sempre con prospero vento, non uscendo da scilocco e libeccio, e passando la linea equinoziale fummo in altura di trentasette gradi nell’altro emispero, a traverso di capo di Buona Speranza, clima ventoso e freddo, ch’a quei tempi il sole si trovava ne’ segni settentrionali, e trovammo la notte di 14 ore. Qui vedemmo un mirabil ordine di stelle, che nella parte del cielo opposita alla nostra tramontana infinite vanno girando. In che luogo sia il polo antartico, per l’altura de’ gradi, pigliammo il giorno col sole e ricontrammo la notte con l’astrolabio, ed evidentemente lo manifestano due nugolette di ragionevol grandezza, ch’intorno ad essa continuamente ora abbassandosi e ora alzandosi in moto circulare camminano, con una stella sempre nel mezzo, la qual con esse si volge lontana dal polo circa undici gradi. Sopra di queste apparisce una croce maravigliosa nel mezzo di cinque stelle, che la circondano (com’il Carro la Tramontana) con altre stelle, che con esse vanno intorno al polo girandole lontano circa trenta gradi: e fa suo corso in 24 ore, ed è di tanta bellezza che non mi pare ad alcuno segno celeste doverla comparare, come nella forma qui di sotto appare.

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Della isola Monzambique, e da cui sia abitata la terra ferma e tutta la costa del mar Rosso fino a capo Verde. Nella costa non si trovano altre mercanzie che oro, che si porta a vendere alla mina di Cefalla, dove si trova ambracan e infinito avorio.

Cominciammo dipoi a tornare al cammino di tramontana, avendo vista di capo di Buona Speranza, e sorgemmo in Monzambiqui, isola sterile non molto grande, giunta con la terra ferma, posta in quindeci gradi disotto dal polo antartico, abitata da maumettani: di essa è signor il re di Portogallo, la qual non è per altra cosa buona se non per il porto, molto ben posto e accommodato alla navigazione d’India. La terra ferma è abitata da uomini bestiali, e parimente tutta la costa, e dallo stretto del mar Rosso fino a capo di Buona Speranza tutti sono d’una lingua, e da capo di Buona Speranza fino a capo Verde parlano differente da questi di Monzambiqui. In questa costa, cominciando a capo Verde fino al mar Rosso, non vi si trovano altre mercanzie che oro, che si porta a vendere a la mina di Cefalla, ch’è terra del re di Portogallo vicina di Monzambiqui, dove si truova alquanto di ambracan e infinito avorio.

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Della isola di San Lorenzo, e quanto sia abbondante d’armenti e d’ogni sorte di animali silvestri; dove si trova argento, ambracan, gengevo e garofani di miglior odore che quelli dell’India, e più altre cose, della qualità di quelle genti e dell’isola Oetabacam.

Stando in Monzambiqui, trovammo due navette di Portogallo che venivano dell’isola di San Lorenzo, che sta dentro al mare a fronte di Monzambiqui, delle grandi ch’a’ nostri tempi siano state discoperte. Essa isola dicono esser molto abbondante e copiosa d’infiniti armenti e di ogni sorte d’animali silvestri; trovasi anche gran quantità di risi e altri semi, di che questi dell’isola vivono. Vi si trova parimente argento, ambracan, gengiovo, meleghetta e garofani, non come questi d’India, che non sono tanto profittosi, ma di meglior odore e di forma di galla di nostra terra. Tien molto mele e canne di zuccaro, il qual non sanno oprare; evvi zafferano della sorte d’India, limoni, cedri, aranci in molta quantitade; e abbondante di molti fiumi e d’acque dolce, ed è copiosa di porti sicuri di mare. Le genti son bestiali, diversa lingua dagli altri di Monzambiqui, non tanto neri, ma col capo arricciato come son tutti quelli di essa costa. Li porti della marina signoreggiano i Mori, che con panno di cottone e altre mercanzie d’India comperano le mercanzie di questa isola, e così è nella costa di Monzambiqui. Dicono vicina a questa isola esservi un’altra isoletta detta Oetabacam, abbondantissima d’argento, e attesa la quantità che si vede in Monzambiqui e per tutta la costa, non poter esser di meno ch’in tutta perfezione: qual non è ancora stata scoperta da’ Portoghesi.

4
Come vicino all’India trecento miglia l’acque del mare si dimostrano come di latte, e donde causa che, in quella parte dell’India dov’è il mar profondo, si dimostra ora di color celeste, ora nero, ora verde.

Partimmo di Monzambiqui a nostro viaggio d’India, non ci scostando da tramontana e greco, per essere il nostro dritto cammino, e sempre andammo con vento in poppe, percioché in questa parte d’India viene sei mesi vento ponente e libeccio, che serve al venir in India, e di giugno a ottobre; gli altri sei mesi è greco e levante, che serve al tornar d’India. Fummo a Goa in venticinque giorni, che può esser da tremila miglia, con tanta prosperità pel favor del vento che nessun’altra navigazione in parte alcuna mi par miglior di questa. Qui passammo la seconda volta la linea equinoziale, tenendo il sole per zenit, senza far ombra in alcuna parte; e già tornati nell’artico polo, avemmo vista della Tramontana in sei gradi, ch’in menor altura in nessuna parte si puote vedere, rispetto a certe nuvole che, vicine all’orizzonte elevandosi, non lassono comprendere a nostra vista nessuna stella che in meno di sei gradi sia elevata, come più volte ne feci esperienza. Vicino all’India trecento miglia, l’acque del mare si mostran come di latte, che mi pare esser causato dal fondo, per esservi l’arena bianca. In questa parte d’India dove è il mar profondo, pigliando ora il color dal cielo dimostra celeste, e ora dalle nuvole par nero, e anco talvolta verde, quando non è tanto profondo: così puote questo color di latte dall’arena causarsi. Vedonsi anche infinite serpi, e per questi due segni conoscemmo esser nella costa d’India: questi serpi per la pioggia in tempo di verno della terra ferma sono nelle fiumare trasportate.

5
Della isola detta Goa, dove già Alfonso di Alburquerque fece edificar una terra fortissima, e dentro una fortezza. Della qualità e vestir di quelle genti; di frutti e animali di quel luogo del gran prezzo che quivi si vendono i cavalli. E come l’isola di Ormuz fu di già presa per il capitano maggiore, e quivi di ordine suo edificata una fortezza.

Con non poco piacere scoprimmo in tre giorni terra, e lungo la costa navigando, fu la prima scala nell’isola di Goa, che tien di circuito quindici miglia, posta in sedici gradi; ed è giunta con terra ferma, cinta da ponente dal mare, da settentrione e mezzogiorno dalla costa, da levante dalla terra ferma detta Paleacate, dalla qual corre una fiumara, ch’entrando in mare per due parti comprende detta isola. E di essa sono signori i Portoghesi, che già sono cinque anni che fu pigliata per forza d’armi dal signor Alfonso d’Alburquerque, dove furno morti gran numero de Mori e gli altri scacciati alla terra ferma. Dipoi egli fece edificare una bellissima terra di circuito di un miglio, da fortissimi muri e fossi circondata, piena di case, strade ordinate a nostro costume, e dentro di essa fece una fortezza, che parmi oggidì delle miglior cose che i Portoghesi tengono nell’India. L’isola è abitata da gentili, i quai, per esser da noi che da’ Mori meglio trattati, sono amici de’ Portoghesi e parziali. Qui truovasi grandissima quantità d’orefici, e li megliori che siano in tutta l’India.

Di quest’isola era prima signore il re della terra ferma ove è Paleacate, detto Idalcam del Sabaio, ch’è maumettano, di nazion turco, uomo bellicoso; e appresso d’esso vivono molti capitani della parte di Turchia. I naturali di questo regno sono uomini gentili, di bell’aspetto e di color lionato; le loro vestimenta sono a uso di Turchia, e massime di mercatanti, degli altri all’apostolica. Ivi sono i Bramini, a nostro modo sacerdoti; altri con un panno di cottone si copron le parti vergognose del corpo, e questi son detti Nairi, uomini di guerra, che sempre portano lance, archi, spade e targhe, e per combattere sono i miglior uomini d’India. Ivi la terra è fertilissima, e piena di frutti a nostro costume e della sorte che sono in India; è copiosa d’ogni animale, così domestico come silvestre. Trovansi nella terra ferma molti tigri e serpenti d’incredibil grandezza; nel fiume vivono certa spezie di cocodrilli, e alcuni di lunghezza di venti piedi, con le altre parti corrispondenti, i quai molte volte escono fuori dell’acqua, cibandosi d’animali ch’intorno al fiume si pascono. L’isola è di grandissimo tratto e ogni giorno va ampliando, per la gran quantità di cavalli che vengono d’Ormuz del sino Persico, e vendonsi a’ signori de Paleacati e del re di Narsinga; e fanno capo a dett’isola perché, s’altrove sbarcassino, i Portoghesi che sono signori del mare, con licenzia de’ quali si naviga, pigliarebbono le navi e il tutto saria perduto.

Arà forse V.S. ammirazione intender un cavallo ordinariamente a costume di nostra terra vendersi quattrocento ducati, cinquecento e anche settecento, e quando passa l’ordinario novecento, mille e duomila, per il che pagano al re, nell’entrare dell’isola, quaranta ducati d’oro per cavallo, e quest’anno il dazio ha renduto trentamila ducati. Per questa causa fu l’anno passato il capitan maggiore all’isola d’Ormuz, con varii stromenti bellici e con armata di venticinque vele e tremila uomini da guerra, la qual è posta nel sino Persico, e avendola presa d’accordo, uccise il governatore di essa, perché dal re d’Ormuz si era ribellato e avea ordinato tradigione, per tagliare a pezzi il capitan maggiore e bruciar l’armata. Or avendo il capitan maggiore ridotta la città a sua obbedienza, fece una fortezza, ch’oltre a molt’altre edificate per ordine suo nell’India, questa è la principale e di più importanza, perché al presente nessun mercatante persiano o d’Arabia Felice o armeno o sia d’altre parti che venga nel sino Persico, può levar cavalli all’India né portare spezie, se non fa capo a Ormuz, pigliando la securezza e pagando il dazio al re di Portogallo; e levando cavalli per crescere l’entrata di Goa, è necessario che di là gli lievi.

6
Della isola detta Dinari, dove si trovano molte antichità, e come quivi fu destrutto un tempio detto pagode, di maraviglioso artificio, con figure antiche di grandissima perfezione.

In questa terra di Goa e di tutta l’India vi sono infiniti edificii antichi de’ gentili, e in una isoletta qui vicina, detta Dinari, hanno i Portoghesi per edificare la terra di Goa distrutto un tempio antico, detto pagode, ch’era con maraviglioso artificio fabricato, con figure antiche di certa pietra nera lavorate di grandissima perfezione, delle quali alcune ne restano in piedi ruinate e guaste, però che questi Portoghesi non le tengono in stima alcuna. S’io ne potrò aver alcuna a mano così ruinata, la dirizzarò a V.S.,a fine ch’ella vegga quanto anticamente la scoltura in ogni parte fu avuta in prezzo.

7
Di una terra chiamata Batticala, nella quale, e ne’ luoghi vicini detti Onor e Brazzabor, nasce infinito gengevo, mirabolani, zuccaro e altre cose. Della terra nominata capo di Commari, da Tolomeo Pelura. Come il re di Canonor fu a visitar il capitano maggiore, e del presente li fece. Del re di Calicut, e come già convenisse col maggior capitano.

Dipoi partiti di Goa, navigammo lungo la costa sempre a mezzogiorno e arrivammo a una terra detta Batticala, per pigliar il tributo che essi pagano al re per poter navigare in questi mari. Di essa è signor il re di Narsinga, di legge gentile. Qui nasce, e in altri luoghi vicini detti Onor e Brazabor, infinito gengiovo, mirabolani, zuccaro, farro, riso, le quali mercanzie si caricano pel mar Rosso, per Adem e per Ormuz. E detta terra è in tredeci gradi; il mare tiene da ponente e la terra da levante, la costa da mezodì e tramontana. I naturali sono come quei di Goa e quasi d’una lingua. Sopra a Batticala vedonsi due montagne, dalla sommità delle quai nascon due rivi, i quai, per il dosso del monte scorrendo a basso verso ‘l mare, appariscono come due vie bianche battute, ch’è cosa mirabile a vederle. Qui i naturali si chiamano Conconi e Decani, e in Balagat e Commari; e lì vicino a Batticala comincia il paese del Malabari, dove nasce il pepe, differenti in lingua e parte in costumi da quei di Commari e di Goa. Il qual paese termina da mezogiorno a capo di Commari, secondo Tolomeo detto Pelura, e voltandosi a tramontana, nel sino Gangetico, a un loco detto Curumma e anticamente Messoli: il detto capo di Commari è in otto gradi e Curumma per ancora non so.

Di Batticala fummo a Cananoro, dove i Portoghesi tengono un castello munitissimo d’arme. Il re fu a visitar il novo capitano maggiore con duamila uomini nairi o più, con loro armi a costume di Goa, e presentò a esso capitano una collana d’oro ornata con molti rubini e perle, di mille ducati d’oro di valuta. Esso Canonoro è in XII gradi e mezo. Da Canonoro fummo a Calicut, principal terra e capo di tutto ‘l regno del Malabari. Il re chiamasi Cammurim, che vol dir imperatore, e nel vero, atteso i mirabili edifici publici e tempii e palazzi del re, e le private abitazioni di pietra (non come in altre parti di paglia), dimostra essere stato capo di tutta l’India, perché i mercatanti di tutto ‘l mar Oceano in queste parti orientali venivano a caricare di spezie e altre mercanzie, che d’altre terre dall’India in Calicut si conduceano. E ora, dapoi che i Portoghesi sono nell’India, hanno sempre caricato in Cochin e Canonor, perché da principio detti Portoghesi forno scacciati e morti in Calicut, e in Cochin dal re di esso ricevuti, il quale di subito fecero de’ primi re d’India. Questo re di Calicut ha sempre tenuto guerra con Portoghesi, fino a duo anni passati, a contemplazione di maumettani, i quali per il contrasto del re sono rimasi destrutti; e ultimamente, non tenendo già il rimedio, detto re si convenne col capitano maggiore e gli concesse che si potessero far fortezze nelle sue terre, ch’oggi tengono i Portoghesi. Esso re fu a visitare il capitan maggiore con più di quattromila Nairi o vero gentiluomini, co loro armi, lance, archi, targhe, e gli presentò una collana della sorte di quella del re di Canonoro, ma di più prezzo.

Questo paese del Malabari è molto temperato, senza freddo di nessun tempo o caldo, eccetto due ore del giorno, perché l’altro resto dal vento della notte sino al mezogiorno e dipoi dal vento del giorno è refrigerato. In questo paese parimenti non ci fu per nessun tempo peste. De’ costumi di essi e d’altre particularità il Nairo che condusse lo elefante arà informato V.S. a pieno, e però scorrerò il mio ragionamento.

