Il Viaggio di Odorico da Pordenone in India, Cina, Tibet


 Odorico Mattiuzzi da Pordenone(Villanova di Pordenone, 1265 – Udine, 14 gennaio 1331)

 

ODORICO da Pordenone. – Secondo il cronista trecentesco Giovanni di Viktring, nacque a Pordenone da una delle famiglie lasciate a presidio della cittadina friulana da Ottocaro II, re di Boemia nei primi anni Settanta del Duecento. Forse da questo ebbe origine la voce, non confermabile, che Odorico fosse di stirpe boema. Sicuramente non nacque dalla famiglia Mattiussi-Mattiuzzi e nemmeno nel 1265, data proposta da padre Girolamo Golubovich, mosso da preoccupazioni ostili alla supposta ascendenza boema di Odorico. Preferibile è la tradizione che lo vuole nato nei primi anni Ottanta del secolo XIII, rafforzata dalla ricognizione medica sui resti parzialmente mummificati del corpo (2002). Se all’epoca della morte (1331) Odorico poteva avere circa 50 anni, si può calcolare che fosse nato attorno al 1280.

Gli agiografi trecenteschi dicono che entrò giovanissimo tra i frati minori. Mancano conferme, ma è forte la suggestione di riconoscere in lui un «Odolricus puer fratrum Minorum», che fu testimone con altri quattro frati a un atto redatto a Gemona del Friuli il 9 febbraio 1296 (Tilatti, 2004, p. 6). Se così fosse, gli scarni lineamenti biografici dell’agiografia troverebbero conforto.

Odorico vivente è nominato in tre atti notarili (1316, 1317 e 1318) nei quali appare, come teste o attore, in diverse località del Friuli: Cividale, Castello di Porpetto, Portogruaro. La qualità dei negozi giuridici, gli attori e i testimoni svelano il prestigio e le relazioni di alto livello sociale e istituzionale nelle quali era inserito e lasciano pensare che avesse contatti con la curia avignonese. Tale possibilità darebbe senso istituzionale al successivo viaggio in Oriente, data l’attenzione del papato per le missioni. Il concilio di Vienne, infatti, aveva disposto la costituzione, a Bologna, Parigi, Oxford e Salamanca, di scuole di arabo, ebraico e caldeo per istruire missionari disposti a evangelizzare i popoli orientali (canone 24).

Proprio la relazione del viaggio in Oriente, che rese celebre Odorico, può corrobare l’ipotesi. Essa fu dettata nel maggio 1330 a Padova, al confratello Guglielmo da Solagna, per ordine del ministro provinciale dei Minori. Sembrerebbe dunque concepita come un documento ufficiale da recapitare alla curia papale, dove giunse. Le fonti agiografiche trecentesche, inoltre, sostengono che Odorico fosse tornato in patria per ottenere dal papa rinforzi per le missioni in Cina. Sono notizie non verificabili, però la mobilità del frate, che mostra di aver conosciuto numerose città italiane prima dell’Oriente, e la sua caratura elevata nel contesto storico in cui visse suggeriscono che il viaggio oltremare non fosse il frutto dell’inquietudine di una coscienza, né il riflesso di un moto di fuga di un membro di una frangia spirituale emarginata e perseguitata all’interno dell’Ordine.

La ‘missione’ sembra condotta secondo le consuetudini dei frati (Odorico ebbe almeno un socius, frate Giacomo d’Irlanda) e fu conclusa, appunto, con un resoconto ufficiale. Si tratta dell’Itinerarium o Relatio, che ebbe un’ampia fortuna manoscritta latina (circa 80 testimoni superstiti), suddivisa in diverse recensioni, più volte pubblicate a stampa, a partire dal 1513, sebbene manchi un’edizione critica migliore di quella di Anastaas van den Wyngaert, del 1929. Precoci furono i volgarizzamenti (molti editi): sette in italiano, due in francese e in tedesco, uno in catalano-castigliano e in gallese, fino a versioni più recenti in inglese e in ceco.

Odorico partì dopo il 1318, da Venezia, per sbarcare a Trebisonda, sul Mar Nero, la prima sosta documentata nella relazione. Da là, si mosse per via terra verso Hormuz, per salpare verso l’Oceano Indiano. Non ci sono dati cronologici precisi circa il susseguirsi delle tappe. Odorico forniva brevi note descrittive dei luoghi toccati, segnalava peculiarità culturali, religiose, sociali, produttive e commerciali, e indicava i tempi di percorrenza medi che separavano una località dall’altra.

L’approdo di Odorico in India fu Tana, a nord est di Mumbai. Qui seppe del martirio di quattro frati minori, avvenuto nell’aprile 1321: un termine post quem per i tempi del viaggio. Recuperò le ossa di Tommaso da Tolentino, Giacomo da Padova e Demetrio da Tiflis (ma non il corpo di Pietro da Siena) e le portò sino a Quanzhou, allora sede vescovile. Una lettera del vescovo, Andrea da Perugia, datata 1326, conferma la loro ricezione.

Dopo Tana, Odorico proseguì verso Malabar e Chennai (Madras), visitò la tomba dell’apostolo Tommaso a Mylapur. Di seguito il racconto appare più confuso ed è difficile capire la direzione dei movimenti e identificare le località toccate, in una peregrinazione che, se non è casuale, ha lo scopo di esplorare quanto più possibile rotte e regioni incognite. Da Ceylon Odorico passò per le isole Adamane, Nicobare, Sumatra, Giava, Borneo, forse per le Filippine e altri approdi. Solo l’arrivo a Guangzhou (Canton), nel Catai, l’impero del Gran Khan, conferisce una nuova linearità all’itinerario.

Le tappe successive furono Quanzhou, Fuzhou, Hangzhou, Nanchino, Yangzhou e altre città, spesso di incerta identificazione, ma gigantesche e ricchissime, a confronto con le più modeste città italiane. Odorico giunse coi compagni a Khanbaliq, oggi Pechino, sede imperiale e dell’arcivescovo francescano Giovanni da Montecorvino, che, partito da Rieti nel 1289, era arrivato alla sua sede nel 1294-95; nel 1307 Clemente V lo aveva elevato a metropolita di tutto l’Oriente, prima della creazione (1318) della metropoli di Soltaniyeh, in Persia, affidata ai predicatori. Giovanni tentò di evangelizzare specialmente i cristiani nestoriani, ma non riuscì a formare un clero indigeno. Non ci sono prove per collegare il viaggio di Odorico con l’azione dell’arcivescovo. Non si sa nemmeno quando il frate friulano sia giunto a Khanbaliq, benché si pensi a un periodo tra il 1322 e il 1325. È verosimile che Odorico incontrasse il presule, sebbene non ne parli nell’Itinerarium, come non parlò di attività propriamente missionarie, ma asserì di essere rimasto tre anni nella capitale dell’Impero. Giovanni da Montecorvino morì nel 1328. Questi dati hanno indotto l’ipotesi che Odorico fosse stato incaricato di tornare in Occidente per sollecitare aiuti.

Il viaggio di ritorno seguì il tragitto interno, noto come ‘via della seta’, attraverso la Cina, il Pamir, la Persia e il Mar Nero, sino, probabilmente, a Venezia. La descrizione è molto più sbrigativa, con cenni a curiosità e a storie in buona parte già note in Europa, come quella sul mitico regno del prete Gianni. Forse Odorico approdò in Italia tra il 1329 e il 1330. Sicuramente nel maggio 1330 era a Padova, ma la notizia, tarda, che volesse recarsi ad Avignone sembra cozzare contro il riscontro degli eventi. Il 14 gennaio 1331, infatti, Odorico morì a Udine, nel convento di S. Francesco, per complicanze cardiache causate da insufficienze respiratorie, secondo gli esiti dell’autopsia praticata sui resti mummificati della salma.

La morte avviò la fama di santità di Odorico. La chiesa conventuale udinese divenne il centro di una devozione amplificata dal succedersi di miracoli testimoniati da due raccolte. La prima, schematica ed essenziale, fu composta per iniziativa dei frati del convento; la seconda fu promossa dal patriarca di Aquileia, Pagano Della Torre, che nel maggio 1331 nominò una commissione incaricata di raccogliere testimonianze giurate sui miracoli patrocinati da Odorico. Era una prassi mutuata dai processi di canonizzazione e il dossier raccolto fu probabilmente inviato alla curia papale, ma non resta memoria di un processo curiale. La provenienza dei miracolati mostra che il culto, oltre che a Udine (dove assunse una valenza quasi civica) e in Friuli, aveva ramificazioni in Carinzia, in Istria e nel Veneto, favorito dalla propaganda dei minori.

Il patriarca decise di traslare ed elevare il corpo dell’ormai beato Odorico in un sepolcro lapideo, commissionato e pagato dalla comunità di Udine e scolpito da un artista veneziano, Filippo de Sanctis. La cerimonia di ‘canonizzazione’ episcopale avvenne nel 1332. Odorico fu venerato nella chiesa di S. Francesco e la cappella a lui dedicata fu affrescata, nel Quattrocento, con episodi del viaggio in Oriente e dei miracoli. Le reliquie furono rimosse a causa delle soppressioni venete (1769) e dopo alcune peregrinazioni pervennero alla chiesa di S. Maria del Carmine, dove tuttora si trovano nell’arca ricomposta.

La memoria agiografica di Odorico fu assicurata dalla Relatio, integrata nella tradizione manoscritta ‘udinese’ con la raccolta dei miracoli, e fu amplificata nei vari Catalogi sanctorum dell’Ordine, nella Chronica XXIV generalium ordinis Minorum (1369-73), attribuita a frate Arnaldo da Sarrant, e nel De conformitate vitae beati Francisci ad vitam domini Iesu di Bartolomeo da Pisa (1385-90). Nel secolo XVIII, l’Ordine, insieme con la diocesi di Aquileia e la municipalità udinese, avvertì la necessità di ottenere dal papa un decreto di beatificazione equipollente. Il processo fu avviato nel 1749 e il 2 luglio 1755 Benedetto XIV emise il decreto di conferma del culto ab immemorabili. 

(Enciclopedia Treccani)

 

 

VIAGGIO DEL BEATO ODORICO DA UDINE, DELL’ORDINE DE’ FRATI MINORI; DELLE USANZE, COSTUMI E NATURE DI DIVERSE NAZIONI E GENTI DEL MONDO; E DEL MARTIRIO DI QUATTRO FRATI DELL’ORDINE PREDETTO, QUAL PATIRONO TRA GL’INFEDELI

 

Versione A

Quantunque molti scrittori, quali hanno scritto del sito de la terra, abbino ancora detto delle usanze, costumi e natura di diversi popoli, nazioni e genti di esse, nondimeno, avendo io deliberato passar di là dal mar verso le parti orientali, acciò facessi alcun frutto nella salute dell’anime, mi è parso cosa lecita dire molte cose degne di grande ammirazione, come quello ch’avendole viste e intese possa fedelmente scriverne. Dico dunque che, passando il mar Maggior, me ne andai in Trabisonda, anticamente chiamata Ponto Euxino. Questa terra è molto ben situata ed è porto e quasi scala di Persiani, di Medi e di tutti quelli che sono di là dal mare. Qui vidi cosa che molto mi piacque: eravi un uomo qual menava seco più di quattromilla pernici, ed esso camminava a piedi per terra, e quelle lo seguivano volando per l’aere; e se ne andavano ad un certo castello chiamato Zanga, lontano da Trabisonda tre giornate. Queste pernici erano di tal sorte che, volendo il dito uomo riposarsi, tutte, a guisa de polli, intorno di lui s’acconciavano; e così le conduceva in Trabisonda, sino al palazzo dell’imperatore, ove egli eleggeva quante ad esso piacevano, e l’altre da novo menava al loco di dove prima l’aveva tolte. Sopra la porta di questa città è posto il corpo di s. Atanasio, quello dico qual compose il simbolo qual comincia: “Quicunque vult salvus esse etc.”.

Ora, da quivi partendomi, me ne andai nell’Armenia maggiore, ad una città domandata Acron, città certamente buona; e per il tempo passato fu molto ricca e abondevole di carne, pane e di molte altre vettovaglie, eccetto che di frutti; e oggidì in quello stato di abondanzia e suo esser sarebbe, quando da gente tartaresche e moresche non fusse stata destrutta. Questa dicono esser la più alta terra che al presente sia nel sito del mondo. Ha ancora buone acque, imperoché le vene dalle quale esse acque sorgono e nascono hanno origine e capo dal fiume Eufrate, distante dalla detta città una giornata; e da quello le acque per ditte vene pianamente trascorrono insino ad essa. Questa ancora ci diede mezo per andar in Tauris città.

Di qua partendomi, andai in un certo monte chiamato Sollisaculo, nella contrata del quale è il monte Gordico, dove Noè insieme con l’arca dopo la cessazione del diluvio si posò; lo quale, quando dalla compagnia con la quale io era fosse stato aspettato, con desiderio arei asceso. Nondimeno volendo, non ostante questo, salirvi, le genti della predetta contrada che ivi erano dicevano mai in alcun tempo alcuno aver possuto né poter salirvi, dicendo questo parere che non da altro procedesse, eccetto dal voler dell’altissimo e grande Iddio, al qual credemo, come se dice, che non piaccia che niuno vi salisca.

E da questa contrada e preditti monti partendomi, me n’andai in Tauris, anticamente chiamata Susi, città grande e regale e in bel sito posta, qual fu sotto il dominio di Assuero re: dove si dice esser l’Arbor secca in una mosceta, che vuol dire una chiesa di saraceni. Questa città è la miglior per traffico di mercanzia che altra città qualsivoglia al mondo, essendo che non si trovano oggi cose, sì per il vitto dell’uomo come per altro uso, e sorte di mercanzia delle quali non sia copiosamente abondevole, e talmente che è quasi incredibile a credersi della tanta copia delle cose che ivi si trovano. Molti mercanti, sì convicini come di varii e diversi paesi, e quasi d’ogni parte del mondo, concorrono in la predetta per causa di mercanzia e uso de’ lor mercimonii. Di questa intendeno coloro che dicono che ‘l suo re ha più intrata e rendita da essa sola che il re di Francia di tutto il suo regno. Non troppo lungi di quivi è un monte di sale, qual dà grande copia di sale a essa città, del quale ciascuno quanto gli fa di bisogno può senza pagarlo torre. In questa città ancora vi è un gran numero di cristiani di ciascuno paese e nazione, alli quali essi mori sono signori e dominano. Vi sono molte altre cose quali io, per fuggir la longhezza, lasso di scriverle. Da questa città partendomi, camminando per dieci giorni arrivai in una città domandata Soldania, dove il re de’ Persiani nel tempo de l’estate dimora, e di là, venuto lo inverno, si parte ad invernare in una certa contrada di sopra il mar Bacud. Questa città è grande e ha in sé molte buone acque, e in essa si portano molte e grande mercanzie per vendersi.

Di essa partendomi con certi Caranani con li quali io era in compagnia, presi il cammino verso la India superiore, verso la quale molti giorni camminando arrivai in una città domandata Cassà, città delli magi regale e di grande stima, ma da’ Tartari molto distrutta. Questa è molto copiosa di pane e di vino e d’altre cose. Dalla predetta città insino a Ierusalem, là dove li magi non per umana forza ma divina andorno, essendo che così presti arrivassero, sono cinquanta giornate.

Di qua partendomi, arrivai in una città domandata Gest, distante dal mare arenoso (mare molto mirabile e pericoloso) una giornata. In questa è una gran copia di frumento, orgio, vino e di altre vettovaglie e di ogn’altra cosa si possa dire, specialmente di fichi, uva passa verde come erba e molto minuta. Questa è la miglior città che il re de’ Persiani possegga in tutto il suo regno, in essa quale dicano li saraceni che nessuno cristiano possa più che per spazio di un anno vivervi.

Quivi da Gest partendomi e passando per molte terre e città, arrivai in una terra domandata Como, città anticamente grande e per il tempo passato molto dannosa a’ Romani, le mura della quale sono circa cinquanta miglia di circuito, e sonvi oggi delli palazzi integri, ma inabitati; la predetta di molte vittovaglie è copiosa.

E da questa, molte terre vedendo, passai in una terra domandata Iob, sito di ciascuna cosa al vivere umano necessaria, molto buono, sì per essere vicina a monti nelli quali sono grassi pascoli per gli animali, come per esservi tanta copia di pernici che quattro d’esse si vendono men d’un grosso, e abondevole della più perfetta e miglior manna che sia in alcuna terra del mondo. Li vecchi di questa sono bellissimi, ma in luogo di donne filano. Questa terra è all’incontro dal capo della Caldea alla tramontana.

Di dove partendomi, passai in la Caldea, il regno della quale è molto grande, e verso di essa camminando giunsi alla torre di Babilonia, dalla predetta distante quattro giornate. Nella detta Caldea è il vero idioma caldeo, qual noi chiamamo lingua caldea. Gli uomini della quale sono belli, e vanno molto ornati e acconci in quel modo che le donne nostre qui usano: portano in testa certi faccioli d’oro insertati di perle. Ma le lor donne sono brutte e non portano vestimenti né scuffia né altra legatura in testa, ma con li capelli sciolti e scapigliate, solo di una camicia insino alle ginocchia corta vestite e discalze vanno, con le maniche larghe e sì longhe che toccano la terra; e quando così in alcuno luogo vanno, vi è usanza che gli uomini dalli quali esse sono accompagnate avanti di loro camminano, sì come qui da noi gli uomini dopo le donne seguano.

Di qui partito, venni nella interiore India, molto dalli Tartari danneggiata, gli uomini della quale il più delle volte il lor cibo usano solamente mangiare dattili, delli quali v’è tanta copia che 40 libbre d’essi per men prezio se hanno che sia un grosso: e di molte altre cose v’è il simile.

E partito che fui dal predetto luogo, molti luoghi e paesi passando, venni al mar Oceano. La prima terra che trovai era chiamata Ornez, terra ben murata e di molte e grandi mercanzie copiosa, in la quale è tanto grande caldo che le virile membra degli uomini escono dalla lor borsa e loco dove sono, e per insino alla mità delle coscie scendendo vengono: per il che fanno una certa unzione con la quale il corpo e le membra ongono, e quelle onte in certi sacchetti legate e intorno di essi centi portano; la qual cosa se li predetti non facessero, tutti senza dubio morirebbono. Gli uomini di questo paese usano certa sorte di barche, nell’una delle quali essendo montato, non vi potei vedere ferro alcuno. E con quella vinti giorni navigando giunsi in una terra domandata Thana, dove quattro nostri frati per amore e fede de Cristo glorioso e benedetto martirio pazientemente sofferirono: le ossa de li quali furono nell’India superiore portate, in una città domandata Zailo, dove in un certo luogo de frati del medesimo ordine furono con grande onore e reverenzia riposte.

Il predetto loco de Thana sì de pane e vino come anco d’arbori è abondantissimo. Questa terra per il tempo passato fu grande, allora che ‘l re Porro, quale con Alesandro re ebbe gran guerra, la dominava; ma al presente, dapoi che li mori per forza la presero, è sottoposta al dominio de Doldalo lor re. Il popolo de questa adora gli idoli, cioè il fuoco, il serpente e gli arbori, quali essi per loro dei tengono. Usa ancora il predetto popolo e ciascuno d’essi tenere avanti sua casa un pede o vero pianta de fasioli, quanto una colonna grosso, al qual per insino gli danno l’acqua in niuno tempo si dissecca. In lo paese e contrada di questa vi sono varie e diverse sorti d’animali, come leoni negri in grande numero, simie, gatti maimoni e nottue così grande come qui appresso noi sono li colombi; similmente li sorzi d’essa così grandi come qui da noi li cani, quali lor cani gli ammazzano, non potendo le gatte prenderli. Sonovi ancora molte altre belle cose e delettevole ad intendere.