8
Laude de’ Portoghesi, e d’alcune fortezze molto importanti per lor fabricate nell’India. Dell’isola di Ormuz e suoi confini; della natura e costumi de’ Guzzerati, mercatanti di Cambaia, nella qual terra nascono storace liquido, corniuole e calcidonii.

L’India tutta comincia dallo stretto del mar Rosso, per insino all’estreme regioni Sinare: è abitata parte da Mori, e da essi signoreggiata, e parte da Gentili, e parte da Portoghesi, i quali oggidì sono signori di tutto ‘l mar Oceano, cominciando da Lisbona all’India, e de’ mari particolari d’India, del sino Magno e Gangetico, del sino Persico e stretto del mar Rosso e mar Atlantico. E in queste loro conquiste ogni giorno si vanno ampliando, e in verità si può dire per le opere loro, conciosiaché sono tutti uniti insieme e parziali del lor re, animosi e audaci a mettersi in ogni impresa senz’alcun rispetto di robba o di vita, e hanno ingenerato tanto tremore in queste parti, che mi par difficile che per alcun tempo abbino ad essere damnificati. Primamente nessuno può navigare senza lor licenza, o senza pericolo di perder le navi e mercanzie, perché l’armata che tengono nell’India va navigando, scorrendo per tutte le parti: che ponno esser circa quaranta navili, computando navi, caravelle e galere. I quali, nell’India fabricati, son tanto forti che, attesa la debilità de’ navili dell’India, un solo si potria da tanti difendere ch’io non lo scrivo per non parer mendace: e per questo giudico per nessun tempo poter esser disbarattata tal armata, la qual navigando è sempre patrona di tutte le parti del mare e dei porti d’India. E perché in molte parti mancano le vettovaglie, né si possono da un loco all’altro condurre senza navigarle, per questa causa in queste parti orientali non c’è porto alcuno che, stando l’armata in piedi, non le renda obbedienza e lassi far fortezze e castelli in quelle parti che vorranno, come fino adesso ne hanno fatte nei più importanti luoghi dell’India: li quai tutti ha edificato il signor Alfonso d’Alburquerque, capitano passato, uomo a’ tempi nostri prudentissimo e audace, e in ogni impresa vittorioso.

La principal fortezza e importantissima è l’ultima, edificata in Ormuz l’anno passato, alla qual fanno capo tutti i mercanti persiani, turchi, armeni o di Arabia Felice, che vogliono con cavalli e altre mercanzie passare in queste parti per levare spezie. Il qual Ormuz è isola nel sino Persico, e rispetto allo stretto non possono questi mercanti passar, se non fanno capo a Ormuz per pagare i dazii e pigliar securtà di navigare. E posto detto Ormuz in ventisette gradi; da mezogiorno e da ponente tiene l’Arabia Felice, dove è lo stretto di Baharem, loco dove si pescano le perle, ed è divisa da quella parte della Persia che vicina con Ormuz da tramontana per il fiume detto Tigris. Della città di Tauris e della Persia e dell’altre regioni, venendo sino al mare, è signore siech Ismael, detto fra noi Sofì, il qual dentro per terra ferma confina col re di Sanmarcante, che credo sia la regione de’ Parti, In queste terre di Persia si trova il lapislazuli e le turchine. Da levante confina con la Carmania deserta, oggi detta Rasigut, abitata da corsali e latroni. L’altra fortezza tengono nell’isola di Goa detta di sopra.

Fra Goa e Rasigut, o ver Carmania, vi è una terra detta Cambaia, dove l’Indo fiume entra nel mare. È abitata da gentili chiamati Guzzaratti, che sono grandissimi mercatanti. Vestono parte di essi all’apostolica e parte all’uso di Turchia. Non si cibano di cosa alcuna che tenga sangue, né fra essi loro consentano che si noccia ad alcuna cosa animata, come il nostro Leonardo da Vinci: vivono di risi, latte e altri cibi inanimati. Per esser di questa natura, essi sono stati soggiogati da’ Mori, e di questi signoreggia un re maumettano, che tiene una pietra che, mettendola nell’acqua o in bocca, subito rimedia ad ogni veneno. In questa terra nasce indaco, storace liquido, corniuole, calcidonii in quantità grandissima, e di essi si lavorano manichi di daghe e pugnali eccellentissimi. Gli uomini sono olivastri, di grandissimo ingegno e artificio di tutte l’operazioni. Essa regione di Cambaia ha il mare verso mezodì, Rasigut o ver Carmania da ponente, Paleacate da levante, e da settentrione molto fra terra il re di Sanmarcante.

9
Del regno di Paleacate e suo re. Del paese di Malabari, di suoi signori e sue fortezze, dove Portoghesi caricano pepi e gengevi. Di cinque chiese maravigliosamente fatte, e per cui sono officiate. Della terra chiamata Paleacate, anticamente Salaceni, e della gran quantità e varietà di gioie che quivi nascono, e come si costuma di vender gli elefanti.

Il regno di Paleacate confina per terra ferma col re di Narsinga, ch’è gentile e principal re di tutta l’India, ed è il più ricco signore che sia di questa banda fino al mar, Batticala, Onor e Brazabor; e lassando il paese de Malabari, ch’è giunto con la marina, s’estende per terra ferma fino al sino Gangetico, dove è il signor de Coromandel, e Paleacate, di là dal capo di Commari, detto Pelura anticamente. Tre altre fortezze sono in detto paese de Malabari, cioè Canonor, Calicut e Cuchin, dove al presente i Portoghesi caricano pepi e gengiovi per Portogallo, né consentono che si carichino per altre bande, e massime per Adem e per la Mecca, a fine che non passino in Alessandria: al che tengono grandissima custodia, mandando ogn’anno allo stretto del mar Rosso armata, acciò non passino altre navi, e hanno fatto tal provisione che sarà necessario che di Venezia vadino a fornirsi a Lisbona.

I signori della terra de Malabari sono tutti gentili, e gli abitatori gran parte mori, altri giudei, altri cristiani di san Tommaso: e ancora sono in piedi certe chiese, che dicono esser fatte maravigliosamente. Una è posta vicina a Cochin cinque leghe, in uno luogo detto Elongalor; l’altra è posta in Colon: le quali sono officiate da certi Armeni che passano all’India alla cura di tai cristiani. L’altra è in Coromandel, principale di tutte, dove l’anno passato fu Piero d’Andrea Strozzi, che dice in essa esservi sepolto san Tommaso, e che ancor si vede un sepolcro antico di pietra, e a presso d’esso esservi un altro sepolcro d’un Etiope cristiano delle terre del Prete Ianni, ch’andava in sua compagnia, e che nelle parti della chiesa ci sono certi intagli con lettere, le quai egli non poté intendere. Dice anche esservi una forma d’un piede incavato in una pietra, di mirabil grandezza e fuori della natural moderna, che dicono essere stata fatta per san Tommaso miracolosamente. Piacendo a nostro Signor, egli tornarà costà fra un mese e levarammi seco, e però mi riserbo a un’altra volta a dare di ciò meglio il particolare a V.S. e anche ogn’altra cosa più chiara.

Vicino a Coromandel, detto Messoli anticamente, è un’altra terra chiamata Paliacatte, e anticamente Salaceni. In questa terra si trova grandissima quantità di gioie d’ogni sorte, che vengono parte di Pegu, dove nascono rubini, parte da un’isola che giace a riscontro del capo di Commari, che si chiama Zeilan, in altura della banda di mezzogiorno di gradi sei e di settentrione verso il sino Gangetico in otto gradi. Qui nascono la maggior quantità e di più spezie di gioie che nel resto di tutta l’India, cioè zaffiri perfetti, rubini, spinette, balasci, topazii, giacinti, grisoliti, occhi di gatta (che da’ Mori sono avute in grand’estimazione) e granate. Dicono ch’il re di essa tiene due rubini di tanto colore e sì vivo, ch’assimigliano a una fiamma di fuoco: ma perché essi gli chiamano con altro nome, io stimo che debbano esser carbuncoli, e di questa sorte rari si trovano. Cogliesi anche in questo luogo la cannella, che per tutto si naviga. Tiene il paese gran copia di elefanti, ch’essi vendono a diversi mercanti dell’India mentre che sono piccoli, per potergli domesticar: e costumasi a vendergli tanto il palmo, crescendo sempre di prezzo con detto palmo, secondo la grandezza dell’elefante.

10
Come questa isola Paliacatte non fu posta da Tolomeo, il quale in molte cose è diminuito, pretermesse anco da lui dodecimila isole nella costa di Monzambiqui; e come in detta isola nasce ambracan e molti diamanti, dove Piero Strozzi ne comperò uno bellissimo, che pesò caratti 23. Del castello Malacha e del fiume Gange.

Quest’isola non pose Tolomeo, il quale trovo in molte cose diminuito, né pose ancora dodicimila isole che sono dalla costa di Monzambiqui andando sempre a cammino verso le bande di Malacha, di sotto dell’equinoziale. E vedesi per la navigazione de’ Portoghesi molto diminuito e falso nelle sue longitudini, cominciando dalle regioni Sinare fino alle isole che lui chiama di Buona Fortuna; situò male la Taprobana, come per la carta del navigare che don Michiele di Selva, orator del re, recò a Roma, potrà V.S. comprendere.

In Paliacatte ancora nasce ambracan e diamanti, ma non sì perfetti come quelli che nascono in Narsinga, per esser molto gialli, avenga che da’ Mori siano tenuti in maggior prezzo che gli altri chiari. In questo luoco esso Piero Strozzi comperò un bellissimo diamante chiaro e netto in rocca, qual pesò caratti 23, ed è delli bellissimi pezzi che siano stati venduti in India da un tempo in qua: nel suo ritorno, che sarà in termine di due anni, lo porterà a Lisbona. Questo m’è parso farne intender a V.S. però che mi pare che sarebbe degno d’un signor grande com’è quella. I smeraldi non so dove naschino, e di qua sono in maggior riputazione che nessun’altra sorte di pietre, così come nelle terre nostre.

L’ultimo castello che i Portoghesi tengono nell’India è Malacha, terra già di maggior tratto che nissuna parte del mondo, alla qual navigano dal sino Gangetico le navi di Bengala, regno che vicina dalla costa del mar col regno di Decan, fra Bengala e Paliacatte, che termina per terra col re di Narsinga; e Bengala da terra ferma vicina con un regno detto Deli, il quale dentro da terra vicina con Narsinga. In questa parte di Bengala ci intra il fiume Gange, nel sino detto dal suo nome Gangetico, ed è posto in 23 gradi sotto il tropico del Cancro; nel detto sino navigano ancora del paese di Pegu, che confina per la costa con detto regno di Bengala e Liqui. In Pegu trovasi gran quantità di rubini, benzuì e laca; tiene dalla parte della costa Malacha e da terra ferma il Disuric, il quale è signore infra terra fino alla Cina.

11
Come la terra detta Malacha già si chiamava Aurea Chersonesus, dalla qual si naviga a Sumatra, qual dicono esser la Tabrobana, non ancora da ogni parte scoperta. Delle terre de’ Piccinnacoli e del Verzino. Le mercanzie che portano i mercatanti di Cina che vanno a Malacha per speziarie; della qualità e costumi degli uomini di quel paese.

L’ultima terra della banda di mezodì è Malacha, posta sopra la linea dell’equinoziale, in duo gradi d’altura, detta già Aurea Chersonesus. Queste terre di Bengala e Pegu dominano i Mori, e Malacha i Portoghesi: i quai Mori stanno sempre in guerra con gentili della terra ferma. Navigano ancora da detta Malacha all’isola di Sumatra, che dicono esser la Taprobana, non ancora da ogni parte discoperta, per esser molto grande. Qui trovasi infinito pepe, che si naviga per la Cina, terra fredda posta nel sino Magno, e nascevi anco pepe lungo, belzuì e oro, che contrattano in Sumatra per Malacha, che dalla parte di mezodì guarda questa isola, la qual sotto la linea dell’equinozial si trova, e nella quale quest’anno va fattor Giovanni da Empoli nostro fiorentino.

Dalla parte di levante sono le isole dove nascono i garofani, dette Molucche, e dove si trovano le noci moscate e macis; in altre il legno aloe, in altre sandali. E navigando verso le parti d’Oriente, dicono esservi terra de’ Piccinnacoli, ed è di molti openione che questa terra vada a tenere e congiungersi, per la banda di levante e mezogiorno, con la costa del Bresil o Verzino, perché per la grandezza di detta terra del Verzino, non si è per ancora da tutte le parti discoperta. Il qual Verzino per la parte di ponente dicono congiungersi con l’isole dette le Antile, del re di Castiglia, e con la terra ferma del detto re.

Dalla parte di settentrione, per il sino Magno, navigano ancora a detta Malacha per spezierie i mercatanti della terra di Cina, e portano di loro terra musco, reubarbaro, perle, stagno, porcellane e sete e drappi di ogni sorte lavorati, damaschi, rasi, broccati di molta perfezione, perciò che gli uomini sono molto industriosi e di nostra qualità, ma di più brutto viso, con gli occhi piccoli. Vestono a costume nostro, e calzano con scarpe e calzamenti come noi. Credo che siano gentili, avenga che molti dicono che tengano la nostra fede, o parte di essi. Quest’anno passato navigarono alla Cina nostri Portoghesi, i quai non furno lasciati scendere in terra, che dicono così essere costume, che forestieri non entrino nelle loro abitazioni. Venderono le lor mercanzie con gran profitto, e tanto dicono essere d’utilità in condurre spezierie alla Cina come a Portogallo, per esser paese freddo e costumarle molto. Sarà da Malacha alla Cina cinquecento leghe, andando a tramontana.

12
De’ costumi del re di Cina, e del presente fatto per l’ambasciadore del Sofì nominato siech Ismael al maggior capitano di Ormuz, dove si trovavano infiniti oratori delle regioni circonvicine.

Il re di questa regione non si lassa mai vedere né parlar, eccetto che da un solo, e quando alcuno vuole espedizione o altra cosa, lo fa intendere a un deputato, e quello all’altro: e così va d’uno in altro, fino a cinquant’uomini, alle orecchie del re. Tutte le sopradette fortezze ha edificate a usanza nostra il capitano maggior passato, il signore Alfonso d’Alburquerque, il qual nel giunger nostro in India stava in Ormuz, dove trovavansi infiniti oratori delle regioni convicine al sino Persico, e fra essi l’ambasciador del Sofì nominato siech Ismael, molto onorato, che presentò al capitan maggiore bellissimi cavalli, infinite turchine e una scimitarra molto ricca, adornata con sua vagina d’oro, perle e pietre preziose. E dicono che siech Ismael molto desidera l’amicizia del re di Portogallo, ed esser inclinatissimo alla benevolenza di tutti i Franchi. In Persia alla sua corte vi furono uomini nostri, da esso ricevuti e onorati e presentati, ch’è signor molto liberale: e fecero per terra, prima che vi giungessero, tre mesi di cammino.