Ma da quivi arrivai in un bosco detto Muubar, di circuito 18 giornate, dove il pepe, e non in altra parte del mondo, nasce. Mi è parso utile e non fuor di preposito scrivere in che modo esso pepe nasca e si coglia. Dico dunque che ‘l pepe nasce in certe foglie d’erba, domandata elera, quali foglie si piantano a canto gli arbori pini, olmi e altri arbori grandi, sì come qui da noi e universalmente in terra di lavoro usasi piantar le vigne. Quali poi in alto elevate fanno li racemi, a modo delli racemi de l’uva, e talmente di pepe carchi che per il soperchio peso parono spezzarsi; qual maturato, essendo allora in color verde, lo vendemmiano nel modo che fanno qui le vendemmie dell’uva, e poi colto lo pongono a seccare e deseccato lo serbano nelli vasi. In lo predetto bosco sono due città una chiamata Ziniglin, l’altra Alandrina, quali continuamente tra esse fanno guerra, e parte da giudei, parte da cristiani abitata: e in quelle guerre sempre cristiani restano delli iudei vincitori. Vi sono ancora nel predetto bosco certi fiumi, nelli quali sono cocodrilli, venenosi serpenti.

Dal capo ancora di questo bosco verso il mezogiorno vi è una città chiamata Palombo, nella quale nasce il zenzaro meglior che in altra parte del mondo nasca; la quale molti non credano che sia di tanti mercimonii grassa, delli quali essa veramente abonda. In lo paese di questa adorano il bove, qual essi per loro dio tengono e stimano, e quello la mattina uscendo dalla stalla, di sotto di esso mettono dui bacili d’oro, nell’uno delli quali pigliano la orina, nell’altro il sterco. Dell’una lavano la faccia, dell’altro in tre parte del corpo mettano: primo in mezo del viso, secondo nella sommità delle galte, ultimo in mezo del petto; e questo modo non solamente il popolo, ma il lor re e la regina osservano, con quello veramente estimandosi esser santificati e salvi. Il predetto bove lor dio fanno per sei anni fatigare, nel settimo è nel commune. Questi popoli similmente hanno per lor dio un idolo mezo uomo e mezo bove, e quello adorano: quale più volte ad essi popoli rechiedendo dice che amazzino quaranta vergini, del sangue delle quali abbino a far sacrificio ad esso. Per il che sì li uomini come le donne usano far voto di dar al ditto li loro figliuoli e figliuole (in quel modo che delli nostri noi per alcuno caso o infermità facciamo, in alcuna religione dedicandogli), quali, venuto il tempo, avanti il detto idolo amazzano, e il sangue de quelli avanti esso sacrificano, secondo che il profeta dice “immolaverunt filios et filias suas demonibus”. Osservano ancora un altro pessimo e irragionevole costume, che, morendo alcuno, il corpo morto e la sua moglie insieme, quantunque viva, dopo quello abbrucciano, dicendo quella insieme con esso seco in l’altro mondo godersi; e se la donna del morto ha con esso figliuoli, può senza esserli reputato in vergogna con essi starsi. Ma, se la donna avanti del marito muore, da niuna lege vi è il marito costretto che, volendo altra moglie, non possa. Le donne similmente di questo loco portano raso il viso e la barba, e il lor bevere è vino; li uomini il contrario di esse usano. Molte altre cose a queste simile il predetto popolo osserva, quali, per essersi a vedere come ad intendere abominevoli, lascio di scrivere.

Da questo regno insino ad un altro gran regno chiamato Mebor (sotto del quale sono molte altre cittadi e terre) sono dieci giornate. In esso è il corpo del beato Tommaso apostolo, dove la sua chiesa è piena d’idoli, al contorno della quale sono circa quindici case di cristiani, ma mali uomini ed eretici. Similmente in questo è un idolo di statura grande, come generalmente li pittori qui da noi dipingono san Cristofono, tutto d’oro fino composto e in una catreda similmente d’oro assettato, avvolto con una corda al collo di pietre preziose e di gran valore, quale non solamente le genti di quel paese onorano, ma molti di lontani paesi (sì come cristiani vanno a San Pietro) a quello corrono e visitano. Delli quali molti con una corda, altri con una tavola al collo alligata, molti con un cortello al braccio cacciato vengono, e quello mai muovono insino che al ditto idolo siano arrivati; al qual gionti il braccio, già per la ferita marcio, tagliano e troncano. Molti altri qual per il medesimo effetto vengono, mosso che dalla lor casa hanno tre passi, nel quarto fanno una cava sopra la terra, quanto uno di essi longo, qual poi con uno incensero con incenso e fuoco dentro aspergono, alli quali, mentre che sono in cammino, accascando fare alcuna cosa, fanno un certo segnale per il qual conoscano quanto abbiano camminato. E così continuamente procedendo camminano insino che al ditto idolo siano venuti, dove essi per tai impedimento e lor cerimonia impediti in longo tempo arrivano; e al qual finalmente aggiunti, nel canto della chiesa del ditto idolo trovano un lago, nel quale li peregrini, e tutti quelli che per causa di visitar detto idolo vengono, buttano oro o argento o pietre preziose in onore dell’idolo e per causa della fabrica del tempio di esso. Per il che, quando in quello vi è da farsi o renovarsi alcuna cosa necessaria, in quello fanno con diligenzia cercare, dove trovano una quantità d’oro e d’argento e finalmente tutte quelle cose che sono state da’ peregrini e altri (come ho detto) buttate.

Nel giorno che questo idolo fu fatto vengono tutti quelli che sono di quel contorno, e al loco dove sta esso idolo vanno, qual solennemente prendeno e sopra un ornato e acconcio carro l’assettano, e quello poi il re e la regina, con tutti li forestieri e tutto il popolo coadunato insieme, fuor della chiesa menano e insino ad un certo lor loco deputato con grandi instrumenti e sorte di suoni accompagnano, avanti di esso molte vergine precedendo, quali a due a due mirabilmente insino al ditto loco cantando vanno. Al qual venuti, il ditto popolo e donne insieme con quella medesima armonia, suoni e istrumenti il riportano, e in quel loco di dove prima l’hanno tolto ripongono. E nel portar che fanno del detto carro molti di quelli peregrini per causa della festa venuti avanti del popolo si appresentano, dicendo aver desiderio in servizio e amor del lor dio morire. Il che detto, nel loco di dove il carro ha da passare in terra si mettono, sopra delli quali il carro passando gli amazza e subito morono; e in questo modo ciascuno anno più di cinquanta vi morono, li corpi de li quali sono con diligenzia tolti e abbrucciati, estimando quelli (essendo per lor dio morti) esser santi.

Usa ancora il popolo di questo loco che, se vi capita alcuno qual faccia intendere volere per il suo dio morire e amazzarsi, allora gli amici, parenti e tutti li buffoni di quella contrada insieme si ragunano a far festa a costui, al collo del quale cinque cortelli ben aguzzati appendeno, e quello avanti del lor idolo con grandi canti accompagnato menano. Al qual gionto e preso in mano un di quelli cortelli, taglia la sua carne, e quella tagliando con alta voce dice: “Per il dio mio taglio la carne mia”; e li pezzi di essa butta nella faccia di quel idolo, dicendo: “Voglio per il mio dio morire”, e così finalmente muore; il corpo del quale subito abbruciano, dicendo quello esser santo, avendosi per il suo dio ammazzato. Vi sono ancora in questo regno molte altre maravigliose e inusitate usanze, da non farsi d’esse menzione né da scriversi.

Da questo regno e paese partito, presi il cammino verso il mezogiorno e, per il mar Oceano venti giorni navigando, venni in un paese domandato Lamori, dove, per la distanza del cammino, incominciai a perdere la tramontana, perché la terra per la sua altezza se gli opponeva. Quivi è tanto grande il caldo che così gli uomini come le donne vanno nudi, de niuna sorte di vestimenti coperti; per il che, vedendo me, si maravigliavano e mi beffavano, con dire il Dio Adam aver fatto l’uomo nudo, e al suo mal grado volere io andar vestito. Gli uomini di questa contrada hanno le lor donne in commune, talmente che nissuno delli uomini ha donna qual possa dire esser sua, né meno esse delli uomini nessuno essere suoi. Delle quali se alcuna viene a figliar, quello che o maschio o femina nasca ad un di quelli con li quali esse hanno conversato donano, e lo chiamano patre. Il sito di questa terra è molto buono, abondevole sì di carne, di biada e di riso come ancora d’oro, di legna, di aloe, di canfora copioso, ma abitato da genti crudeli e pessime, quali di carne umane non meno si notricano che noi del manzo facciamo. Per il che molti mercanti di lontano paese vi vengano a vendere a costoro uomini e figliuoli, quali essi comprano, e comprati gli ammazzano e mangiano. E così di molte altre, quali non scrivo, cose a queste simili vi sono.

Nel medesimo paese di Lamori, verso il mezogiorno, è un altro regno, chiamato Sumoltra, di molte cose copioso, nel qual sì gli uomini come le donne usano in circa dodeci parte della faccia con un ferretto caldo segnarsi; e questi continuamente fanno guerra con quelli che vanno nudi. Vicino al qual v’è un altro regno chiamato Botterigo, dove nascono molte cose quali non scrivo.

Similmente non da lungi di questo regno di Botterigo è una isola di circa tremila miglia di circuito, domandata Iana, nella quale nasce la canfora, le cubebe, le melegete, le noci moscate e molte altre specie similmente preziose; è finalmente grassa di tutte le cose al vivere dell’uomo necessarie, eccetto che di vino. Il re della quale ha sette re sotto di sé, il palazzo del qual è molto grande a maraviglia; le sue scale sono di molta grandezza, alte e larghe, e li gradi d’essa uno d’oro, l’altro d’argento è fatto. Li lati della sala uno d’oro, l’altro d’argento è coperto e composto, e li muri d’esso sono tutti di lame d’oro limate, nelle quali vi sono scolpite molte imagini di cavalieri, alla testa delli quali vi è un circulo (sì come qui l’imagine di nostri santi tengano) tutto d’oro e di preziose pietre insertato; e da un tetto tutto di fino oro fatto coperto. Finalmente questo palazzo è più bello e più ricco che qualsivoglia altro al mondo. Con il detto re molte volte il gran Can di Catay ha fatto guerra, ma sempre da questo è rimasto vinto e superato.

Vicino a questa isola è posta un’altra contrada domandata Paten e d’alcuni altri chiamata Malamasmi, sotto della quale sono molte isole. In questa contrada sono varie e diverse sorti d’arbori, delli quali alcuni farina, alcuni mele, altri vino producono, e molti veneno il più pericoloso che sia al mondo; tal che, se casualmente alcuno ne prendesse, a quello non è niuno rimedio se non uno, che pigliano del sterco dell’uomo e quello dissoluto con acqua beveno, e in questo modo si liberano. Quelli arbori che producono farina sono grandi, ma di poca altezza, il tronco delli quali con una accetta tagliano, di dove escie un certo liquore simile alla colla; qual essi in certi sacchetti di foglia mettono, e quello per spazio di giorni quindeci al sole lasciano. Dove dimorando, nel fine di detto spazio si converte in farina, qual pigliano, e nell’acqua del mar dimorando per dui giorni continui quella lasciano. Qual passati ripigliano e nell’acqua dolce la lavano, e di quella poi fanno pane molto buono, di fora bello ma dentro alquanto negro, e non solamente di quello pane, ma in ogn’altro uso che lor piace se ne serveno: del qual io, fra Odorico, ho veramente visto e mangiato.

Appresso di questa provincia e paese di Paten, verso il mezogiorno, vi è il mar qual chiamano il mar Morto, l’acque del quale sì continuamente e veloce verso il mezogiorno corrono che, se alcuno vi casca, mai più (per la velocità credo d’esse acque) si ritrova. In questa contrada sono certe sorti de canne delle quali alcune son passi cinquanta di longhezza, e grandi come arbori; alcune altre sono quale a modo di gramegna per la terra s’estendeno, domandate casar, dove in ciascun nodo d’esse sono le radici le quali produceno altri rametti, e quelli da rami in rami procedendo s’estendono per più d’un miglio. In esse se trovano pietre di tal virtù che quelli che le portano addosso non ponno esser da spada né da alcun ferro offesi, per il che molti uomini menano li lor figliuoli, alli quali essi fanno una ferita picola al braccio, nella quale essi dentro mettono de quelle pietre, e quella poi con una polve de un certo pesce e con quelle pietre dentro consolidano. Molti diventano gagliardi e animosi corsari, dalli quali gli altri naviganti vedendo esser grandemente offesi e non potere da quelli con arme di ferro difendersi, cominciano per loro defensione a fare certi pali acutissimi di un fortissimo legno fatti e con ferro legati; con li quali (essendo da ditti corsari assaliti) e con certe altre saette similmente acutissime quelli feriscono e da essi, essendo massimamente quelli poco armati, gagliardamente in questo modo si difendono. Delle predette canne similmente ne fanno vele alle lor nave, sostorie, pagliette, e altre cose di molta utilità. Finalmente in questa contrada sono di grande maraviglia, e tali che narrandole non sarebbono credute, onde non ho curato troppo di scriverle.

Questo regno per molte giornate è distante da un altro regno domandato Zapa, il paese del quale è molto ricco di robbe e altre cose che sono all’uso dell’uomo necessarie. Il re ha molte moglie e donne, dalle quali tra maschi e femine dicesi aver circa 200 figliuoli. Questa similmente ha quattordici elefanti domestici, quali esso tiene, e quelli fa dagli uomini delle sue ville, quali ad esso sono soggiette, a quel modo guardare come li nostri qui guardano pecore, castroni o simili altri animali. Nel mar di questa contrada vi è una certa sorte di pesci, maravigliosa certo e cosa bella ad intendere, di tal natura che ciascuno anno se parteno per venire alla detta contrada, e nel venire che fanno tanto e sì innumerabile è il numero di essi che ‘l mare pare sia tutto di pesci coperto. Alla ripa del qual venuti, dal mare in quella si lanciano e buttano, e là per tre giorni continui stanno; qual passati, vengono li altri e fanno l’istesso che hanno fatto li primi, e così di grado in grado secondo lor condicione e specie tutti fanno. Alla qual ripa gli uomini di quel paese vanno e di quelli quanto lor piace ne toglieno; quali essendo domandati della causa onde questo proceda, rispondono detti pesci far quello in onore e riverenza del lor signore. E in questo loco ancora ho visto una testudine di grandezza mirabile, simile al cuba overo trullo di Santo Antonio a Padoa. In questa contrada pur si usa che, se alcuno more qual abbia moglie, quella insieme con il marito abbruciano, estimando insieme in quel mondo, sì come in questo, andare a godersi.

E da questa contrada partendomi e navigando per il mar Oceano verso il mezogiorno, trovai molte isole e contrade; e tra le altre che trovai v’era una isola domandata Hicunera, di circa duomila miglia de circuito. Gli uomini e le donne di questa contrada adorano il bove, qual essi lor dio stimano, per il che ciascuno d’essi porta nella fronte un bove di oro o d’argento, dinotando quello esser il lor dio. Costoro similmente vanno nudi, di niuno vestimento coperti, ma solamente di una tovaglia, con la quale le loro vergognose membra nascondono, centi vanno. Sono sì di statura grandi come di fortezza di corpo gagliardi e in guerra valenti, alla quale quando vanno, così nudi e senza armi se partono e in quel modo combattono, solamente di un scudo che lor cuopre la testa, il corpo insino al piedi grande difesi; e se gli accasca prendere alcuno qual non si possa riscattare, quello non ammazzano, ma lo lassano per il lor cammino andare. Il re di questa contrada porta una collana nella quale sono trecento perle grosse e di gran valore, e ciascun giorno in onore delli suoi dei dice trecento orazioni. Porta ancora un rubino grande e longo un palmo, di sì vivo colore che pare essere una fiamma di fuoco; si stima questa essere la più bella e la più preziosa pietra che sia al mondo. Il gran Tartaro di Catai l’ha molto desiderata, né mai per denari o per forza o ingegno ha potuto ottenerla. Osservasi per tutto il suo regno gran giustizia, talché ciascuno può per quello securo andare.

L’altra isola era di circa duemila miglia di giro, domandata Silam, di cose al vivere necessarie e di altri beni molto grassa; in essa è un infinito numero sì di serpenti ed elefanti come di molti animali selvaggi, tra li quali ivi dicono esserne alcuni quali non offendono uomini forestieri né di altro paese, ma quelli che sono in quella isola nati solamente noiano. In questa contrada ancora è un grande e alto monte, dove dicesi Adam aver ivi pianto il figliuolo cento anni, sopra del quale è un bel piano e in mezo di quello è un grande e profondo lago, le acque del quale dicono essere nate (il che non si crede) le lagrime d’Adam e d’Eva. Nella profondità d’esso si trovano molte pietre preziose, quali il re di questa contrada a’ poveri per la sua anima dona, lasciando quelli una over due volte l’anno in ditto lago intrare, permettendo che togliano di queste pietre quante essi ne ponno prendere, e prese a quelli liberamente donando. E perché ditte acque sono piene di sanguisughe, acciò che ditti poveri vi possano intrare senza essere da quelle offesi, pigliano un certo frutto domandato bavoyr, qual pestano, e pesto del succo di quello molto bene s’ungono, e unti in ditto lago entrano, e non ponno le sanguisughe per il ditto licore e succo di quel frutto offendergli. Le acque che vengono giù per questo monte da questo lago, dove cavando si trovano fini rubini, diamanti, perle e altre pietre preziose, per il che il re di questa contrada si dice avere più pietre preziose che altro re che sia al mondo.

Da qui partendomi e più verso el mezogiorno caminando, arrivai in un’altra isola domandata Dadin, che appresso noi significa immondo e brutto: perché gli uomini che qui dimorano in lor cibo usano mangiare carne crude, sì umane come di molti altri animali, e d’ogn’altra bruttezza che si possa dire. Osservano tra essi un brutto e abominevole costume, che ‘l padre mangia il figlio e il figlio il padre, la moglie il marito e il marito la moglie, in questo modo. Infermandosi il padre d’alcuno, subito il suo figlio va da l’astrologo, cioè lor sacerdote, al quale dice: “Signore, vi prego che andiate dal nostro dio a saper se mio padre die esser liberato da questa infirmità, overo deve per quella morire”. Allora il sacerdote con il figlio dell’infermo insieme vanno dal lor idolo, al qual gionti fanno orazione e dicono: “Signor, tu sei il nostro dio, qual noi per nostro dio adoriamo e stimiamo; ti preghiamo che vogli risponder a quello che noi ti domandiamo. Il tale uomo è molto infermato: ti domandiamo se deve di tal infirmità essere liberato, over di quella morire”. Allora il demonio per bocca di quell’idolo risponde: “Tuo padre non morirà, ma da questa infirmità serà libero, ma tu adesso tali e tali cose quali ti comando farai”. E così, inteso il figlio il modo qual deve tenere nel governo di suo padre, da quello si parte e va da suo padre, al qual serve diligentemente facendo tutto quello che l’idolo ha detto, insino a tanto che ‘l ditto suo padre è liberato totalmente di sua infirmità.

Ma se ‘l demonio averà detto che ‘l padre ha da morire, allora il detto sacerdote va là dove sta l’infermo e, postoli un panno alla bocca, il soffoca; e morto in questo modo che l’ha, subito lo spezzano in più pezzi, e tagliato che l’hanno invitano gli amici e parenti e tutti li buffoni di quella contrada, quali insieme con li figliuoli e la moglie con grand’allegrezza e suoni lo mangiano. Le ossa del quale poi con grande solennità sotteranno, e gli altri parenti, quali non sono stati per sorte alla festa con essi, se lo reputano in grande vergogna. Questi volendo io di tal cosa riprendere, dicendo che essi facevano contra ogni ragione e natura di tutti gli altri animali, “imperoché, se voi amazate un cane, quello gli altri cani non mangiaranno: quanto maggiormente voi, che sete uomini razionali, non dovereste fare questo?”, essi respondevano: “Noi la mangiamo accioché non la mangiano li vermi e per quello pata alcuna pena, imperoché, essendo mangiata da’ vermi, l’anima di quello patirebbe gran pena”. E quantunque molte cose replicassi, mai in alcuna parte dalla lor opinione e costume li potei rimovere. In questa similmente vi sono molte e altre diverse novitati, quali se non si vedeno non se gli può dar fede, perché in tutto ‘l mondo non sono più grandi e maravigliose cose di quelle che sono e si trovano quivi.

Delle parti di questa contrada volendomi io ben informare, tutti dicevano questa India avere sotto di sé vintiquattromila isole, delle quali la maggior parte è abitata, e similmente avere sessantaquattro re di corona. E con questo faccio fine di scrivere altro dell’India inferiore: al presente intendo solamente dire della superiore.