E stando noi nell’India dapoi un mese, don Garzia della Crognia, nipote del capitan maggiore, avea deliberato questo anno passar allo stretto del mar Rosso, a destrugger l’armata del soldano (se è vero ch’ella vi sia) e far una fortezza o in Dalaccia o in Suachem, isola in diciotto gradi, dove imbarcano i religiosi che di Etiopia passano in Gierusalem, che così era questo anno sua volontà, e discoprire i cristiani d’Etiopia. E dipoi detto capitano maggior, lassato che ebbe Ormuz munito d’arme e mille uomini di guerra, con sedeci vele se ne tornava per India, e nel cammino li furon mandate lettere da Melchias di Diupatam, terra di Cambaia, nelle quai gli diceva che si mettesse ad ordine per tornar a Portogallo, perché nell’India vi era un altro capitano maggior e capitani di castelli. E leggendo come certi gentiluomini, che egli avea mandati a Portogallo prigioni, erano tornati in India più onorati che prima, e che, poi che il re li mandava all’India, non teneva per bene quanto egli avea fatto ed era segno d’indignazione, detto capitano ne prese tanta passione che, ricaduto nella infirmità ch’in Ormuz avea tenuto, uscendo della barca in Goa diede fine alla sua gloriosa vita, doppo tanti travagli in dieci anni avuti nell’India, che, atteso le grandi imprese ch’egli ha condotto a fine, non fu già gran tempo un tal capitano nelle nostre parti, così di consiglio come d’audacia. Nell’India al presente si trovano quattromila uomini portoghesi, e fra un mese si partono mille, per Ormuz prima e poi allo stretto del mar Rosso, a fine che le navi non possino andar alla Meca e debbiano voltare alla banda di mezzogiorno, alle isole, che sono in numero dodicimila, per pigliar tutte le navi che navigano senza sicurtà, e dipoi all’isola di Zeila e a Coramandel.

Quest’anno non andremo noi al detto viaggio, ma si ordina per l’anno che viene che ‘l capitan maggiore passerà là con tutte le navi per trovare l’armata del soldano, s’ella vi sarà, e far far una fortezza nel mar Rosso, e porre in un delli porti dell’Etiopia gli ambasciadori, cioè Matteo del Prete Ianni e Odoardo Galvan di sua Maestà, e noi altri, per andare alla corte di detto Prete Ianni: che Dio lassi seguir tutto, in conservazione e accrescimento della santa fede nostra.

L’animo mio è di fermarmi alcun tempo in queste parti e riferire alla V.S. il sito e nomi delle regioni e divisioni delle terre orientali, così del Prete Ianni come dell’India, perché vedrò poi di scorrer dentro alla terra ferma e riscontrar con l’altura de’ gradi e’ nomi antichi che pose Tolomeo, con moderni che oggi sono: e per questo porto meco l’astrolabio e molt’altri stromenti necessarii, perché altrimenti non si può saper se non in confuso, com’ora io scrivo a V.S.,conciosiaché questi Portoghesi non si curino d’intendere delle cose di terra ferma, perch’il profitto loro è al mare e non alla terra. In questo viaggio è morto un figliuolo dell’ambasciadore del Prete Ianni e un frate d’Etiopia. Né mi sovenendo altro per ora faccio fine, pregando il nostro Signor Dio mi doni grazia che, nel ritorno mio, possa trovare V.S. con quella felicità che lei desidera.

Di Cochin, terra d’India, il VI di gennaio MDXV.

 

 

 

Lettera II

ANDREA CORSALI FIORENTINO ALLO ILLUSTRISSIMO PRINCIPE E SIGNOR IL SIGNOR DUCA LORENZO DE’ MEDICI, DELLA NAVIGAZIONE DEL MAR ROSSO E SINO PERSICO SINO A COCHIN, CITTÀ NELLA INDIA, SCRITTA ALLI XVIII DI SETTEMBRE MDXVII.

Come i Portoghesi, cominciando dall’estreme regioni Sinare e sino Magno di Malacha fino al stretto del sino Persico di Ormuz e mar Rosso, hanno edificato molte fortezze, castella e città. Della costa di Fratacchi, dell’isola di Soquotora, e della qualità e costumi di quegli uomini. Descrizione del sangue di drago, dell’aloe soquoterino e ambracan.

Già due anni passati, per la lettra scritta alla felice memoria del magnifico signor Giuliano, intese V.S. quanto si andava ampliando in queste parti orientali la gloria de’ Portoghesi, i quali, essendo entrati per forza d’arme in diverse terre, isole e porti principali, cominciando dalle estreme regioni Sinare e sino Magno di Malacha, detto dalli antichi Aurea Chersonesus, fino al stretto del sino Persico d’Ormuz e mar Rosso, vi hanno voluto in quello edificare molte fortezze, castella e città, le qual tenendo del continuo ben munite e pronte al soccorso l’una dell’altra, giudico, essendo loro signori del mare, che siano inespugnabili. Per l’ultima armata ritornata, essendo di grave infirmità ditenuto, come aviene a chi del natural clima in opposito si transmuta, non scrissi cosa alcuna.

Questo anno mi dettero lettere di V.S. illust. e per esse intesi la morte del magnifico signor Giuliano, il che mi fu tanto molesto che di più non era possibile. E fummi dall’altra parte gratissimo lo intendere dello stato al qual V.S. meritamente è pervenuta, e degnatasi scrivermi in sì remote parti, che non fu poca mercede, massimamente faccendomi tante offerte, laonde mi fa debitore che, prima ch’io mi riduchi nella patria, piacendo a nostro Signor, io visiti buona parte di queste terre d’India, Persia ed Etiopia, per potere nel ritorno mio darle qualche particolar informazione, poi che di presente, venendo tardi del mare Rosso e per la accelerata espedizione di queste navi, non posso né a V.S. illust. né a me istesso a mia volontà sodisfare.

Ma essendomi il pregare un onesto e lecito comandamento, più con certissima veritade che con retorici colori o parlare elegante procedendo, darò notizia come l’anno passato Raysalmon e Amyrasem, capitani generali dell’armata del soldano del Cairo, erano usciti del mar Rosso e venuti nel porto d’Adem con XX galere e molta gente di guerra, con determinazione di passare in India per nostra destruzione, e che sopra certe differenzie combattevano la città sforzatamente. Per questa causa il magnifico Lopes Soares, nostro capitan maggiore, avendo doppo la sua venuta la maggior parte del tempo occupata in far nuove navi e galere e restaurare molte altre che nell’India si trovano, però che il re gli comandò che passasse nel mar Rosso contra l’armata del soldano, e de quivi desse ordine come gli ambasciadori fussero in Etiopia al re David, partì di Cochin il giorno di Natale con quaranta vele ben armate di artegliarie, fuochi artificiosi e altri instromenti a guerra navale convenienti: sì che erano venti navi grosse, otto galere, dodici caravelle, e in esse andavano duemila uomini portoghesi e d’altre parti d’Europa, e settecento cristiani de Malabari, arcieri di lancia, spada e targa. E fummo costeggiando fino a Goa, pigliando in essa e in queste fortezze di Calicut e Canonor vettovagli e per un anno. Partimmo poi della città e isola di Goa, alli otto di febraio 1516, e de lì traversammo per il mar Indico all’isola di Soquotora in ventidua giornate, che sono trecentoventi leghe a modo di ponente. La qual è in tredeci gradi di altezza, terminata da levante e mezzodì dal mare, e da ponente dal capo di Guardafuni, ch’è l’ultima terra di Etiopia, nel principio del sino Arabico distante dall’isola trenta leghe, in latitudine di dodici gradi, il quale gli antichi chiamano Zinghis Promontorium, e da esso tutti e’ naturali di questa costa sono Zinghi sino al presente giorno denominati. Da settentrione alla detta isola giace la costa di Fratacchi, nell’Arabia Felice, a quaranta leghe.

Questa isola di Soquotora è in circuito quindeci leghe, e mi pare, quando Tolomeo compose la sua Geografia, che era incognita appresso de’ naviganti, come molt’altre per decorso del tempo per questa navigazione novamente discoperta: il che non è di maraviglia, non essendo di costume a que’ tempi discostarsi molto dalla terra. Questa è abitata da pastori cristiani, che vivono di latte e butiro, che qui n’è grandissima abbondanzia; il lor pane sono dattili. Nella medesima terra è alcuno riso, che d’altre parti si naviga. Sono di natura Etiopi, come i cristiani del re David, con il capello alquanto più lungo, nero e riccio; vestono alla moresca, con un panno solamente atorno le parti vergognose, come costumano in India, Arabia ed Etiopia, massime la gente populare. Nell’isola non vi si trova nessun signor naturale: egli è vero che le ville vicine al mare sono signoreggiate da Mori di Arabia Felice, che, per il commerzio ch’essi tenevano coi detti cristiani, a poco a poco gli soggiogarono e impatronironsi. La terra non è molto fruttifera, ma sterile e deserta com’è tutta l’Arabia Felice; in essa vi sono montagne di maravigliosa grandezza, con infiniti rivi d’acqua dolce. Qui è molto sangue di drago, ch’è gomma d’un arbore il quale si genera in aperture di questi monti, non molto alto, ma grosso di gambo e di scorza delicata, e va continuamente diminuendo da basso in suso come ritonda piramide, in la punta della quale sono pochi rami, con foglie intagliate come di rovere. Di qui viene lo aloe soquoterino, dal nome dell’isola denominato. Nella costa del mare si trova molto ambracan; ancora gran quantità ne viene dell’Etiopia, da Cefala sino al capo di Guardafuni, e di questa isola dell’oceano.

2
Descrizione del cameleonte, e come varia i colori secondo gli obietti ch’egli ha innanzi, e per che causa.

Nel tempo che stavamo in terra io viddi uno animale che gli auttori chiamano cameleonte, e dicono ch’esso si nutrica solamente dell’aere, ed è molto tardo e pigro d’andatura, e ne’ suoi gesti a maraviglia allegro. La sua grandezza eccede alquanto la lacerta verde o vero il ramarro, sendo quasi d’una medesima specie: egli è alquanto maggiore di corpo, e di gambe molto più alto, le quali sono a similitudine di braccia umane. Tiene il dorso dal collo alla coda per la schiena punteggiato come trota: vero è che le macchie sono rilevate dalla pelle, come bottoncini variati di colore; il corpo è ruvido e macchiato come la schiena, ma con bottoni minori e più bassi, che lo fanno in vista molto formoso. Gli occhi di questo animale sono di maravigliosa bellezza, e fa contrario effetto di tutti gli altri, e sono di colore bianco, verde e giallo: egli pare che, senza volgere nessuna parte del corpo, gli volti e adrieto e poi dinanzi, guardando con essi per ogni banda, e con un solo da una parte e coll’altro al contrario. La coda è lunga e alquanto ritorta, macchiata com’è la schiena. Il suo colore è soverchiamente verde chiaro, massime la parte di sopra, donde lo ferisce il sole, però che da basso del corpo è più bianco che d’altra qualità; è variato nondimeno per tutto di rosso, azzurro e bianco.

Non lascierò di dire doppo quel ch’io viddi, avenga che molti mi terranno per bugiardo, che la variazione fa secondo i soggetti che gli son posti, perché, sendo sopra cosa verde, rinverdisce la sua verdura; se sopra il giallo, si transmuta alcun tanto in verde giallo; sendo sopra a soggetto azurro, vermiglio o bianco, non muta il verde, ma i punti azurri, vermigli e bianchi si raccendono con più vivo colore; e maggior variazione fa sopra il negro, perché stando in suo contento non è negro, e ponendolo in cosa negra, il bianco, azurro e rosso diventa oscuro e negro, e perde alquanto la vivacità del color verde. Questa sua mutazione, a mio giudicio, è causata dal piacere o discontento che piglia secondo i soggetti in che gli è posto: nei colori lieti mostra letizia in rinovargli, e ne’ colori tristi tristizia in oscurare sua bellezza, perché, non sendo sopra color nessuno, viddi più volte cangiarlo di colorato in negro, con timor o discontento, quando era preso o molestato. Pascesi di vento aprendo la bocca, la qual serrando, si vede manifestamente crescergli il ventre e abbassarsi a poco a poco.

In questa isola sono molte ville, con casamenti fatti di rami di dattili e chiese murate come le moschee de’ Mori, con altari a nostro costume. E non è molto che i Portoghesi fecero una fortezza, e discacciarono e tagliarono a pezzi tutti i Mori dell’Arabia Felice; dipoi per esser la terra silvestre e senza profitto si disfece, e ritornando i medesimi Mori un’altra volta nell’isola, gli soggiogarono alla banda del mare, come di primi. Al presente per timor di noi altri fuggirno alle montagne, non lasciando venir i cristiani a parlare con noi, né a vender cosa nessuna. Per questo non intesi i particolari e cerimonie circa alla nostra fede, salvo da alcuno che stette nell’isola da principio, ch’aveva gran tempo che furno convertiti da uno apostolo del nostro Signor Iesù Cristo; e per la passione ch’egli portò per noi sopra il legno della Croce, osservano e adorano la Croce con grandissima reverenza, guardando la domenica e molte feste comandate, nelle quali vengono alle chiese colle donne e loro figliuoli: egli è vero che esse non entrano dentro, ma restano nell’atrio o cimiterio ch’è di fuori. E il sacerdote (da loro abbune è nominato) mantiene fra essi giustizia nella detta isola.

3
Descrizione della città di Adem, e che mercanzie navigavano a questa città, prima che i Portoghesi soggiogassero il mar dell’India.

Dapoi che pigliammo acqua, che fu alli quattro di marzo, prendemmo il viaggio nostro e passammo el ditto capo di Guardafuni, a vista di Etiopia, e de lì traversammo all’altra costa di Arabia Felice, e arrivammo in Adem alli XIIII di marzo, la quale è discosto da Soquotora CXX leghe in XIII gradi. Adem è porto e scala principale di Arabia e d’Etiopia, terra di ragionevole grandezza, essendo quella delli luochi vicini la più formosa, per quanto dimostra di fuori il suo spettacolo: è nobile e ricca e di grandissimi edificii di pietre ornata, maravigliosa di sito, e di fortezza tale ch’io non viddi, né spero di vederne nessuna, né sì forte né sì ben posta. Perché dalla banda d’Arabia Felice, che la termina da settentrione, da una terra bassa e piana procede una gran montagna, che si estende al mare ben due leghe, la qual la cinge intorno da tre bande; perché da ponente un braccio di mare entra tanto dentro della terra che detta montagna, tenendo l’Arabia solamente un banda, con la quale è congiunta, resta quasi come isola, tagliata da tre parti del mare, tanto precipite e acclive suso alla summità, che pare impossibile che per essa si possa salire. Dalla parte di levante, dove è un porto maraviglioso e sicuro, appiè di detta montagna, nel mezzo d’essa, tiene un spazio non molto grande di pianura, dove fu edificata questa città a somiglianza d’uno semicirculo, perché dalla detta sommità sino alla riviera del mare vengono due ale di monti, distanti l’uno da l’altro mezza lega, che, congiungendosi al mezzo della montagna maggiore, fanno come circunferenzia. In queste ale sono mura fortissime che procedono sino al mezzo di detta montagna, la quale circuisce la città senza muro, la quarta parte servendo il monte in luogo del muro. Nella distanzia delle due ale, nella pianura abbasso è posta Adem, congiunta con la riviera del mare, nella qual è tirato un muro da una ala all’altra, che serve come diametro: detto muro è grossissimo, con suoi torrioni per difendersi da ogni assalto. Da questa parte è molto travaglioso il combatterla, ancora che sia più facile che da nessun’altra banda, però che dalla terra ferma non si può, avendo a passare per una valle per mezzo di due monti, prima che si pervenga alla porta della città. All’entrata della quale sono duoi castelli che, per esser il sentiero angusto e difficultoso, possono facilmente difendere il passo a poca gente e a molta. Dalla banda di ponente l’acclività del monte precipite non lo consente, nella sommità del quale sono XXV castella superiori alla città, sopra a certi massi come la Verrucola di Pisa, edificati in diverse parti con ragionevoli spazii, che con pietre e altri instromenti possono difenderla e distruggerla. Congiunto con la città al mare è uno scoglio, che difende il porto e muro della terra, dove sono quattro torrioni con molta artegliaria ben ordinati: e fra lo scoglio e la città stanno le navi sicure da ogni tempesta.

Questa terra d’Adem, come tutte l’altre di Arabia e d’Etiopia che sono appresso il mare, non tiene alcuna acqua, né per pioggia ne per natura, perché di maraviglia piove in questo clima in cinque o sei anni di spazio. Qui sono bonissime frutte d’ogni sorte, che vengono dalla terra dentro, e della medesima qualità che sono nelle terre nostre. Gli arbori si mantengono dell’umore radicale e di rugiada, che cade in gran copia in queste parti; l’acqua portano dalla terra ferma, lungi dalla città quattro leghe.

A questa città, prima che i Portoghesi soggiogassero il mar d’India, navigavan da diverse regioni grandissima quantità di speziarie, droghe medicinali, odori, tinte e gioie, panni di seta finissimi e di cotone, e d’ogni qualità di mercanzie orientali; e de lì si transferivano per terra in Arabia, nella Soria e in Asia Minore, sino ne’ porti di Damasco e d’Aleppo, e d’altre parti si distribuivano per l’Etiopia. La maggior quantità veniva per mare al Zidem, porto della Mecca, e a Suese e altri porti del Cairo vicini al monte Sinai, e quivi per Alessandria, d’onde si navigavano per la nostra Europa. Ed era tanto il profitto di tal commerzio che in questa parte Malacha, Calicut, Ormuz e Adem, principali porti dove tal mercanzie facevano capo, erano stimate le più nobili e ricche terre d’Oriente, come delle nostre bande il Cairo e Venezia, che ben sa V.S. illust. quanto si augumentavano. E non dee esser tenuto per maraviglia che siano a tanto stato e grandezza pervenute, perché questi Mori non si contentavano di guadagnare nelle loro navigazioni cento per cento. Dopo la venuta de’ Portoghesi, mancando l’utilità di dette terre e soggiogate la maggior parte d’esse, si ritrasseno e’ mercanti principali per la terra ferma e per altre parti dove navigano i Portoghesi, il che cominciò annullare il nome e la grandezza di tal terre. Questo fu non solamente detrimento per l’India, ma del Cairo e di Venezia, che tenevano la principal entrata di speziarie, perché, essendo i Portoghesi signori del mare, non lassano trarre nessuna sorte di esse né navigare senza loro licenza, o senza pericolo della vita o di perpetua servitù: la qual licenzia di andare a Mori non concedono. Per questa causa per maraviglia là vanno navi, e se pur alcuna per aventura vi va, non può levare tanta speziaria che più non sia necessaria per l’Arabia e per Etiopia, dove sono nel medesimo prezzo che in Europa.

4
Come, arrivati in Adem, vennono ambasciadori di Amirmirigian, e feceli intender quanto desiderassino la pace con Portoghesi, e dettegli nuove dell’armata del gran soldano entrata nella terra ferma di Arabia, conquistando quel paese; e la risposta fattali per il capitano maggiore. Dell’isola detta Babel.

Subito che fummo arrivati, il nostro capitano generale in segno di pace mandò a salutar il porto con tutta l’artegliaria. In questo vennono ambasciadori di Amirmirigian governatore a visitarlo, e fargli intendere quanto desiderassino la pace con Portoghesi, e offerire ogni necessario rinfrescamento per l’armata. Questi dettero nuove come Amirasem, uno de’ due capitani del soldano, era entrato nella terra ferma di Arabia con 1800 uomini bianchi, de’ quali ve n’erano 700 schioppettieri e 300 arcieri, e che di già avevan preso Zibid e Taesa, terre principali del regno di Adem, e robbato infinite ricchezze, di che pagavan soldo a molta gente di Arabia; e che si era congiunto con un signore di essa naturale, e inimicissimo del re di Adem e di suo regno rebelle, il quale andava con detto Amirasem del continuo conquistando ed entrando per la terra ferma; e che stavano vicini ad Almacharana, ch’è una fortezza dove è tesoro d’infiniti re d’Adem, in tanta quantità che, per non parer bugiardo, lascio di scriverlo. Il re si trovava a difensione in questa parte del suo regno con 80000 uomini di guerra, né potevano alla gente del soldano resistere, rispetto alle artegliarie da campo e schioppetti ch’essi avevano. Poi più oltre come Raysalmon, l’altro capitano, saltò nel porto d’Adem con l’armata che levò da l’isola di Cameran, ch’è dentro del mar Rosso, e con 1200 persone che egli avea la combatté, il che durò XV giorni, e gittò per terra parte del muro: e all’entrar dentro trovò grand’ostaculo, perché di terra ferma soccorreva tanta gente la città che i Mamalucchi, più per il danno grande che per loro volontà, si ritrassero con le galere tutte aperte per il trar delle artegliarie, e che dopo tornaron per il Zidem.

Il capitano maggiore, ricevutti gli ambasciadori onoratamente, disse che gli doleva molto non aver trovato tal armata al mare, e non già tirata in terra; tuttavolta che sua volontà era di passar al Zidem, e che non avea necessità d’altro che d’un pilotto che al detto porto lo conducesse, e che dicessino al governatore, poi ch’il re stava assente, che gli mandasse alcuno esperto di tal navigazione; e in quanto alla pace, che il re di Portogallo non faceva guerra se non a chi la voleva, né negava pace a chi la domandasse, e che sopra essa alla sua tornata darebbe ispedizione. Tornarono gli ambasciadori a terra, e dipoi menarono quattro pilotti e molto rinfrescamento di carne, pane e altre frutte: e così partimmo del porto d’Adem dopo i due giorni di nostra venuta, e fummo alla bocca dello stretto del mar Rosso in un dì e mezzo, che furono XXX leghe di cammino, la quale è posta in XIII gradi. E nell’entrata di essa nel mezzo del mare è una isola detta Bebel, che non è bassa, ma sterile e senza verdura nessuna, come tutte queste coste d’Arabia. L’isola è di circuito di due leghe, distante dalla terra di Arabia una lega, e altrotanto dalla Etiopia. In essa dicono anticamente che stavano due catene di ferro, che traversavano d’ogni banda della terra e difendevano l’entrata e salita del mar Rosso.

5
Come l’armata di Portoghesi fu costretta dal vento a levarsi dall’assedio di Sacacia e andare scorrendo per il mar della isola Suachem.

Alli XVII di marzo entrammo dentro con grandissimo vento, e nell’entrata pigliammo una nave di Cambaia, che veniva di Zeila con certi Turchi e Mammalucchi, carica di mercanzie e vettovaglie: e la medesima notte con grandissima tempesta la perdemmo, con altre navi indiane, che venivano in nostra conserva, de cristiani de Malabari, e una fusta nella qual erano LX uomini portoghesi, della qual dipoi mai non avemmo notizia. Fummo per il mar Rosso a cammino per la Mecca, passando a vista di molte isole grandi, diserte e inabitate, per la carestia dell’acqua che è in questa parte. E cominciando già i venti contrarii che in questi tempi soffiano per le navi che tornano d’India, tardammo dalla bocca al porto del Zidem XXV giorni, che furono leghe CC di cammino. Essendo vicini al porto già detto VIII leghe a vista della terra, con la gente e artegliaria ad ordine per saltare l’altro giorno nel porto e combatter la città e destrugger l’armata, fu tanta la nostra disaventura, o volontà dell’Altissimo, ch’il vento che era a poppa si voltò per la prua, né potemmo andar un passo avanti: che causò grandissimo danno a tutta l’armata e gente di essa, non potendo destrugger le galere del soldano né conquistare Sacacia, città come il Zidem, la quale senza dubbio era nostra, perché a questo tempo stava disprovista e senza difensione alcuna. Questo fu cagione ancora che gli ambasciadori che noi levavamo per il Prete Ianni non andassero a lor cammino, e fu tanto il danno che fece questo pessimo tempo, che per aventura non fu altro simile in queste parti, che ben si può dire che nessuno si può confidare in certezza di mare.

La nostra nave, dove veniva l’ambasciadore del Prete Ianni, per essere grande e forte, levava per poppa una grandissima nave di Malacca detta giunco, che così si chiama una certa sorte di navili che vengono dalla Cina, ne’ quali andavano li cristiani indiani, e per non poter navigare tanto come l’armata, era necessario la levassimo. E cominciando di continuo il vento e ‘l mare a farsi grande, per il peso del giunco non potevamo andar tanto a orza come l’armata, ma di continuo più a sottovento; e per essere vicini a certi bassi, essendo l’armata già sopravento da essi passata avanti, noi non potemmo passargli, e fummo necessitati mutarci in altra volta del mare. E quando tornammo al medesimo cammino, restammo indrieto quattro leghe e a sottovento di detta armata, la quale perdemmo la medesima notte, senza poterla mai in questi giorni rivedere. Fummo parando al vento e alla tempesta quasi incomportabile due giorni, sperando di nuovo congiungerci, se non in altro luogo, al meno al Zidem. E in questo tempo si aperse il giunco per la gran fortuna che era in mare, non sendo sì forte come le nostre navi, e fu necessario ch’accogliessimo tutta la gente che in esso andava a fin che non si perdesse: il quale dipoi fu al fondo.

E questo fu il venerdì santo, nel quale per l’altura del sole trovavamo esser discaduti XXX leghe del nostro viaggio, e non cessando il vento, ma continuamente crescendo, trovandoci con poca acqua e molta gente, né sapendo dove la potessimo pigliare, determinammo di tornare all’isola di Cameran mentre ch’il tempo serviva per quella parte, con timore di calma o che non si mutassi in tempo che non potessimo arrivare in alcuna parte. E non avendo altro rimedio a nostra salvazione, demmo volta per detta isola, e il pilotto errando il cammino fu a levarci in Etiopia, all’altra costa, la quale (per esser in queste parti il mare più largo che in nessun’altra di questo stretto) è larga dall’altra di Arabia 30 leghe. Fummo al lungo la detta costa con intenzione d’entrare nella isola di Suachem, che è messa in un braccio di mare dove i cristiani di Etiopia s’imbarcano per Gierusalem; ed essendo già in latitudine di XVIII gradi, in che detta isola è posta, non potemmo mai conoscerla.

In questo tempo avemmo vista d’un navilio di Mori che per la detta isola navigano, e fummo col battello ben armato per pigliarlo e da essi intendere donde detti fussero; i quali, subito ch’ebbero vista di noi, diedero in secco della costa e fuggirono, lasciando il navilio senza gente. Noi discendemmo in terra per trovar alcun modo di pigliar acqua, e non trovando abitazione alcuna, ci mettemmo a far pozzi; ed essendo l’acqua salmastra, ci tornammo alla nave con grandissima passione.

6
Della isola detta Dalacia. Come i Portoghesi patirno gran disagi per mancamento d’acqua, e d’un maggior pericolo che li sopravenne. Della montagna detta Bisan overo Visione.

Perduta la speranza di Suachem, determinammo passare a Dalaccia, ch’è un’altra isola nella medesima costa, dove già furono nostri navili nel tempo dell’altro capitano, che passò nel mar Rosso. E perché l’ambasciadore ci diceva fossimo là, che non la potevamo fallire, e che de lì andassimo al porto del Prete Ianni, dove ci saria dato quanto fosse necessario, de qui partimmo, andando sempre a vista di molte isole, fra le quali molte d’esse erano piene d’arbori e di verdura, che molte volte c’ingannò, perché, giudicando che tenessino acqua, fummo là col battello, né mai potemmo discoprirla, ma di continuo perdendo tempo andavamo per perduti, più l’un giorno che l’altro disperandoci, salvo che della misericordia di Dio, che era cosa miseranda a vedere in quanta necessità ci trovavamo. La gente del Malabare, uomini di più debile complessione, cominciorno a morire a visibile sete; alcuni, aggiungendo male a male, si saziavano con acqua salata; molti anche con disperazione si lanciavano in queste isole disabitate; altri per la sete incomportabile accecavano, senza mai tornare nell’essere di prima; alcuni altri morivano come cani rabbiosi.

Andando in questa disperazione ci sopravenne maggior pericolo, perché, lasciando il vero cammino, il quale era lungo la terra, una notte ci allargammo al mare per più sicura navigazione, e venuto il giorno ci trovammo circuiti d’infinit’isole e scogli e bassi, e tanti ch’era impossibile il contarli: e non potendo tornare indrieto, per il vento che ci sforzava d’andare avanti, né sapendo il cammino per onde fusse, mancando l’acqua quasi del tutto, dubitammo grandemente della nostra salvazione. Quest’isole ci detennono molti giorni, non potendo di notte navigare, perch’era necessario che il battello andasse avanti alla nave per discoprir fondo donde potesse passare, e talora surgemmo tre o quattro volte per giorno, con grandissima fatica di tutti e passione d’animo in dar le vele e ordinare la nave, non potendo i marinari supplire a tutto.