Dalla qual partendomi, presi il cammino verso l’oriente e, per il mar Oceano molti giorni navigando, venni in una nobile e grande provincia domandata Manzi, qual noi chiamamo India superiore, molto abondevole di pane, di vino, di carne, di pesci, di riso e finalmente di tutte cose che fanno per l’uso dell’uomo molto ricca. Della grandezza della quale volendomi informare, domandai molti mori, cristiani e officiali del gran Cane, quali di un istesso parlar affermavano questa provincia anzi avere 2000 grosse città sotto di sé, talmente grandi che né Venezia né altra città si potrebbe equiparare a quelle di grandezza; per il che tanta moltitudine di genti e numero di uomini è in la predetta provincia che è incredibile a dirsi. Delli quali tutti sono mercanti o vero artesani, quali per lor povertà, purché possano con le mani aiutarsi, non patono alcuno bisogno. Gli uomini di questa sono di corpo belli, ma alquanto di color pallidi, la barba delli quali è rara e longa, a modo di gatte; ma le donne sono di corpo e di faccia bellissime.

La prima terra di questa provincia qual io trovai era domandata Ceuscala, per tre Venezie di grandezza, distante dal mare una giornata e sopra d’un fiume posta, le acque del qual nascono dal mare e si stendono di là dalla terra 12 giornate: terra di grande abondanzia e di tutte le cose che si trovano al mondo fertile, e di tanta quantità di zenzaro copiosa che 300 libre d’esso si hanno per men prezio de un grosso. Quivi ancora si trovano le più belle, grasse e migliore oche che siano oggi al mondo, e al doppio de le nostre grande, de color bianche, sopra la testa delle quale nasce un osso di grandezza simile ad un ovo, di color sanguigno; e sotto la gola di essi pende una pelle per mezo palmo longa. Di esse vi è il miglior mercato che in qual altro loco si voglia, talché una d’esse cotta e ben concia costa men d’un grosso; e quella copia che si trova là di queste, la simile d’anatre e di galline, quali sono a maraviglia grandi. In questa si trovano serpenti, di grandezza più grandi che tutti gli altri del mondo, quali gli uomini di questa terra prendono, e presi li mangiano: la vivanda delli quali talmente solenne e unica è stimata da essi che, accadendo a quelli fare un convito o vero alcuno pasto nel qual non vi sia stato la minestra di quest’animali, si riputano non avere fatto e non essere stato in quel convito cosa degna. Gli uomini di questa città e di tutta questa provincia sono idolatri, e usano certa sorte di barche per navigare e grandissime, come in tutte le altre città del suo regno.

Questa contrada lasciata, passando per molte città, doppo longo camino di molti giorni, venne in una certa città molto nobile domandata Zaton, quale di tutte quelle cose che sono all’umano uso necessarie è molto grassa, ma di zuccaro tanto che tre libre e otto onze di quello ivi vagliono men di un grosso. Questa città al doppio di Bologna è grande, e vi sono molti monasterii di religiosi idolatri, quali adorano universalmente gli idoli, nell’uno delli quali io fui e trovai che vi erano 3000 di questi religiosi, e nella loro chiesa vi erano 11000 idoli, di statura sì grandi che ‘l più picciolo d’essi era di grandezza simile alla pittura che si fa qui da noi di san Cristoforo. Alli quali quando essi danno a mangiare (perché vi fui presente) fanno portare le minestre calde, e quelle avanti d’essi idoli pongono, e il fumo d’esse ascende nella faccia d’essi idoli, e ivi tanto quelle dimorare lassano insino che vi sia fumo; e quello lor tengono essere la vivanda di lor dei, stimando di quello essi nutrirsi. Il resto che avanza lo riserbano e mangiano essi. Molte altre cose in questa terra trovai quali lasso scrivere.

Da questa verso l’oriente caminando, venni in una città domandata Fluzo, bella e di circa 30 miglia de grandezza, sopra del mare posta, nella quale li galli sono sì grandi che in altra parte del mondo non si trovano maggiori, e le loro galline sono bianchissime come neve, senza penne, ma di lana (in loco di quelle) coperte, a modo di pecore.

Dalla quale partendomi e caminando 18 giornate, passando molte città, terre e diversi paesi, venni in un gran monte abitato da due lati, nell’uno lato del quale abitavano certe genti quali vivevano in un modo de vivere strano e inusitato, e tutti gli animali che sono e nascono in quello son negri; e gli animali che in l’altro lato si trovano sono bianchi, similmente da stranie genti abitato e nel vivere molto dagli altri alieno: le donne quali hanno marito hanno in testa un gran barile di corna, quali in segno del lor maritaggio portano. Da questo predetto monte doppo il camino di 18 altre giornate, vedendo molti luoghi e paesi, arrivai in un gran fiume, per il traverso del qual era un ponte, e nel capo d’esso una casa di un pescatore dove alloggiai, qual, volendo darmi alquanto spasso mi disse che se volevo andar seco a vedere un bel pescare. Similmente in un altro loco partito e allontanatomi da questo fiume molte giornate, vedetti un altro modo di pescare qual era questo, che gli uomini che pescavano erano in una barca nudi, con un sacco dietro al collo legato, e in quella una tina d’acqua piena tenevano, e ciascuno d’essi con il sacco nell’acque butandosi prendeva li pesci con le mani, qual presi in quel sacco mettevano; e dall’acque levatosi saliva nella barca, dove reponeva li pesci quali avea presi, e subito intrato nella tina in quell’acqua calda si lava, e in questo modo uno doppo l’altro facevano.

Venni doppo questo in una città domandata Cansay, che appresso noi vuol dire città celestiale, di pane, di vino, di carne, di porco, di riso e finalmente di tutte quelle cose che sono all’umano uso necessarie copiosa, e ancora di mercanzie grandi, e nobilissima. Questa è la maggior città che sia oggi al mondo, e in tutto il sito della terra di grandezza e circuito (secondo l’opinione di molti cristiani e altra gente che ivi dimorano) è 100 miglia, posta appresso un fiume, qual dall’un lato di essa passa, sì come in Ferrara; per il che la detta è più longa che larga, circondata tutta d’acque di lacune come Venezia, nel contorno della quale sono circa 11000 porti, in ciascuno delli quali sono le guardie del gran Cane quali ivi per difensione e guardia d’essa città continuamente dimorano. Questa ha 12 porte principali; lungi da ciascuna d’essa più di 8 miglia vi sono città maggiori che Venezia e Padova di grandezza, talché caminerà alcuno sei e otto giorni continui, caminando sempre per ditto spazio alle volte per un borgo solo e loci abitati d’essa: onde parerà, doppo longo e grande camino, non aversi quasi di là partito. Questa città sì grandemente è abitata che non è spanna né palmo d’essa dove non siano abitacoli, talché in una casa saranno alle volte dieci e dodici fuochi insieme, quali, per statuto del lor signore, pagano per ciascuno anno un balis, che vuol dire cinque carte bombacine, di valore un fiorino e mezo delli nostri. È ben vero che ditti dodeci fuochi, essendo in una casa insieme, fanno e sono numerati per un fuoco, e così per uno pagano; quali tutti sono 90 tunne, vocabulo e nome che appresso noi significa numero di 10000. Nonanta tunne adunque importa qui da noi numero di 90000 fuochi. E gli altri che ivi dimorano, alcuni son cristiani, alcuni mercanti, alcuni passaggeri che di là passano. Finalmente, più volte mi maravigliai come tanta gente e numero di uomini vi potesse capire; e sotto di essa sono li borghi, nelli quali non minor numero di gente vi sono che sia in essa città.

Qua capitando quattro nostri frati minori, convertirono un grande e potente uomo alla fede nostra, nella casa del quale allora alloggiai, e quello alle volte mi diceva: “Atha, – che vuol dire padre, – piace a voi venir meco a spasso vedendo la terra?” Al qual io risposi piacermi, per il che, in una barca montati, andassimo ad un gran monastero, al qual intrati chiamò a sé un di quelli religiosi; e quello là venuto, mostrandomi gli disse: “Vedete voi questo raban frach (cioè questo uomo religioso)? Costui viene dalle parti occidentali e va al presente in Cabalec a pregar alli dei la vita del gran Cane. Per il che vi prego che mostriate alcuna cosa nuova a costui, ch’esso poi, partito di qui, possa in questa città di Cansay avere alcuna cosa nuova visto raccontare”. Quale rispose esserli grato far tutto quello ne piacesse, e così di là andassimo seco. Qual prese prima dui gran mastelli pieni di molene e altri fragmenti quali doppo la lor tavola avanzavano, e quelli presi andassimo ad un certo giardino nel quale, aperta primo la porta d’esso, entrassimo, dove era un monticello di delettevoli e ameni arbori pieno. Così stando, il predetto uomo prese un cimbalo e quello preso incominciò a sonare, al suono del quale varii e diversi animali che in quello monticello dimoravano si movevano, e giù dal detto monte a tre a tre ordinatamente li vedevamo scendere: delli quali alcuni erano come gatti maimoni, alcuni altri avevano la faccia di uomo, altri di diversa sorte. Quali avanti d’esso così ordinatamente venuti, a quelli secondo era di bisogno e secondo la lor qualità dava mangiare, ponendo avanti d’essi certi catini dove mangiavano. E quando al ditto uomo pareva ch’avessero mangiato, preso un’altra volta il cimbalo in mano e sonandolo, tutti al lor loco ritornavano. Della qual cosa ridendomi, domandai onde questa cosa procedesse, ed egli rispondendomi disse: “Queste sono le anime di gentiluomini grandi e potenti, quali noi per l’amor di Dio pascemo”. “Come le anime di gentiluomini? – dissi io. – Questi sono bestie e animali come gli altri”. Qual replicandomi disse: “Queste sono le anime di gentiluomini grandi e potenti (com’ho detto), quali, partiti che sono dal corpo, vengono in simil animali ad albergare, in tanto che, secondo la nobiltà e grandezza del morto, sua anima si elegge un animale bello e nobile come lei ad abitarvi. E le anime degli uomini rustici e villani entrano in corpo d’animali vili simili ad esse, e in quelli abitano”. Al qual pur sforzandomi volerli dire il vero, non potei mai da quella opinione ritrarlo.