Così, navigando sempre col piombo in mano, fummo con tanto riguardo che venimmo a cert’isole maggiori, dove il mar era più largo, e in esse avemmo vista di certi navili che venivano di Dalaccia a pescar perle, i quali ne dettero grandissima speranza che Dalaccia saria vicina, stando noi quasi nella sua latitudine, che sono XVI gradi. Fummo dietro ad essi navili, i quali, fuggendo a vele e a remi, si raccolseno in una isola grande che per la nostra prua si dimostrava, per onde pigliammo il cammino. E vicini alla notte volendo buttar l’ancora in un’isoletta, non trovando fondo, fu necessario che ci allargassimo al mare, aspettando fino al giorno fra la terra ferma e quest’isola: dalla quale la mattina ci trovammo lungi IIII leghe, rispetto alla correntia dell’acqua ch’è nel canale fra l’isola e l’Etiopia, e quivi buttammo l’ancora, non potendo tornare ad essa per il tempo che si era mutato.

In questo mezzo l’ambasciador ci mostrò Dalaccia, e come si chiamavano molte altre isole vicine alla terra, e dove stava il porto del Prete Ianni, ch’era nella costa di Etiopia, non più lungi che quattro leghe, abbasso di una grandissima montagna detta Bisan, o ver la Visione, nella quale è un eremo di religiosi con una chiesa dedicata ad Abraam: e in essa abitava uno episcopo di santa vita, nominato abbuna Gebbra Christos, con monachi osservanti. E pregò il nostro capitano che fussimo con la nave in tal porto, che in esso stando la nave sicura, potria la gente restaurarsi della mala vita che tenevamo, e di qui certificarsi e chiarirsi della sua imbasciata. Il capitano non volse mai concedere che vi andassimo, pigliando varie iscusazioni; e non potendo dar le vele per il vento contrario, mandò il battello all’isola di Dalaccia, a discoprir alcuna acqua dolce, e dove potessimo alcuno giorno riposarci. Il quale tornando l’altro giorno con grandissima festa (presa una gelfa, navilio piccolo di Mori così chiamato), ci diede nuove di una isoletta congiunta con Dalaccia, abondantissima d’acqua e di bestiame, alla quale navigammo, in un porto ch’era fra una punta di Dalaccia e la ditta isola.

7
Come il re di Dalaccia venne a parlamento col capitano di Portoghesi, e che notizia s’ebbe in tal colloquio del stato del re David, ora chiamato Prete Ianni.

Lo primo giorno di maggio, fummo in terra CCCC uomini e ci assicurammo d’essa, perché li Mori, non avendo animo di aspettarci, fuggirno subito a Dalaccia. Nella gelfa che presero quando l’isola fu discoperta, menarono alla nave un Moro antico di essa naturale, al quale si fece molto onore, dandogli vestiti e panni di più sorte: e mandammolo a Dalaccia, accioché fussi a parlar al re, che la nostra venuta e presa della sua isola non era per fargli alcuno impedimento, se non di pigliare acqua e alcuno rinfrescamento, di che eravamo necessitati, e che quanto in essa si dannificasse pagaremmo a sua volontà, e che la nostra intenzione era di aspettar il capitan maggior, dal qual eravamo stati separati per fortuna, che di là aveva a passare. Il re, con questo assicurato, mandò ambasciadori, i quali subito conobbero Matteo, ambasciadore del re David, e li fecero grandissima riverenza e molta festa, mostrando di fuori gran contentamento della sua vista, e dissono che disponessimo di Dalaccia e di sue isole a nostra volontà. Di che il nostro capitano gli ringraziò molto, e disse che dicessero al re che fusse certo che il capitano maggiore gli resteria in grandissima obligazione, e che, per saper che erano in amicizia col re David, non avevano a ricever da noi se non onor e utilità, e che, mentre che quivi stessimo, mandasse a vender alla spiaggia alcune vettovaglie, e che tutto si pagarebbe per suo prezzo. Così essi tornarono contenti e sodisfatti, venendo il giorno seguente con presenti di latte, carne e mele; e dissero che il re desiderava parlare al capitano e all’ambasciadore, al qual portarono lettere del re, rallegrandosi di sua venuta.

Dopo tre giorni venne il re con 500 uomini da piedi, mal armati, con certi dardi, scudi e archi non molto buoni e alcune spade a nostro costume; i più onorati venivano in camelli e dromedarii e cavalli leggieri di Arabia, con varii instrumenti e suoni, a costume di quelle parti. Il re veniva vestito alla moresca, con una vesta d’oro e di seta variata, e di sopra un panno attraversato all’apostolica. Egli è giovane di XXV anni, di colore lionato bene scuro, come sono la maggior parte di Mori di Arabia Felice sino alla Mecca, con capelli lunghi e ricci. Fummo alla spiaggia col nostro capitano senz’arme, per segno di maggior amicizia, stando nondimeno sempre col battello sopra aviso d’alcun tradimento a costume degli Arabi. Doppo molte cerimonie, il capitano e l’ambasciador pregorono il re mandasse al Suachem per terra o per mar ne’ porti di Arabia a intendere della nostra armata e dar notizia di noi altri; il re così promise, e mandò un suo famigliare alla nave per lettere, e tornossene per la sua terra.

In questo colloquio avemmo alcuna notizia dello stato del re David, da noi nominato Prete Ianni e da’ Mori sultan Aticlabassi, e intendemmo il suo regno occupare quasi tutta l’Etiopia interiore e abbasso dell’Egitto: ed è opinione di molti che si estenda vicino a Manicongo, terra dalla banda di Ghinea del re di Portogallo. Va sempre alla campagna con padiglioni e tende di sete e varie sorti di panni, con tanta gente di cavallo e di piede che non tien numero né misura, di maniera che non costuma fermarsi in una terra più di quattro mesi, dove, consumate le vettovaglie e carne e legna, si lieva e transferiscesi per altre provincie, faccendo com’è a dir un divorzio: e pare che non torni là onde egli si parte di dieci anni. Al presente si trovava in Chaxumo, terra già Auxuma denominata, corrotto il vocabulo, come l’isola del Nilo Meroe detta, e ora Gueguere. Dicono ch’è giovane de XVIII anni, formoso e di colore di olivo, né si lassa vedere a nessuno in viso, salvo ch’una volta nell’anno per maggior stato, andando il resto del tempo con la faccia coperta; non gli parla nessuno se non per interprete, passando per tre o quattro persone avanti che pervenga a lui. Li naturali della terra sono segnati di foco, della qualità ch’in Roma si veggono. Questo non è segnale di battesmo, perché si battezzano con acqua come noi, ma solamente per osservar il costume di Solomone in segnare li suoi schiavi, donde è fama la casa del re di Etiopia esser discesa: perché dicono ch’una regina fu a visitarlo e, restando gravida, partorì un figliuolo dal qual discese tal generazione, e per questo, essendo dalla casa d’Israel, osservano i cristiani etiopi la legge antica e moderna, usando battesmo e circuncisione, e osservando la festività degli apostoli e de’ santi moderni, e de’ patriarchi e padri del vecchio Testamento. Qui dicono essere uno anello di Salamone e una corona e catedra del re David, tenuta in grandissima osservanzia. Piacendo a nostro Signore dare effetto a’ nostri desiderii, passando io in quel paese potrò dare più certo testimonio di questo, che non è se non per fama.

8
Del modo del pescar le perle. Dell’isola Baharem. Come in Zeilam nascono varie pietre preziose, e qual fusse anticamente detta isola di Zeilam.

Stemmo in questa isola di Dalaccia un mese intiero, la qual è in latitudine di XVI gradi, vicina alla terra d’Etiopia VII leghe. È di XX leghe di circuito, di sano aere, isola bassa e sterile con certi colli e valli pieni di pruni e stecchi, senza nessuno arboro fruttifero. Qui poco si semina, che la maggior parte della vettovaglia viene di Etiopia, che sono mele, miglio, butiro e qualche poco di grano; è buona solamente per pasture di capre, camelli e bovi, che qui sono in gran quantità per tutta l’isola, perché è abbondantissima d’acqua dolce, che è rara in queste parti. Cominciossi ad abitare per la commodità di quest’acque, e rispetto alle perle ch’intorno ad essa e ne’ bassi dell’isole circonstanti si generano, che tutte sono di questo re. Pescansi nel fondo del mare con una rete al collo, come vangaiuole, la quale dipoi ch’è piena di madre di perle, la legano ad una corda che pende con contrapeso dal navilio (in che vanno a pescarle) insino al fondo del mare, e tornati di sopra la tirano. Così costumano in Cefala, ch’è nella costa d’Etiopia, donde viene oro della terra ferma vicina a Monzambique, ch’è non troppo lontana dall’equinoziale; e questo medesimo modo usano in Baharem, che è un’isola dentro il sino Persico così chiamata, donde vengono le miglior perle e in maggior quantità che d’altra parte. Così nell’isola di Zeilam, di sotto di Calicut C leghe, dove nascono ancora i topazii, iacinti, rubini, zaffiri, balasci e alcuno carbonculo, lesicione, occhi di gatta e granati e grisoliti, che in questa sono in grandissima abondanzia; da essa viene la buona cannella, che non si trova in altre parti. Quest’isola di Zeilam mi pare la Taprobana, e non Sumatra, come mi dicono molti, quantunque l’anno passato scrivessi il contrario: dipoi avendo ben considerato, confermo che Sumatra non era a tal tempo scoperta. Similmente vengono le perle di là da Malacha, delle terre del Cataio o vero delle Cine, di certe isole del sino Magno, e in tutti li luoghi sopradetti si pescano d’una medesima maniera.

9
Quel che l’imbasciadore ricercasse il capitano mentre dimororno in Dalaccia, e quello li rispondesse il capitano. Come intesero l’armata ritrovarsi a Cameran, e che nuove avessero del soldan e del Zidem.

In questo tempo di nostra dimora in Dalaccia, l’ambasciador parlò molte volte al capitano della nave che mandasse il battello alla isola di Mazua, che era a nostra vista non più lontana che cinque leghe, appiè del già detto monte della Visione, perché dalla detta isola a terra non aveva più che una lega, dove era un porto de’ cristiani detto Ercoco, da’ quali, o da’ monachi dell’eremo della Visione, mandando là o loro venendo a Ercoco (come costumano), che è lungi dall’eremo dua giornate di cammino per la montagna, potevamo sapere certezza di sua imbasciata e di alcune dubietà che tenevamo, a fine che, quando ci congiungessimo col capitano maggior, non fusse necessario ditenersi in saper tali particolari, ma che potesse dare ordine che gli ambasciadori passassero. All’ultimo, non prestando il capitano fede a cosa che egli dicesse, gli fece requisizione per parte d’Iddio e del re di Portogallo, in publico, per mano dello scrivano della nave, al quale il capitano rispose che non levava reggimento del capitano maggiore di cosa nissuna, e se in questo andare e mandare risultasse alcuno inconveniente, ne poteva di esso dare buon conto: e per questo lasciò tal impresa, tanto facile a darli effetto, restando il tutto confusa e senza alcuna conclusione.

E stando già con determinazione di partire per l’isola di Cameran e di lì per l’India, i Mori di Dalaccia ci dettono nuove l’armata essere in detta isola di Cameran, e già sendo securi che non aveva a venire a Dalaccia, cominciarono simulatamente a ricalcitrare e mostrar che non curavano tanto della nostra amicizia come prima. Dipoi avemmo vista di due caravelle nostre, che venivano dalla isola di Cameran, ispedite dal capitan maggiore, le quali il giorno seguente comparsono nel porto dove stavamo sorti; e li capitani di esse vennero alla nostra nave con grandissima allegrezza e piacere di tutti universalmente, loro per trovarci, che ci giudicavano per perduti, e noi per il desiderio che tenevamo di saper nuove dell’armata. Le dette caravelle venneron con intenzione di scoprire i porti de’ cristiani, e levavano tre uomini, fra li quali era un Moro di Granata, astutissimo e di grandissima pratica, il quale il signor Alfonso d’Alburquerque aveva tenuto in ferri molto tempo, parendogli che con la sua astuzia poteva fare alcuna revoluzione nell’India contro a’ cristiani. Costui al presente lo liberorno, accioché andasse come mercante in Etiopia, e gli altri due Portoghesi come suoi schiavi, e che riportasse nuove in India di tale imbasciata, avendogli promesso alla sua tornata farlo scambadar della isola di Ormuz, che è officio molto grande di onore e profitto, e come appresso di noi consolo di mare.

Da questi capitani avemmo nuove che ‘l medesimo giorno che ci separammo dall’armata, e sendo vicini alla terra del Zidem dalla banda d’Arabia, venne alla nave capitana una guelfa, o vero navilio de’ Mori, dove erano XVIII cristiani di Grecia, di Corfù, Candia e di Scio e alcuno genovese, bombardieri maestri di far galere e calafati. I quali dissero che, nel principio che si cominciò a far l’armata del soldano, furno presi ne’ porti di Soria e mandati al Suez, donde s’armarono le galere, per servire a tal opra; e che al presente erano fuggiti, dando ad intendere al capitan moro che tornariano a Suez, e che determinavano di pigliar una nave grande, con pilotti, avanti che passassero nell’India o in Ormuz alle fortezze de’ cristiani. E vista l’armata nostra, ne vennero ad essa, e dettero nuove come il Zidem stava provisto di gente, però che in essa non aveva più che CCC Mamalucchi e Raysalmon, uno de’ capitani del soldano, perché l’altro era stato morto da detto Raysalmon (come si dirà), il quale aveva messo ad ordine due galere per passare al Cairo al gran Turco, che al presente dicono esser signore di Soria e Asia Minore, il quale lo mandava a chiamare; e che tutti gli altri Turchi, Africani e Mamalucchi erano sparsi in diverse terre, non li pagando soldo, e avevan lasciate le galere e le artegliarie nella riviera del mar, come quelli che non sospettavano di nostra venuta. Il Capitan maggiore, desideroso di arrivare al Zidem, stette XV giorni andando sempre in volta per non discader del suo cammino, e in questo tempo mai non poté entrare nel porto, per la gran fortuna che già dicemmo, per la quale fu al fondo una nave portoghese il sabbato santo (vero è che si salvò tutta la gente).

10
Come, essendo giunta l’armata di Portoghesi al porto del Zidem, fatto consiglio si determinò di non dar battaglia alla città, e per che causa. Del fiume Indo; dell’isola detta Diupatam; e come il capitano maggiore, dando ordine di partirsi, mandò a por fuoco a tre navi grosse e a un galeone di due coperte.