Finalmente, chi volesse dire a pieno tutte quelle cose che in questa città sono, certo che in longo scrivere né anco compiria. Visto che ebbi Cansay, mi parti e caminando sei giorni venni in una gran città domandata Chileraphe, terra in un bel sito posta, di grandezza e circuito di muro 40 miglia: città molto abondante, nella quale fu la prima sede del re manzo, e nella quale sono circa 370 ponti di pietre, più belli che siano al mondo. Quivi ancora è una sorte di barche per navigare di grandezza mirabile.

Da Chileraphe venni in un fiume grande, chiamato Dotalay, maggiore di tutti gli altri fiumi che siano oggi nella terra, talmente che il più stretto loco d’esso è di larghezza sette miglia. Qual passa per mezo la terra de’ Pigmei, domandata Tacchara, città delle più belle e maggiori che siano al mondo. Gli uomini di questa son chiamati Pigmei, de statura tre spanne o palmi grandi; e non solamente essi, ma gli altri uomini di altro paese, quantunque grandi, che ivi dimorano, se generano figliuoli, quelli sono di picciolezza di corpo simili a quelli Pigmei. Quali essendo nell’età di cinque anni si maritano, onde vi nasce ed è tanto il numero di questi che non si può né dire né numerare; per la lor picciolezza vengono da tutto il mondo nominati e famosi. Questi tali hanno il discorso della ragione come noi, e il loro lavoro è di bombace, della qual fanno più opere che in altro loco del mondo.

E passando da questo fiume e da molte altre cittadi, venni in un loco domandato Iamzai, città nobile e grande, de abitazione de 80 tunne, cioè 80000 fuochi, essendo com’è detto che una tunna significa numero de 10000, di tutte le cose che sono per il vitto degli uomini abondantissima. Di essa il loro signore ha di entrata e rendita 50 tunne di balassi, cioè numero de 750000 fiorini, essendo che pur abbiamo detto che ogni balasso importa il valore de un fiorino e mezo delli nostri. Ma accioché per il pagare di una tanta summa di denari detta città non patisse disaggio e impoverisse, il detto signore gli lassava dugento tunne. Quivi usasi che, volendo alcuno invitare a pasto suoi amici o altro, va a certi alloggiamenti a questo solo effetto deputati, dove là gionto chiama quello che governa lo alloggiamento, e dicegli: “Patrone, io voglio fare un pasto a certi miei amici e spendere tanto: fate che trovi apparecchiato”. Partito, torna poi con quelli a chi ha da fare il pasto al ditto alloggiamento, ove si fa il pasto ordinatamente, essendo là molto meglio serviti che nelle lor case proprie. Quivi ancora è una sorte di barche di grandezza mirabile; e in quella vi è ancora un loco de frati minori dell’ordine nostro.

Da longi di questa città dieci miglia, nel capo di questo fiume, è un’altra città domandata Meugu, quale come le altre città sono bianche, e li lor palazzi e sale di essi sono giù nella pietra cavati, e là abitano; e molte altre cose belle e mirabili vi sono, ma tra le altre una sorte di barche così grande che è incredibile ad intendere la grandezza di esse.

E da questo passando molte cittadi e luoghi e caminando otto giorni per acqua dolce, venni in una città domandata Benzin, sopra de un certo fiume posta, domandato Caramoraz: questo fiume passa per mezo la città di Catay, alla quale, quando le acque d’esso crescono, fanno gran danno, come il Po qual passa per Ferrara. E caminando molti giorni per questo fiume giunsi in una città domandata Suzupato, molto di pane e vino e mercimonii e d’ogn’altra cosa copiosa, e di sorgo tanto abondevole che in tempo quando è più caro e costa, ivi 40 libre costano men d’otto grossi.

Dalla predetta città di Suzzumato partendomi venni in una nobile e grande città chiamata Cabalec, molto antica e nobile, posta nella provincia di Catay, quale li Tartari insieme con un’altra città domandata Taydo, distante dalla ditta mezo miglia, per forza presero. Questa città ha 12 porte una dall’altra distante per spazio di due miglia, donde il contenuto di esse è circa 50 miglia di giro e di grandezza. In essa il gran Cane tiene sua sede, dove ha un bello e grande palazzo, le mura del qual sono circa quattro miglia di circuito; e nel cortile d’esso è un monte non naturale ma fatto a mano, piantato tutto d’arbori, onde lo chiamano Monte Verde. Nella sommità del quale vi è posto un altro palazzo quanto si possa dire bello, e dal lato d’esso un lago similmente con arte fatto, dove sono e vi vengono tanta quantità di oche selvagge, anatre e cesani che chi li vede fa piacere e maraviglia. Quando al signor piace andare a caccia, può là senza uscire fuor della terra cacciare; quale al suo traverso ha un bel ponte di pietra. Ma il palazzo dove la propria persona del re dimora è grande, ma molto più bello, posto sopra un certo loco elevato dalla terra dui passi, li muri del qual son di finissime pelle rosse coperti, e di dentro ha vintiquattro colonne di puro oro fatte. E in mezo d’esso vi è una pigna grande, alta due passi, fatta d’una pietra preziosa chiamata merdicas, tutta d’oro fino ligata; e da quella pendono certe reticelle quanto una spanna grande, similmente di fine perle insertate, e in ciascuno angulo d’essi vi è un serpe tutto d’oro fatto, qual pare che ditti angoli fortemente batta. E da li condutti per questa, a modo di fontana, viene l’acqua, della quale tutta la corte del re si serve, per il che all’incontro d’essa sono molti vasi di oro, ad effetto che chi vuol bevere quelli prendendo beva. In questo palazzo ancora sono molti pagoni d’oro, di tal sorte che, volendo alcuno di quelli del signor alcun spasso dargli, fanno un romore, battendosi insieme man con mano, quali come se fossero di quel suono spaventati mettono le ale e fanno segno di moversi, come se volessero di là partire.

E quando il gran signore di questa siede in sedia regale, nel sinistro lato d’esso sede la regina, nel secondo grado sono due sue donne, nell’ultimo tutti li parenti della regina. Delle quali donne le maritate hanno in testa un piede di uomo, un braccio e mezo di longhezza, di grosse e fine perle ornato (talché se in alcuna parte del mondo sono perle di valore, si trovano qui), e sopra d’esso hanno similmente certe penne di grue, le quali in segno di maritaggio portano. Nel destro lato d’essa regina siede il figliuolo primogenito, qual doppo morto il padre ha da succedere in regno, e doppo questi predetti siedono giù tutti quelli che sono di sangue regale; dove sono quattro scrittori, l’officio delli quali è scrivere tutte le parole che il re sedendo dice. In presenza del qual similmente sono molti altri e innumerabili baroni, con mirabil silenzio avanti il suo cospetto stando in piedi, non avendo nessuno d’essi ardimento (se prima non sono da esso re domandati) parlare, eccetto li suoi buffoni, li quali ponno, per dar spasso e far ridere il signor, dire alcuna cosa; nondimeno non hanno ardire altrimente fare, eccetto secondo l’ordine dato ad essi dal re; dimorando avanti la porta del palazzo molti baroni, quali guardano e vedono che nissuno senza licenzia del re entri, e avendo alcuno ardire di fare altrimente ed entrarvi, non solamente non lo lassano, ma quello viene crudelmente battuto. E quando da questo signor si ha da far qualche convito, il secondo suo figliuolo insieme con quattromille baroni lo servono, delli quali ciascuno porta una corona in testa, vestiti d’una veste tutta de finissime perle conserta, di tal valore che solo esse perle si stimano passare il valore di 15000 fiorini.

Nella corte del qual sono più di 10000 uomini, quali hanno diversi officii, uno all’altro respondenti e talmente bene ordinati che ciascuno d’essi fa fidelmente il suo officio, senza in quelli trovarsi alcuna fraude. Nella qual corte io, fra Odorico, fui tre anni continui, e alle predette feste e conviti molte volte presente; e in essa noi frati minori avemo un loco deputato, al qual capitati, bisogna a noi dare la nostra benedizione ad esso re. Ivi essendo, diligentemente domandai cristiani, mori, saraceni e molti altri baroni quali mirano la persona del re, a quello solo officio deputati: dalli quali tutti di un conforme parlar fui informato che li buffoni solamente di esso erano circa 7300 tunne, cioè 30000 de essi, delli quali alcuni guardavano li cani, altri le bestie, altri in guardia degli uccelli erano deputati. Il numero delli quali uccelli dicevano essere 15 tunne, cioè 150000; e li medici quali il detto per sua cura tiene sono 4009, delli quali 4000 sono idolatri, otto cristiani e un saraceno, quali tutto quello che loro fa di bisogno hanno dalla corte del re.

Questo signore nell’inverno sta in Cabalec, e nel principio dell’estate si parte a starsi in una città domandata Sanay, posta sotto la tramontana, loco e abitazione freddissima, dalla quale quando dal l’una per starsi all’altra si parte, va con mirabil grandezza. Avanti d’esso vanno quattro eserciti d’uomini a cavallo, di numero 50 tunne, cioè 50000 cavaglieri, delli quali uno precede all’altro una giornata, trovando, in ogni giornata deputata alla quale arrivano, apparato tutto quello che fa di bisogno per lor vitto. E nell’ultimo esercito, in mezo del qual sopra un ornato e concio carro a due rote viene il re, e nel qual è un solaro a modo di sala ordinato, fatto tutto di legno d’aloe d’oro inaurato e di bellissime pelli di molte pietre preziose ornate coperto, da quattro elefanti e da altrettanti cavalli bellissimi tirato, e similmente da quattro baroni (là chiamati zuche) guidato, delli quali l’officio è con diligenza guardare che ‘l carro sia da bon loco tirato e che il re non abbia alcuna offensione; al qual niuno per meza arcata (eccetto li suoi deputati) ha ardimento avicinarsi. Per prendersi nel camino alcun spasso, seco nel carro porta dodici uccelli domandati zifalci, quali, vedendo alcuno uccello, lassa dietro quelli volare. E questo medesimo o simil modo osservano secondo il lor grado le sue donne, e l’istesso il suo figliuolo primogenito.