Nel tempo che vedemmo la terra del Zidem, all’entrata dell’armata nel porto, Raysalmon, avendo notizia di nostra venuta per gli uomini della terra, da’ quali fummo visti, ebbe commodità di munire la città di artegliarie e gente che dalla Mecca vennero: e passavan 10000, di diverse regioni, che vi erano in peregrinaggio, perché la Mecca non è più lungi dal Zidem che XII leghe. E subito che la nostra armata comparse, non restarono dì e notte di sbombardarla, senza farle alcuna offesa, ancor che le lor artegliarie siano potentissime, le quali, stando le nave sorte molto lungi, tirando in arcata davano in fallo. Il medesimo giorno si messero insieme i principali col capitan maggiore ed ebbero varie openioni, se fusse ben darle la battaglia o lasciarla: e contro alla volontà di molti, desiderosi di saltare a terra, dal signor Lopes Soares, uomo prudente e temperato in ogni suo negocio, fu determinato che era più securo non combatterla che, combattendola, metter in pericolo l’armata e lo stato di India. Conciosiaché, non sapendo che gente fosse nella città, e che essi non erano molti, rispetto che nella nostra nave che non vi fu andavano quattrocento uomini, e non restando le nostre navi ben guardate, potevano i Mori, con due galere che stavano al mare, saltare ad esse quando i nostri Portoghesi fossero in terra e vietare che non tornassero a difenderle; e lasciando le navi con gente, pochi restavano per combatter la città, il mare della quale è tanto basso che i battelli non possono a gran spazio arrivar alla spiaggia. E per questo era necessario che fussero per acqua mezza lega, e col peso dell’armi, e per l’impedimento dell’acqua, avendo a disbarcar nel mezzo della riviera, piena d’infinita arteglieria grossa e minuta, prima che là comparissero sarebbero mal trattati, e trovando alcuna resistenzia, portavano pericolo non si poter raccorre sì presto a’ battelli, e per tal impedimento di restar tutti morti.

Stando in questa resoluzione, fuggì di terra un schiavo di Raysalmon, che dicono era suo cameriere, cristiano delle terre di Mondevi, e venne per questi bassi vicini alle navi, donde lo levorono in un battello alla capitana, e diede nove del soccorso ch’era venuto nella città della Mecca, e come stava fortificata, dechiarando molt’altri segreti che sapeva: fra gli altri, che quivi si trovava l’ambasciadore del re di Cambaia, ch’è una delle principali e ricche regioni dell’India, per la quale il fiume Indo spargendosi entra nel mar Oceano; e questo ambasciadore l’avea mandato di consiglio di uno Turco chiamato Melchias, il quale è signore dell’isola di Diupatam, suddito al detto re, la qual isola è posta in un braccio di mare ch’entra in detta Cambaia gran spazio, nel qual braccio è la bocca del detto fiume Indo. Questo Turco detto Melchias, com’uomo sagacissimo ed esperto, dapoi che i Portoghesi disbarattarono, già sono nov’anni, l’armata del soldano nella sua isola, con morte di sei o settemila persone, parte del Cairo e parte della sua terra, con suo ingegno, fatta pace col vice re ch’era in quel tempo, ritenne sempre l’amicizia del re di Portogallo per non perder il suo dominio, scrivendogli ogni anno e mandandogli varii presenti e opere bellissime che si lavorano in questa terra, tenendo contenti con diverse maniere i principali Portoghesi dell’India e faccendo a tutti generalmente grandissimo onore, presentandogli con varie cose di Cambaia; dall’altra parte attese sempre a fortificarsi di castella e di artegliaria, mostrando che tutt’era di Portoghesi. In questo medesimo tempo non lasciò mai d’intertenersi col soldano, dando particolare aviso del loro stato nell’India, e sendo già l’armata presta al presente, mandava a sollicitare che passassino a Diupatam e che non tardassino, che teneva in ordine vettovaglie, arteglierie, navili, legnami e ferro e gente per congiungersi con loro, e ch’erano tornati al Zidem per reparar le galere e passare all’isola di Diupatam, e de lì poi tornare sopra la fortezza d’Ormuz. Inteso tutto per il capitan maggiore, diede ordine alla partita, tre giorni dipoi che stavano in detto porto, e prima mandò a por fuoco a tre navi grosse a nostro costume e a uno galeone di dua coperte, che li Mamalucchi avevano armate sopra navi che presono di Mori quando furono in Adem; e dato a tutto ispediente, si venne all’isola di Cameran, donde dispaciarono le caravelle sopradette per Dalaccia.

11
Descrizione di Zidem, città di Arabia.

Il Zidem (come dicono molti) è città di Arabia Deserta in XXII gradi e mezzo di latitudine, porto della Mecca da’ Mori molto nominato, ed è tenuta per terra santa come la Mecca e Medina Talnabi, dove è sepolto Maumetto, alla qual vanno in peregrinaggio di tutte le parti di sua legge: e in nessuna di queste può entrare altra generazione che maumettani. La città del Zidem non è molto grande, ma tutta murata, con edificii di pietra circuita dalla terra, e dalla banda del mare senza muro, salvo che cominciarono a farlo dipoi che i Portoghesi furno la prima volta nel mar Rosso, che adesso non era fornito; è situata in terra sterile e deserta come altre di Arabia, non tiene acqua nella città, ma viene di fuora di cariche di camelli, come in Adem, in Zeila e in tutte queste terre vicine al mare. Dal Zidem (come è detto) alla Mecca sono per terra XII leghe, e dalla Mecca a Medina Talnabi LX leghe; da Suez al Toro, dove si fece l’armata, sono per mare LX leghe, e dal Toro al monte Sinai vicino al Zidem CC leghe, e da Zidem a Cameran CLXX leghe.

12
Come il capitano maggiore mandò a scoprir i porti del Prete Ianni e, fatto intendere ad esso re l’imbasciata del re di Portogallo e del suo ambasciadore, giunsero a Cameran. Del disordine che per mal governo seguì a Dalaccia.

Per dar ispedizione a questo, il capitan maggiore mandava a discoprir i porti del Prete Ianni, e il nostro capitan lasciò lo ambasciadore con dette caravelle, che con essi capitani fummo a Mazua e al porto de’ cristiani detto Ercoco, e de lì mandammo ad uno re cristiano chiamato Bernagasso, suddito al re David, lungi dal porto quattro giorni di cammino, e all’eremo della Visione, che facessero intendere dell’imbasciata che mandava il re di Portogallo e del loro ambasciadore, e per cosa nissuna non confidassino ne’ Mori di Dalaccia, ch’erano traditori e avevano a vendicarsi del danno ricevuto. Con questa resoluzione partimmo per Cameran all’altra costa d’Arabia Felice, ch’è lungi cinquanta leghe da Dalaccia, e passammo a vista di molte isole, e fummo in Cameran in quattro giorni, con grandissima alleggrezza e festa di tutta l’armata.

Cameran (com’è detto) è isola bassa di quattro leghe di circuito, vicina alla terra ferma meza lega, in XV gradi di latitudine, la quale fu distrutta sono già quattro anni, la prima volta che la nostra armata fu nel mar Rosso, col signor Alfonso d’Alburquerque: dove stetteno quattro mesi, e per mancamento di vettovaglie non lasciarono animal vivo né arbore di dattolo in piedi, ch’in quest’isola ve n’erano in gran quantità, e nella loro partita posero fuoco alla villa d’essa, molto grande, populosa e ricca, perché le navi che passavano di Adem alla Mecca tutte pigliavano acqua in questa parte, della quale è abbondantissima la terra, così come in tutto lo stretto è al contrario. Questa isola è la più calda che mai vedessi, di sorte che non era alcuno che per tal calidità non tenesse le parti inoneste del corpo scorticate. Quivi morì molta gente nostra, più per mancamento di quello ch’è necessario alla vita umana che per mala qualità della terra, perché in Dalaccia, ch’è d’uno medesimo essere ch’è Cameran, dipoi che pigliammo acqua, per l’abbondanzia della carne quelli ch’erano di mala disposizione tornaron tutti di salute.

Non stemmo tanto che le caravelle vennero dell’isola di Dalaccia, senza opera alcuna che buona fusse, per il mal governo ch’ebbero, perché subito che veddon noi alla vela, essendo loro quasi vicini al porto di Ercoco, si tornarono per Dalaccia e mandorono il Moro di Granata in terra a parlare al re e dirgli com’erano venuti per mandato del capitan maggiore, per far pace con detta isola. Fu a terra, e là si convenne di dare l’ambasciadore e le caravelle a man salva al re di Dalaccia; e tornato, diede a intender ch’avea tutto composto col detto re e che potevano andar e venir sicuramente, e che lui mandava a pregare i capitani che fussino a terra coll’ambasciadore, per poter fermar la pace ch’adomandavano. Li capitani parlorno con l’ambasciadore per menarlo in loro compagnia, a’ quali rispose non esser venuto per andar a Dalaccia a mano di Mori, né per confidarsi del detto Granatino, che li conosceva meglio di loro, e che lui non partirebbe delle caravelle. Con tutto questo i capitani, che levavano mal cammino e credevano a quanto il Moro avea detto, si messero in ordine per andare. In questo l’ambasciadore fece lor richiesta che non andassero a terra e che non confidassero de’ detti Mori, e se pur andassero, fussero con gran riguardo e ben armati: e tutto fece scriver in publico allo scrivano della caravella.

Essi furno a terra senz’arme d’alcuna sorte, e aspettavano il re che venisse di basso di certe grotte che sono alla riviera dell’isola, consumate dal mare, dove mancando l’acqua, che di sei ore in sei ore cresce e scema, restò il battello in secco. In questo vennero i Mori, e inteso non esservi l’ambasciadore, cominciorono con certi dardi a ferire la maggior parte de’ nostri che stavano nel battello, il quale dipoi presero, tirando fuori un de’ capitani, e tagliaronlo a pezzi con due altri. In questo tre uomini, che non volsero lasciar le sue spade nella caravella, si cominciarono a difender e dar cuore agli altri, tanto che trasseno il battello al mare e raccolsono molti che s’erano gittati in mare, per tornare alle caravelle. Con questo disordine si tornaron per Cameran, non curando di far altra diligenza. Al capitan maggiore dolse molto che questo disordine fussi seguito, e aspettando noi altri che si facesse alcuna determinazione per donde fussimo a nostro cammino, occorse la morte di Odoardo Galvan, che andava ambasciadore del re al Prete Ianni, e questo fu causa che non si parlasse più circa la nostra andata.

13
Come i Portoghesi gettorono a terra una gran fortezza fatta per i Mamalucchi. Come il soldano mise tempo otto anni a far 20 galere e quanto feciono di costo; e come fece duoi capitani generali dell’armata e che ordine dette loro.

Stemmo in Cameran sino alli XII di giugno, e in questo tempo buttammo a terra la fortezza fatta da’ Mammalucchi, grande e a nostro costume edificata, giunta col mare in un braccio dove è il porto di detta isola: e fondaronla dalla banda della terra sopra d’un masso che serviva per mura per due terzi della fortezza, sicura rispetto a tal masso da ogni arteglieria dal porto del mar; l’altra terza parte era muro grossissimo di trenta piedi di larghezza, con sue torri e bombardiere ben armate, e dal mezzo in suso curvato per non si poter scalare, nel quale fece di spesa il soldano saraffi 10000, ch’è una moneta d’oro di valore di XXV grossi, che corre per tutta l’Arabia e parte di Persia: è di diverse stampe, secondo ch’ella è delle terre diverse.

Da cristiani che fuggirono del Zidem intesi come l’armata del soldano era già otto anni passati che fu principiata, ne’ porti di Suez, presso al Cairo tre giornate per terra, e che in tutto questo tempo non si fecero se non XX galere, cioè sei bastarde e XIIII reale, rispetto al gran costo e mancamento del legname, il quale veniva delle terre del Turco, del golfo di Scandaloro presso di Rodi, donde lo levano in Alessandria e al Cairo per il fiume del Nilo: e qui si lavora, e poi con camelli per terra in pezzi lo conducono al detto porto di Suez, dove non vi bisogna altro se non congiungerlo e metterlo in opera. Queste galere, quando furono tirate di terra al mar, con sue artiglierie e gente pagata per quattro mesi e colle vettovaglie, feciono di costo 800000 saraffi. E ch’in essa andavano 3000 uomini tutti di buona voglia, e che ciascuna delle sei bastarde levava a prua un cannone grossissimo, da molti detto basilisco, e due colubrine, alla poppa due altre colubrine e nel mezzo, giunto all’arbore da ogni costato, un cannone, e un tiro picciolo con sua coda fra ogni quattro banchi; le quattordeci galere reali a prua levavano due colubrine e un cannone, e due a poppa, e dalle bande 24 tiri. E detti 3000 uomini erano 1300 Turchi, 1000 Africani e 700 Mammalucchi e rinegati: fra tutti questi 1000 schioppettieri.

Essendo già in ordine tale armata, il soldano del Cairo mandò Raysalmon, natural di Turchia, al cammino di Suez, uomo audacissimo ed esperto, il quale, sendo ribello al gran Turco, era stato gran tempo corsale ne’ nostri mari, e ordinò che fusse in compagnia con Amyrasem, e quelli due fossero capitani generali, e che Raysalmon reggesse la gente e l’altro tenesse cura di ordinare quello che fusse necessario per l’armata, e che di consiglio di amendue s’incaminasse ogni impresa. Partironsi di Suez per il Zidem già sono due anni, dove Amyrassem teneva ordinata gran quantità di danari, data prima fede al soldano non far guerra a nessuno di sua legge. Da Suez passarono al Toro in otto giorni, e di lì al Zidem, donde prese molte vettovaglie, si posarono a Cameran: qui il soldano ordinava per suo reggimento che si facesse la fortezza già detta, e che non passassino più avanti senza suo espresso mandato. In questo tempo cominciarono a mancare le vettovaglie, e non pagavano soldo: per questa cagione si levoron settecento uomini del campo e fuggironsi in un colle dell’isola, e mandarono a dire a’ capitani che pagassino il soldo che gli davano e mandassero a fornire il campo di mantenimento d’altra maniera, faccendo determinazione di morire tutti sopra questa dimanda. I capitani cominciorno a mitigarli, e saputo per certo ch’il re d’Adem non lasciava venire cosa nessuna della terra ferma ch’era di suo dominio, Amyrasem convenne con Raysalmon di passare nel regno d’Adem con parte della gente, schioppettieri e arcieri, i quali fra loro continuamente andavano multiplicando, per rispetto che Raysalmon levava gran somma di scoppietti e cresceva soldo a chi voleva levarli: per questa causa ne avea già insieme più di 2000.

14
Come Amyrasem messe a sacco Zibid (e ivi fu morto il fratello del re di Adem) e dipoi Taesa, ch’è un’altra buona città; e come Raysalmon fece nel mare affogar Amyrasem.

Passò Amyrasem nel regno di Adem, a un porto ch’è fra la bocca del mar Rosso e Cameran, con milleottocento uomini, i quali, avendo disbarattato con le artegliarie in guerra campale gran numero de Mori, entrarono in Zibid per forza d’arme, la qual città del detto regno è grande, ricca e abbondantissima di tutte le cose a nostro costume, e di essa insignoritisi, s’empierono tutti di ricchezze, di donne e cavalli: e in questa entrata ammazzarono un fratello del re. Quindi andarono a Taesa, ch’è un’altra buona città, e conquistaronla con più facilità, non osando i Mori aspettar il tiro di schioppetto; e stando in questa terra ricchissimi e con tutti i piaceri e delicatezze umane, addimandorono nuovo soldo al capitano, il quale iscusandosi minacciorono di morte. Esso scrisse a Raysalmon quant’era successo; egli rispose che, come fossero a Cameran, tutti sarebbero contentati a lor volontà. Risposero di non voler altro Cameran che la terra di ch’erano signori; Amyrasem con sospetto ne fuggì e venne per Raysalmon, e vedutosi più l’un giorno che l’altro mancar la vettovaglia, amendue uscirono dello stretto del mar Rosso e andarono a Zeila, città posta nella costa d’Etiopia, fuora della bocca del mare. I terrazzani, per timore che non avvenisse lor quel medesimo che a Zibid e a Taesa, diedero 10000 saraffi in denari e vettovaglie e gente per le galere.

Partirono poi di Zeila al cammino d’Adem, e nel mezzo del golfo del sino Arabico ebbero vista d’una grandissima nave di Malaccha, alla quale fu Raysalmon, seguitandola sino che perdette l’armata di vista: e l’altro giorno la prese e mandò così carica d’infinite e ricche mercanzie a Diupatan a Melchias, che vendesse il tutto e la rimandasse allo stretto con vettovaglie e legname e ferro e stoppa, e che sarebbero presto nella sua isola, e che tenesse in ordine il tutto per dar sopra le forze de’ cristiani. Amyrasem passò coll’armata in Adem con le galere, e con un pezzo grande d’artegliaria posto in terra cominciò a bombardar la terra, il qual pezzo le genti d’Adem gli tolsero per forza. In questo comparve Raysalmon e saltò in terra con tutta la gente, prima avendo buttato a basso venticinque passi di muro e ripresa la sua artegliaria e molt’altra che stava in terra appresso il muro rotto, sendo poca gente di dentro e la sua invilita, faccendogli gran danno l’artigliaria, si ritrassero e tornarono insieme con le galere a Cameran, e di Cameran al Zidem, dove trovando la revoluzione del Cairo, vennero i Capitani in differenzia e Amyrasem fuggì alla Mecca. Il quale i signori della Mecca, per timore ch’avevano, mandaron preso a Raysalmon, e lui, dandogli ad intendere che lo mandava al Cairo al gran Turco, del navilio nel quale avea a passare lo mandò a gittare in mare, mettendosi egli in ordine colle due galere per passare al gran Turco, come già disse.

15
Come Zeila città fu da’ Portoghesi desolata dal fuoco. Dell’isola detta Barbara; di Dufar, terra d’Arabia, dove vien l’incenso; del re Salatru; del castello detto Alba.

Partimmo dell’isola di Cameran per l’India alli 13 di giugno, e passato la bocca del mar Rosso, non so per qual cagione così denominato, non sendo dissimile di colore a nessun altro, fummo costeggiando l’Etiopia fino a Zeila; e saliti in terra la vigilia di santa Maddalena, la trovammo senza alcuna difensione, perché al nostro sbarcar fuggirono la maggior parte. Quelli che restarono, che poteva esser cinquecento persone, si misero i più vecchi a filo di spada e gli altri ne portammo per ischiavi. Poco fu lo spoglio della città, però che, sapendo che noi eravamo passati il mar Rosso, essi ebbero tempo di scampare le lor robbe. Non stemmo in essa più ch’un giorno e del tutto la distruggemmo, non lasciando casa che dal fuoco non fusse desolata. La detta città di Zeila giace in undeci gradi e mezzo, edificata in terra bassa e arenosa, senza circuito di muro, ed è di ragionevol grandezza, e abbondantissima di grano e bestiame e molte maniere di frutti alli nostri dissimili, che produce dentro la terra ferma di tal regno in tanta abbondanza, che di questo porto e d’un’isola sopra a Zeila nella medesima costa, detta Barbara, si navigano in tanta quantità che fornisce Adem e il Zidem di vettovaglie e di carne. Zeila è lontana dalla bocca dello stretto trenta leghe: qui facevano scala infinite navi d’Adem e dell’India, cariche di più sorti di mercanzie, massime d’incenso, che viene di Dufar, terra d’Arabia fra il sino Persico e Adem, e di pepe e panni che vanno di qui in cafila, cioè con carovana di camelli, per la Etiopia e per le chiese de’ cristiani. E ancor che sempre fra Zeila e i cristiani sia continua guerra a fuoco e sangue, non s’intende però questo per i mercanti né per le carovane, che sempre vanno e vengono salve e sicure.

Della detta città di Zeila è signore, e di molte terre grandi del regno di Adel, un re moro chiamato Salatru, il quale dicono esser della medesima generazione del re David, perché il suo primo antecessor, ch’era maggior fratello del re ch’in quel tempo signoreggiava l’Etiopia, essendo stato preso e posto sopra una grandissima montagna, nella quale è un castello detto Amba, dove li re d’Etiopia guardano serrati tutti i figliuoli, perché non si levino contro quello il quale loro vogliono che sia erede del regno, e che faccino divisione nelle terre, ebbe modo di fuggirsi in questa parte, maritandosi con una figliuola del re di Zeila, per la quale successe dipoi nel regno. E diventato moro fece sempre guerra a’ cristiani, e dipoi i suoi descendenti mai lasciarono di guerreggiare senza che cristiani gliela potessino impedir, rispetto alla terra, la qual è aspra e montuosa. Da’ Mori che menammo presi di Zeila, intendemmo ch’il ditto re Salatru era fuggito in una guerra ora fatta contra a’ cristiani, e che un suo capitano chiamato Mafudei, molto nominato in Etiopia e per l’Arabia, era stato morto, ed era per il nostro ambasciadore del paese conosciuto, perché son cinque mesi passati che questo re ‘nsieme col detto capitano feceno un assalto nelle terre dentro con trentamila persone, per rubbare bestiami e schiavi, com’è costumato, e fece una preda grandissima e abbruciò monasterii e chiese: la qual cosa avendo inteso il re David, se ne venne con grande esercito a trovarli e circondò certi passi, dove vedendosi serrati, il re ne fuggitte e il capitano fu morto con tutte le sue genti, e per questa causa dicono che noi non trovammo resistenzia nella città di Zeila. Ebbe l’ambasciadore del Prete Ianni gran piacere di tal nuova e delle destruzioni che facemmo, parendogli ch’al presente in detto regno non restasse ostaculo che lo defendesse più dalle forze del re David, onde si potrebbe congiungere con li Portoghesi, a destruzione de’ Mori. I quali dicono avere per loro profezie che la Meccha e Medina Talnabi hanno da essere desolate per li cristiani d’Etiopia.

16
Come i Portoghesi arrivarono al porto, dove stati alquanti giorni senza risoluzione di pace o guerra, riscossi per Mori alcuni schiavi, si partirono, e per il vento contrario non poteron andar dove era la loro intenzione. Di Calaiate, porta d’Arabia, e della natura e costume di quelle genti.

Partimmo di Zeila al cammino di Adem all’altra costa d’Arabia, e traversando il sino Arabico vi arrivammo in otto giornate. Stemmo in questo porto d’Adem surti cinque o sei giorni, senza far risoluzione né di pace né di guerra, perché i Mori ch’al presente si trovavano nella città erano meglio provisti, e sapevano esser molti morti nella nostra armata e la maggior parte venire di mala disposizione, perché, essendo già IX mesi che eravamo partiti dal Zidem senza pigliare in nessuna terra rinfrescamento, andavamo molto mal trattati, e per questo si passaron con noi per il generale; né il capitan maggior volse offerire né domandare cosa alcuna, parendogli la guerra con Adem dover far più profitto che danno, rispetto alle navi. Molti Mori vennero a riscattare schiavi di conto che s’erano pigliati in Zeila, e massime certi sciriffi e sciriffe, così chiamati, d’una generazione de Mori della casa di Maumetto, che tenevano per gran peccato restassino nelle nostre navi; molti altri si dettero in baratto di castrati e acqua e frutte.

Nel porto stavano quattro navi grosse cariche di robbe, acqua rosata, zibibbo e molte mandorle, e d’un’altra druga medicinale che si chiama amffiam, che nell’India è tenuta in grandissimo prezzo, la qual druga costumano gran parte de’ Gentili e Mori per lussuriare, perché è molto a proposito a levar il membro genitale. E questo semplice nasce in Etiopia e nell’Arabia, e credo da noi sia chiamato oppio tebaico, il qual è venenoso, ma costumasi ad esso pigliandolo a poco a poco, e in piccola quantità per volta. Queste mercanzie si caricano nel porto di Adem per l’India: il capitan maggior per maggior franchezza non volse pigliarle.

Ma il giorno di san Lorenzo partimmo con intenzione di passar all’isola detta di Barbara, nella costa di Etiopia, ch’in essa si poteva rinfrescar l’armata di vettovaglia, carne e acqua, che di tutto eravamo molto necessitati. Passammo un’altra volta per il sino Arabico all’altra costa, e per causa che i pilotti o non la conoscessino o non volessino là guidarci per alcun suo rispetto, non vi andammo; e di qui determinammo di andare a pigliare acqua nel capo di Guardafuni, e il vento non ci servendo a nostro modo, andavan molte navi come perdute, senza acqua, perché quella che portammo di Cameran avevamo quasi consumata. E gittandosi il capitan maggiore un’altra volta nella costa d’Arabia, non potendo passar al capo di Guardafuni se non in volte, molte navi, separandosi dall’armata, restarono nella costa d’Etiopia per veder se potessero trovare acqua. Noi fummo a nostro cammino insieme col resto dell’armata, ancora che restasse con poca compagnia, perché tutti cercavano loro ventura, e con molto travaglio passammo del sino Arabico nel mar Oceano, ed essendo vicini a Soquotora, con intenzion di pigliar porto, mutandosi il vento fummo forzati tenere altro cammino, e determinammo di passare ad Ormuz. In questo viaggio ci sopravenne tanto mancamento d’acqua, che molti uomini de’ nostri mal trattati dalla sete morirono, e della ciurma delle galere e de’ cristiani malabari e schiavi d’uomini particolari, che pochi restarono con la vita, perché la sete e la fame generava una infermità di petto, che senza febre si spacciavano in due giorni: ed era tanto generale in tutti, che non fu alcuno in questo viaggio che non si cavasse sangue molte volte, ch’era il meglior rimedio per tal infermità.

Piacque a nostro Signore por fin a nostre fatiche e condurci a Calaiate, porto d’Arabia Felice vicino al sino Persico e all’isola d’Ormuz 100 leghe, dove stemmo XV giorni, ne’ quali tutta la gente ritornò sana, col rinfrescamento della terra di Calaiate, la qual (com’è detto) è terra d’Arabia Felice, in XXII gradi di latitudine, non molto maggiore di Zeila, con casamenti di pietra e calce e senza mura, situata nella costa giunta col mare. Li naturali d’essa sono arabici nel parlare, vestire e ne’ costumi: tengono un panno atorno le parti vergognose e in capo uno turbante, e li più onorati vestono una camicia lunga cinta, con maniche larghe, come i camici de’ sacerdoti, e la maggior parte una berretta lunga di feltro grossa, di colore lionato scuro, di forma piramidale come la mitria del papa. Le donne tengono sempre la faccia coperta con un panno di cotone, raro come di velo e di colore azurro, tagliato sopra gli occhi come maschera. L’abito loro è uno palandrano diviso davanti, la lunghezza del quale non passa il ginocchio a basso, e con maniche molto larghe; portano calzoni lunghi fino a’ piedi, di varii colori, e sopra il naso da una banda una balletta d’oro larga, confitta nella carne, e da basso un anello, come i bufoli di nostra terra.

La terra ferma di Calaiate è naturalmente sterile (com’è tutta l’Arabia) e in essa sono uve e grandissima quantità di dattili; produce pochi semi, e gli uomini più ricchi si cibano di riso e d’alquanto grano, che viene di fuori d’altre regioni; gli altri di dattili, che sono a loro communi come a noi il pane di grano: e di questo si mantiene la maggior parte d’Arabia Felice, e anco con latte e butiri, per la moltitudine del bestiame, ch’è in grand’abondanza. Da questo porto si navigano gran quantità di cavalli per l’India, i quali, dipoi che Portoghesi presero Goa e Ormuz, non possono disbarcare in altra parte dell’India che nell’isola di Goa, donde passano in Narsinga e nelle terre di Cambaia contermine a detta isola: e paga ogni cavallo di diritto 40 seraffi, il che rende ogni anno al re nostro signor da seraffi quarantamilia, e per questo proibisce che non vadino per altre parti, per non perder i diritti ch’hanno a pagare nell’isola di Goa.

17
Di Mascat e Corfucan, porti d’Arabia; e la discrizione dell’isola d’Ormuz, e della natura e costumi di quel popolo, e con che arte quelli isolani procurino di rinfrescar le lor camere al tempo caldo.

Di qui mandò il capitan maggiore un suo nepote con quattro navi alla volta dell’India, ad ordinar le speziarie di quest’anno per Portogallo, ed egli si partì con l’armata per Ormuz. Io mi misi in una nave de Mori, desideroso di vedere alcune terre d’Arabia, e fummo lungo la costa a Mascat e Corfucan, porti nominati in questo sino, com’è Calaiate, della medesima lingua, costumi e vestiri. Di qui passammo allo stretto di Persia, a vista di terra d’ogni banda 8 leghe, e fummo all’isola d’Ormuz quattro giorni prima che l’armata.

L’isola d’Ormuz è in XXVII gradi, di cinque leghe di circuito, distante dalla terra di Persia due leghe, terra sterile e secca e senza arbori, frutti o erba di alcuna qualità, e di forma triangolare. Nella basa del quale dalla banda del mare sono certi monti non molto alti, pieni di grandissime pietre di sale di colore di cristallo, lucide e alcune vermiglie; il resto è tutta pianura, e la città è posta nella punta dalla banda della terra ferma, pigliando gran parte de’ lati del triangolo, e può esser di maggior grandezza che Adem e della medesima bellezza, riservato che non tien mura. È molto populosa, più di forestieri di Persia, Arabia e India che de’ medesimi naturali, i quali sono di colore fra olivastro e lionato, vestiti con camicie lunghe, cinti nel mezzo con un panno di seta o di cottone, e turbanti bianchi e colorati. Le donne tengono coperto il capo e la faccia con un panno di seta o di cottone di varii colori, che per la sua grandezza veste tutto il corpo sino in terra, e di basso di quello una camicia, e molte hanno la balletta e l’anello al naso, come nella costa di Arabia. Gli ornamenti del capo sono certi veli sopra i capelli, composti come mazzocchi che si veggono in figure antiche della nostra terra.