Questo divise il suo regno dodici parti, nominata ciascuna con il segno de 12, delle quali una è quella provincia di Manzo della quale abbiamo detto, cioè India superiore, qual sotto di sé ha circa 2000 cittadi grosse; donde talmente è grande questo suo imperio che in caminar alcuna parte d’esso v’anderebbe il camino di sei e più giorni in vederla, non numerando tra le divise parte le isole, quali passano il numero di 5000. In ciascuna delle quali isole e parti del suo regno il detto fece ordinare certe case e alloggiamenti di cortina, (tenendo esse questo nome: case di cortina) di tutte quelle cose che fanno per il vitto dell’uomo fornite, ad effetto che li passaggeri e altri viandanti, quali per il suo regno caminano, per lor bisogno loco e albergo e tutto quello che ad essi è necessario abbiano e trovino. E a fine che, quando nel suo regno accade alcuna cosa di nuovo, subito gli ambasciatori del ditto signore cavalcano, e se il fatto è di troppo importanzia montano sopra li dromedarii, e a quello velocemente corrono; dove a questi alloggiamenti avvicinati mettono un corno in bocca fortemente sonandolo, dando per quello aviso a quelli che nell’alloggiamento e case stanno che viene l’ambasciatore (quali appresso noi si domandano staffette). Per il che l’oste, per insino a tanto che quello arriva, fa mettere in ordine un uomo e un cavallo fresco, al quale arrivato al detto alloggiamento il primo gli consegna le littere, quali consignate, là si reposa e della fame e camino già fatto si restaura; e l’altro che ha preso le littere corri insino all’altro alloggiamento, e in quel modo fa come il primo ha fatto.

Quando questo signore va alla caccia serva quest’ordine. Fuori de Cabalec vinti giornate ha un bellissimo bosco di otto giornate di circuito, nel quale è tanta varietà di animali che è cosa maravigliosa; alla custodia di questo bosco sono posti dal gran Cane alcuni li quali diligentemente lo custodiscono. E alla fine di tre o vero quattro anni se ne va il predetto con la sua gente, e quello circonda con gli uomini, li quali lasciano intrare li cani, e gli uccelli consueti doppo quelli dentro mandano a volo; ed essi a torno a torno diligentemente investigando cacciando vanno, reducendo quelle fiere ad una bellissima pianura quale in mezo di quel bosco se ritrova, talmente che ivi si congrega di ogni parte grandissimo numero di selvaggie fiere, come sono, cervi e molti altri e varii animali, tanti che è grandissima maraviglia. Li gridi degli uomini, delli cani e li stridi degli uccelli sono sì grandi che uno non può intendere l’altro: dalli quali ancora tutti quelli animali ridotti tanto si spaventano che timidamente tremano. E congregati quelli animali nel modo predetto, viene il re, portato da tre elefanti, e lancia tre saette in quelli; quali lanciate, tutti quelli che li accompagnano fanno il medesimo, avendo ciascuno la sua saetta con il proprio segno segnata, accioché una dall’altra si cognosca. E a quell’altre ammazzate poi vanno, e le saette dietro quelle lanciate raccogliendo; quali essendo (come è detto) segnate, ottimamente la sua ciascuno discerne, toccando ad ogniuno d’essi quell’animale qual con la sua saetta ha ferito.

Questo re similmente fa quattro feste all’anno, cioè la festa del suo nascimento e la festa della sua circoncisione, e così le altre, alle quali fa chiamare tutti li buffoni e li baroni di sua parentela, ma specialmente quelli chiama alle predette due prime. Li quali essendo chiamati vengono con una corona in testa, sedendo allora il re in sede regale di quel modo abbiamo di sopra detto; al qual arrivati, ordinatamente stanno nel lor loco deputati. Delli quali li primi vanno vestiti di scarlato, li secondi di colore sanguigno, li terzi di turchino, portando ciascuno in mano una tavola di denti d’elefanti bianca, centi de cingolo d’oro un somesso alto, con un grande silenzio stando in piedi; vicini a questi stanno similmente li buffoni, tenendo le loro insegne. E doppo questi in un angulo del palazzo dimorano filosofi grandi e sapienti, li quali attendono a ciascun punto e ora e, occorrendoli quel punto o vero quell’ora quale aspettano, un di quelli allora con alta voce gridando dice: “Chinatevi al nostro imperator signor grande”; allora tutti li baroni tre volte una doppo l’altra danno della testa in terra, e così battuti stanno insino che un altro delli detti sapienti un’altra volta sclama dicendo: “Tutti levatevi”. Il che inteso, subito si levano, e fatto questo attendono agli altri punti, quali similmente trovati, un’altra volta si sclama: “Ponetevi un dito nell’orecchia”, e quelli subito lo pongano, e dicendo: “Cavatelo”, lo cavano. E doppo un pezzo li predetti diranno: “Burattate farina”, e questi e molti altri simili alli predetti segni fanno fare questi filosofi, dicendo quelli essere di gran significato e denotare gran cose. E a queste feste sono molti deputati, l’officio delli quali è vedere che nessuno delli baroni e buffoni chiamati vi manchi; il che trovandosi, quello che manca verrebbe ad incorrere gran pena e castigo. E li predetti sapienti similmente attendono il ponto di questi buffoni, qual venuto esclamano: “Fatte festa al nostro signore”. Allora quelli cominciano a sonare tutti li loro istrumenti di suono, fortemente cantando, delli quali è tanto lo strepito che fa maraviglia ad intendere, non cessando per insino che esclamando gli è detto: “Tacete tutti”, e così quelli tutti tacciono. E dopo fatto questo, tutti quelli che sono della parentela del re tengono molti cavalli bianchi apparecchiati per donarli al re, e stando in tal procinto, esce una voce dicendo: “Il tal di tal casa tanti cavalli tiene per il suo signore”. Alcuni altri essi stessi dicono quelli cavalli tenere in ordine per il suo signore, in tanto ch’è una maraviglia di tanto numero di cavalli che vengono donati a questo signore. Molti altri baroni vi sono quali da parte di altri signori e baroni portano presenti al predetto, e quelli da lor nome gli presentano. A questo similmente tutti li principali delli monasterii vanno con li presenti, al qual arrivati gli donano e gli danno la lor benedizione, e il medesimo a noi frati minori è necessario fare, darli la nostra. E fatto questo, avanti di esso si presentano alcuni buffoni e buffonesse, e in sua presenzia sì dolcemente cantano che ad intendergli danno piacere e maraviglia; e doppo cantato che hanno, fanno menare certi leoni in presenzia del re, al quale fanno dagli predetti leoni fare riverenzia, facendo doppo questo portare certi cifi artificiosamente pieni di buon vino, e alla bocca di chi vuol bevere detti cifi porgono.

Finalmente, queste e molte altre cose simili in presenzia di questo signore fanno, talmente che, se io volessi a pieno della grandezza di costui e delle cose della sua corte dire, indurrei più tosto maraviglia che credenza, se prima non fossero con li proprii occhi visti. Né meno è da maravigliarsi che possa questo fare tanta e sì incomparabil spesa, imperoché in tutto il suo regno si spendono certe carte quali là si hanno, e si spendono per moneta, donde infinito tesoro perviene alle mani di questo signore. E di esso faccio fine.

Una cosa maravigliosa e stupenda similmente scrivo, non come cosa che l’abbia vista, ma intesa da uomini veramente degni di fede, quali dicevano che in un regno sono certi monti domandati Capesci, dove nascono melloni molti grandi: quali essendo maturi si aprono, e dentro dicono che si trova un animaletto a modo d’agnello picciolo, quale ha il mellone e la carne insieme. E quantunque questo paia all’orecchie di chi l’intende incredibile, nondimeno, sì come nella provincia d’Iberina sono gli arbori quali producono uccelli, similmente può essere possibile e vero che ivi si trovassero li predetti melloni.

Viste queste predette cose in Catayo, me partetti e, caminando per 50 giornate verso il ponente, passai per molte cittadi e per la terra del Preteianne, del qual non è né anco una centesima parte di quello si dice e si afferma essere vero. La principale sua città è domandata Cassan, nondimeno non è maggior di Vicenza, quantunque pur il detto abbia molte altre cittadi sotto di sé. Questo, per patto fatto tra essi loro, ha da menare la figlia del gran Cane per moglie.

Da questa città molti giorni caminando, venni in una provincia domandata Cassan, la miglior seconda provincia e la più abitabile che altra che sia al mondo; quale nel loco che è più stretta è circa 50 giornate larga, longa più di 60. Talmente questa provincia è abitata che uscendo dalla porta d’una città si vedono quelle dell’altra; copiosa di fromento, orgio, fave e altre vettovaglie, ma specialmente di castagne e di reobarbaro (perché in questa provincia nasce) vi è tanta copia che quasi una soma di cavallo si vende e se averia per meno di sei grossi. Questa predetta provincia è numerata tra le 12 parti del regno del gran Cane.

Passato da questa provincia, venni in un gran regno domandato Tiboc, qual confina con essa India, sottoposto pur tutto al dominio del gran Cane, nel quale è la maggior abondanzia di pane e di vino che in altra parte del mondo sia. E le gente di questo regno abitano in le tende fatte di feltri negri; e la regale e principal città sua è fatta di mura bianche e negre, e le vie di quella sono salizate, in le quali nessuno ha ardimento spandere sangue di uomo né di animali, in reverenzia di un certo idolo quale adorano e hanno in stima. Ivi ancora dimora il lor papa, qual essi chiamano lo alfabi, capo di tutti quelli idoli, cioè lor fattore e governatore, alli quali esso secondo il suo costume distribuisce tutti quelli beneficii quali loro hanno. Le donne di questo regno portano più di cento, e nella bocca hanno dui denti così longhi come cignali.