L’aere di questa isola è salutifero d’ogni tempo e stagionato come nelle parti nostre, cioè primavera e autunno temperato, e l’inverno frigido più che in alcuna parte di queste terre, per essere esposto più al polo settentrionale; nell’estate è caldissimo estremamente, tal che egli è necessario dormire sopra terrazzi discoperti all’aere e denudati. E per tanta calidità costumano certi ingegni, come cammini, i quali, cominciando dalla sala di basso o d’alcuna camera, divisi in otto parti, procedono sopra le lor case con le istesse divisioni, e ogni vento, per poco che sia, battendo nella faccia di fuora di tali ingegni over cammini per la parte donde viene tal vento, cade subito in basso per una delle dette otto parti, refrigerando con grandissima frescura tutta la loro abitazione, dico de’ più ricchi e onorati.

18
Di Balsera, porto e città di Persia; di Bagadat, città di Mesopotamia. E come i governatori di Ormuz, per le sue gran rubarie fatti ricchi e potenti, si levorono contro i lor re naturali, e che modo tenevano di accecarli.

In questo tempo passammo alla terra ferma, ch’è piena di arbori e d’acqua dolce, dove sono lor ville per refrigerarsi. Ormuz era già più nobile e di più ricchezze che Adem di sopra nominata, perché antiquamente il commerzio delle specierie d’India era universale in questa isola, le quali di qui transferivansi per la Balsera, porto e città nel sino di Persia, novamente da’ nostri quest’anno scoperto appresso il fiume Eufrate, donde egli entra in mare; di qui passavano a Bagadat, città di Mesopotamia, navigando sempre per detto fiume, e dipoi per terra nella Asia Minore, in Damasco e Aleppo, de’ quai luoghi venivano in Europa, prima che si navigasse in Alessandria; e similmente di questa isola passavano in Armenia e Turchia e per tutte le provincie di Persia. E quantunque il porto di Alessandria facesse alcuno impedimento, non ha lassato però detta isola d’Ormuz fino al presente giorno di esser scala per queste parti, mantenendosi sempre in grande altezza.

Egli è ben vero che la malignità de’ governatori di quella diedero causa che si disabitasse in parte da molti mercanti, che prima solevano vivere in questa città, per le ruberie grandi che facevano: e questo da CC anni sino alla venuta del signor Alfonso d’Alburquerque. I quali governatori, tenendo il tratto e l’entrata nelle mani, cominciarono a crescere in tanto grado e farsi così ricchi e potenti, che col favor e ricchezza cominciarono a levarsi contro al re naturale, deponendo or uno e ora cecando un altro di nuovo, esistimando per certo che, pigliando col tempo il re fermezza, non averebbero rimedio di non esser privati di tal loro governo: e per questo costumavano accecarli, faccendogli nel principio di lor creazione guardare forzatamente in un ferro affocato, che per la sua calidità e vampo faceva scopiar la luce. Fu questa mutazione sì frequentata che, quando il signor Alfonso d’Alburquerque fece la fortezza in Ormuz, e l’isola tributaria al re nostro signore con XV mila saraffi, tagliando a pezzi il governator (come per l’altra mia ne scrissi), mandò a Goa XII re di questa isola, tutti della luce privati, mantenendo il re sino al presente giorno in suo stato. Perché, ancora che si facesse un nuovo governatore, essendo a volontà del re e con timore ne’ Portoghesi, non pigliò mai tanto ardire di far alcuna innovazione: per questa causa questo re ch’è al presente, riconoscendo il gran bene che egli è venuto da’ Portoghesi, è nostro amico di volontade.

Questa isola, per il gran commerzio che già dicemmo, è abondantissima di pane, carne, frutte e ortaggi, e simili alle nostre e anco d’alcuna altra sorte, come nella India; e tutto si trova a bastanza per le piazze e taverne, cotto e crudo, e il vivere è caro, peroché tutto viene di terre lontane, di Arabia, Persia e Mesopotamia, e per la moltitudine della gente che qui contratta. Trovansi in essa confezioni, conserve, acque stillate di ogni maniera e simplici medicinali, come sono in tutte le speziarie di Italia; non costumano compositi di alcuna sorte. Sono gli uomini di questa terra massimamente persiani, e alcuni armeni, molto liberali e piacevoli, pieni di discrezione e gentilezze, amorevoli e vertuosi e di ogni opra intelligenti; fra essi son astrologi, e altri molto pratichi nel Testamento vecchio, là dove è fondata la legge maumettana, con addizione nuove che fece Maumetto.

19
Del Sofì, re di Persia, e sua legge; onde procede la differenzia ch’è fra Turchi e Mori di Arabia. Delle monete di Ormuz, e come il re di Ormuz venne a ricever il capitan maggiore.

Per quanto io possetti comprendere da questi tali, il Sofì, che è signore di Persia e di alcune terre di Arabia, Turchia e Tartaria, è totalmente maumettano, senza alcuna aderenzia con la fede nostra, e molto più che tutti gli altri di tal legge. Ma la differenza ch’è fra Turchi e Mori di Arabia e di Africa contro al detto Sofì, procede dalli compagni che furno di Maumetto, che erano molti, i quali tutti gli altri maumettani dicono essere stati salvi e buoni, e il Sofì in opposito combatte, dicendo che solamente Aly, che fu genero di Maumetto, fu ambasciador e profeta di Dio come è Maumetto, ma non tanto grande, e che tutti gli altri furono falsi: e sopra questa differenzia sono le guerre contro al Turco. Detto Sofì è inclinato alla benevolenzia de’ cristiani, per conoscer gli uomini d’ingegno, e più oltre perché questi Persiani sono di buona natura e qualità. In questi Persiani viddi l’istoria di Alessandro Magno, ma per esser rara e in mano di gran signori non potei averla come desiderava.

Le monete di Ormuz sono saraffi e mezzi saraffi d’oro, i quali chiamano azar; evvi un’altra qualità di monete d’argento, che loro chiamano sadi, de’ quali vale XX uno saraffo e X uno azar. Hanno anche una sorte di moneta di tanta finezza e sì buona che corre per tutte le terre di queste parti, così nella India e Arabia come nella Persia, e parmi che sia poco differente dallo argento di coppella: vagliono sei d’esse per uno ducato, e sei per uno saraffo; sono come un pezzo d’argento lungo e addopiato, battuto da ogni banda con stampa di lettere di Persia, e queste si chiamano tanghus.

Alla venuta del nostro capitan maggiore, il re d’Ormuz con li principali della città, accompagnato da molta gente di sua guardia, fu a riceverlo alla spiaggia del mare, vestito alla persiana, con una vesta lunga turchesca di veluto nero con liste d’oro, e in capo uno turbante di seta avolto a una beretta d’oro tirato, ritonda e a spichi, come la metà d’uno mellone, e nel mezo d’essa è levato un gambo composto della medesima opera, di grossezza di piena mano e lungo un palmo e mezzo: questa berretta costuma mandare il Sofì (in queste parti chiamato sciech Ismael) a’ signori suoi sudditi e tributarii, in segno d’amicizia e obedienzia, la qual al presente tengono tutti i popoli di Persia e d’altre terre di detto sciech Ismael, e seguaci di sua setta. E in Ormuz, nella gente della corte del re, la maggior parte delle lor berrette sono di panno di lana vermiglio, e de’ più onorati di velluto o damasco di Persia o di broccato; e se ben mi ricordo, questa medesima portavano li mercanti persiani che furono nella nostra città l’anno 1514. Il capitan maggiore, doppo molta congratulazione, levò il re da mano destra sino al palazzo reale, ancor che lui recusasse molto tal compagnia; dipoi si tornò per la nostra fortezza, e questo giorno si fece festa generale per tutta l’isola.

20
Descrizione della fortezza d’Ormuz, e del presente fatto per quel re al capitan maggiore.

La fortezza d’Ormuz è grande di circuito, ben fondata di forte mura, con quattro faccie divise con otto torrioni, con le sue bombardiere da basso, che riscontrano l’una contra l’altra, battendo lungo il muro; ed è posta nella punta del triangulo di detta isola, dalla banda di terra ferma, fra la quale e l’isola è il porto. Il mare batte le mura da due bande; nel mezzo tiene un castello forte di monizione e vettovaglie, spiccato dalle mura della fortezza. Dentro dal circuito sono quattro cisterne riservate per ogni necessitade, perché in tutta l’isola fuora della città non è se non un pozzo, che non è bastante per la casa del re, e non si trova altro loco donde possino cavare per aver acqua, che tutta è salmastra; l’acqua dolce viene di terra ferma di Persia.

Il re, dopo quattro giorni della venuta del capitan maggiore, fu alla fortezza a visitarlo con un presente ricchissimo di varie gentilezze, fra le quai erano un cavallo persiano intiero, che son della medesima qualità di Turchia di forza, persona, bellezza e leggierezza, che con suoi fornimenti bellissimi fu stimato 1OOO saraffi; e più gli diede una scimitarra damaschina con la vagina e fornimenti d’oro e perle e di pietre preziose di gran valore, e molte pezze di damasco di Persia, per i capitani che vennero con l’armata. L’altro giorno cavalcarono co’ principali dell’armata e della città a veder l’isola, e in campo, a piè delli monti già nominati, il re con gli altri giovani portoghesi e persiani fecero molte correrie, menando in sua guardia CL cavalli leggieri e 600 uomini a piede, la maggior parte con arco e turcasso, vestiti con giubbe imbottite di seta e di gottone, e con turbanti e berrette rosse alla persiana, faccendo gran sollazzo tutto ‘l giorno. Con questi piaceri stemmo quindeci giorni in Ormuz.

21
Dell’isola detta Baharem. Che sorte di mercanzie vengono di Persia per l’India.

In questo tempo vennero di Baharem molti navili, la qual è una isola lontana da Ormuz sei giorni di navigazione, posta nel sino di Persia dentro dalla banda donde sono i diserti di Arabia, i quali terminano in questo mare; e portarono gran quantità di perle, delle quali in quest’isola è il principal tratto di tutta Persia, sendo Baharem suddita al re d’Ormuz: e perché di qui si mandano nell’India per l’Arabia e per le provincie di Persia fino in Turchia, sono in tanto prezzo ch’io sto in dubbio se nella nostra terra vagliono tanto come qua. Similmente avemmo nuove ch’in un porto di terra ferma vicino a Ormuz X leghe stavano carovane di Siras e di Tauris, terre di Persia, e del mar Caspio e della provincia de’ cristiani che termina a detto mare, e levavano seta, stravai, taffetà e damaschi, acqua rosata e d’ogni sorte stillate, aceti di menta, cavalli e robbia, che queste sono le mercanzie che vengono di Persia per l’India. E alcuni mercanti vennero in Ormuz e comperarono infiniti panni rossi nuovi e usati, che qui valevano assai, per far le berrette che già avemmo nominate; la maggior di loro restò nel porto aspettando la nostra partita, non fidandosi venire nell’isola dimorandovi l’armata.

Con questa carovana venne una lonza da caccia ch’il re di Ormuz aveva ordinato per mandare al re di Portogallo, il quale mandò a domandarla per la santità di nostro Signor, e consegnatola al capitan maggiore, ci partimmo il giorno di Tutti Santi. Lasciato però nella fortezza d’Ormuz molta gente per sua difensione, fummo costeggiando per lo stretto dalla banda di Persia, ed entrati nel mar d’India pigliammo porto nell’isola di Goa in termine de XXX giorni, che è lontan di Ormuz leghe 400. Qui avemmo nuove di diece navi grosse ch’erano venute di Portogallo con 2000 uomini, e che di già erano passati alle fortezze di Calicut e Cochin: il che diede gran letizia a tutta l’armata. Non facemmo dimora più che tre giorni in Goa, e fummo subito a cammino di Cochin, dove arrivammo del mese di decembre: e qui finimmo un anno giustamente dal dì che di là eravamo partiti e passati alli travagli soprascritti. Qui mi trovo al presente, dando più l’un giorno che l’altro grazie al nostro altissimo Signore Giesù Cristo di avermi condotto a salvamento e liberato di tanti pericoli corsi per questo cammino dello stretto, che non fu poca grazia il tornare in India, essendovi morta infinita gente e restandovi ancora nove navi, tra grandi e piccole, le quali non sappiamo se sono perdute, e già quest’anno non possono tornare: piaccia a nostro Signore che si siano salvate in qualche porto e che a tempo nuovo si aspettino per la India.

Dopo la tornata del capitan maggiore, non si attende ad altro che a mettere in ordine navi sei per Portogallo, le quali si partiranno per tutto questo mese di gennaio: e di già tre vanno alla vela, e questa sarà la quarta. Due d’esse sono ciascuna di duamila botte, e tutte l’altre di 800, 900 e 1000, e levano per il re 50000 quintali di pepe e molto giengiovo, cannella e garofani, gomma lacca e seta della Cina, sandalo vermiglio, oltre a infinite ricchezze d’uomini particolari: piaccia a nostro Signor vadano a salvamento. Espedita tal commissione, partirà di nuovo un capitano per lo stretto del mar Rosso per andare sino al capo di Guardafuni, con sei o otto navi, per passare, dipoi espedito di là, all’isola d’Ormuz. Un altro per la costa di Cambaia con quattro navi; un’altra per il sino Gangetico, a discoprire il regno e porti di Bengala, dove non furono nostre navi per alcun tempo; e un’altra per Malaccha e per il sino Magno di Cina, e in questa è oppenione che andarà il capitan maggiore. L’Altissimo lasci seguire quello ha da essere più suo servizio.

Io, per poter a mia sodisfazione investigare il vivere e costumi di queste terre, passarò questo anno con Piero Strozzi alla casa di san Tommaso, di qua distante leghe 250, dove fu’ il primo anno che di qua comparsi; e di lì a Paleacate, porto del regno di Narsinga, nel qual dal regno di Pegu navigano gran somma di rubini, e con certi Armeni cristiani miei amici determino di transferirmi per la terra ferma e spendere cinque o sei mesi in vedere le provincie di tal regno, per tutte queste parti di potenzia e ricchezza nominato. Da Paleacate per mano di detto Piero Strozzi (che quest’anno prossimo dice che torna per la patria) di tutto darò notizia a V.S.,piacendo a Iddio nostro Signore, il quale sempre si degni conservar quella con prospero e felice stato, e a me anche conceda grazia ch’io mi riduchi nella patria che tanto desidero, dove con umil riposo, in cambio di tanto travaglio, possa servire a quella, in questa e in ogni altra occorrente opportunità.