Usasi qui ancora che, morendovi alcuno, allora il figlio del morto farà intendere come vuol fare onore a suo padre: per il che farà chiamare tutti li sacerdoti e religiosi e buffoni di quel contorno, quali venuti portano esso morto fuori in una campagna con grande allegrezza, nella quale è apparato un gran desco, sopra il qual mettono la testa del morto e quella dapoi tagliano, e tagliata danno in mano del figlio. Qual presa, esso, insieme con tutta la sua compagnia, cantano molte orazioni per esso, e doppo li sacerdoti prendono il busto e quello in più pezzi tagliano, e tagliato che l’hanno ritornano con tutta la compagnia, insieme dicendo per il morto molte orazioni. Qual stando così in pezzi, poco doppo vengono gli uccelli, aquile, voltori e altri uccelli quali dalli monti calano, e quelli prendendo portano seco. La qual cosa vedendo con alta voce quelli cridando dicono: “Vedemo qual sia stato quest’uomo? Per certo esso è santo, imperoché vengono gli angeli di Dio e quello seco portano in paradiso”, stimando li predetti uccelli essere angeli. Della qual cosa il figlio si tiene molto onorato e grande, credendo che ‘l corpo del padre sia stato così onorificamente portato dagli angeli di Dio. Il che visto e fatto, subito il figliuolo prende la testa del padre e cuocela, qual cotta, la mangiano, e dell’osso grande di quella ne fa fare un cifo, con il qual esso e tutti della sua casa in memoria del suo padre morto con reverenzia e devozione beveno. E queste e molte cose inusitate e irragionevoli alle predette simili osservano.

Ed essendo io nella predetta provincia di Manzi, fui vicino al palazzo d’un uomo popolare, la vita del quale era in questo modo: il predetto aveva in suo servizio 50 donzelle, quali continuamente lo serveno; e quando il detto uomo vuol mangiare, senta a tavola, al qual le predette donzelle con canti diversi e sorte di suoni le vivande a cinque a cinque le portano, e quelle con le lor mani in bocca di quello mettono, a modo d’uccello pascendolo, non cessando mai avanti di esso cantare insino che le predette minestre non abbia mangiato; e quelle di mangiar compite, vengono le altre donzelle, quali con diversi canti e sorti di suoni cinque altre vivande li portano, menando finalmente, insino che vive, in questo modo sua vita. Il cortile del palazzo di questo tiene di grandezza dui miglia, e il solaro di quello un lato d’oro, l’altro d’argento è coperto; sopra del qual sono li monasterii e campanili, a modo che molti per lor piacere far sogliono. Ed essendo io (come ho detto) lì, dicevano che quattro uomini simili a questo erano in la provincia di Manzo. La nobiltà di questi quella essere stimano, quando portano le ungia delle mani al possibil longhe, per il che molti permettono talmente crescere le ungia, massimamente del dito grosso, che con quella si circondano tutta la mano. E la bellezza delle donne appresso di essi consiste in avere il piede picciolo, per il che le donne, quando hanno figlioli, essendo quelli in fascia li legano, e non permettono che crescano.

Partendomi dalle terre del Preteianne, tenendo pur il camino verso il ponente, arrivai in una contrada molto bella e fertile, domandata Melistorte, nella quale era un uomo domandato il Vecchio del Monte, imperoché questo fra dui monti di questa contrada avea fatto un muro, qual circondava il monte. Di dentro del qual erano certi fonti di acqua, li più belli che si potriano trovare, appresso delli quali si dimoravano donzelle bellissime quanto mai altre si trovassero, similmente belli e ornati cavalli, e finalmente v’erano tutte quelle delizie e piaceri che poriano dar diletto ad uomo, facendo similmente per certi condotti al detto loco venire latte e vino: per il che questo loco chiamavano paradiso. E quando il detto uomo trovava alcune giovane valoroso, quello dentro di questo suo loco faceva mettere, ad effetto che, volendo il detto fare arrobbar e assassinare alcun re o vero barone, chiamava un de quelli qual più era avanti al suo loco, al qual domandava che trovasse alcuno il quale più ad esso paresse che si dilettasse stare in quel suo paradiso. Quale trovato e postovi, e gustato ch’aveva quella somma dolcezza di quel loco, li faceva dare bere una bevanda, qual subito bevuta lo faceva gravemente dormire; e addormentato che era, quello fuori di quel loco portar faceva. E risvegliato, e trovandosi fuori di quel piacere, veniva in tanto grande travaglio, angoscia, che non sapeva che farsi. Allora a quel vecchio patrone del loco instantemente pregandolo gli diceva che volesse un’altra volta in quel suo loco ridurlo, e gli era dal predetto vecchio resposto: “Se tu non amazzi il tale re, o vero tal barone, non puoi intrar là, promettendoti dopo, vivo o morto che tu rimanghi, nel paradiso ridurti”; quali, per la dolcezza di quel loco gustata, per tornarvi non rifiutavano morire. E in questo modo faceva assassinare da quelli qual esso voleva. Per il che tutti li re di quel contorno, avendo paura di costui, gli danno gran tributo; ma dopo che li Tartari avevano quasi per forza preso tutto il mondo, pervennero al loco di questo e gli tolsero il dominio. E tolti molti di questi saraceni, quali esso per il sopra detto effetto teneva, mandorno via; e finalmente v’entrò nella città dove il predetto vecchio dimorava, quale assediorno, da quella mai partendosi insino che la presero. Quale presa, ebbero alle mani il vecchio, qual ligorno, e finalmente mala e crudel morte a quello derno.

In questo paese del predetto loco di Melistorte l’omnipotente Iddio ha concesso una singular grazia alli frati minori, qual è questa, che nella grande Tartaria così facilmente cacciano li demonii dalli corpi assediati da quelli come si caccia un cane di casa. Donde molti uomini e donne, quali sono da’ demonii assediati e vessati, quelli ligati per 10 giorni camminando alli nostri frati conducono alli quali condotti e menati, li predetti frati a quelli demonii comandano da parte del nome di Iesù Cristo debbiano da quelli corpi prestissimo uscire e non vessarli; e subito inteso il comandamento fatto ad essi escono, e quelli che restano dal demonio per grazia de Dio (data alli predetti) liberati si battezzano. Allora li predetti frati vanno a pigliare li loro idoli, di feltro fatti, quali con croce e con acqua benedetta prendeno, e quelli al foco portano, e tutti quelli che sono alla contrada di questi vicini vengono a vedere abbrusciare li dei delli suoi convicini. Quali nel foco buttati (essendo in quelli il demonio) dal foco escono e non lascia quelli abbruciare; per il che li predetti frati buttano acqua benedetta sopra del foco, onde li predetti demonii dal corpo di quell’idoli escono, cridando in aere: “Mira, mira come sono dalla mia casa cacciato”; e allora quelli corpi delli idoli, non essendovi il demonio, si brusciano. Per la qual cosa molti di quelli indemoniati all’anno da’ nostri frati sono battezzati.

Un’altra cosa mirabile e di terror piena ho vista, che andando per la valle posta sopra del fiume qual si domanda fiume di Piaceri, uscendo quello dal paradiso terrestre, viddi molti corpi di uomini morti, e ivi intendeva diversa sorte di suoni, quali a modo de nacari mirabilmente sonavano, donde tanto era il romore che mi metteva gran paura. Questa valle circa 7 o 8 miglia di terra è longa, nella quale se alcun v’entra, senza mai più uscire di là subito muore. Pur nondimeno vi volsi entrare, ad effetto che vedessi che cosa erano questi suoni e corpi morti; alla quale intrato, viddi tanti corpi morti, com’ho detto, che è incredibile dirsi. E nel lato di detta valle, nel muro d’esso, in un sasso vi era una faccia di uomo talmente terribile che per il timor preso da quella mi credetti veramente morire, continuamente meco dicendo orazioni, non avendo totalmente ardire più de sei o vero otto passi appropinquarmeli. Per il che non volendo a quella (com’ho detto) avicinarmi, andai nell’altro capo della valle, e sopra un certo monte arenoso salito sopra di esso guardando niente altro vedeva, eccetto che udiva li predetti nacari sonare. Ed essendo nel capo di questo monte, trovai una quantità d’oro e d’argento a modo di squame di pesce adunata, della quale me ne posi nel seno alquanto, qual poi pensando che fossero inganni di demonii, quello sprezzando in terra buttai. E così di lì per il volere di Dio senza niuna offensione usci’: qual cosa sapendolo poi li saraceni e altre genti, molto mi riverivano, stimandomi, essendo di tal loco vivo uscito, santo, dicendo quelli corpi morti che in quella valle dimoravano essere uomini di spiriti infernali.

Una cosa ho a dire del gran Cane, qual ho vista, che passando il predetto per quella contrada, tutti gli uomini avanti l’uscio di sua casa fanno fuoco, e in quello pongono profumi, accioché quello passando gli inspirino odore, e venendo molti uomini lo vanno ad incontrare. Il qual avendo una volta a venir in Cabalec, e sapendosi certo della sua venuta, un nostro vescovo e alcuni nostri frati e io con essi in compagnia andassimo per due giornate ad incontrarlo; ed essendoci a quello appropinquati, ponessimo la croce sopra un legno, tal che si potea manifestamente da ciascuno vedere. Io aveva in mani l’incensero, qual meco aveva portato, e incominciassimo ad alta voce cantare, dicendo “Veni creator Spiritus”. Qual canti avendo il detto udito, ne fece chiamare e comandò che ce gli accostassimo, che altramente non si averessimo appropinquati, essendo che abbiamo detto che nissuno per meza arcata possa, se non chiamato, appropinquarseli. Così a quello avicinati, deponendo il suo capello, qual era di inestimabil valore, fe’ reverenzia alla nostra croce: e subito il vescovo, pigliando l’incensero da mano qual io aveva quello con il fumo dell’incenso suffumigò. E perché tutti quelli che al detto signore vanno seco portano alcuna cosa ad offerirgli, servando quella legge antica qual dice: “Non apparebis in conspectu meo vacuus”, per questo noi certi frutti portassimo, quali in un piatto gli offeriscono, de li quali ne prendette due, dell’uno delli quali ne mangiò un poco; e a quello il predetto vescovo dopo questo gli diede la sua benedizione. Il che fatto, comandò che di lì partissimo, acciò dalla moltitudine de’ cavalli non fossimo offesi. Per il che, di là partiti, andassimo ad alcuni suoi baroni, quali certi frati del nostro medesimo ordine alla fede convertirono, quali erano nell’esercito di costui, alli quali offerimmo del resto di quelli pomi: quali non con minor allegrezza furno da quelli accettati, come se gli avessimo donati grandissimi presenti.

Io, fra Odorico di Friuoli, dell’ordine de’ frati minori, al reverendo padre fra Guidotto, ministro della provincia di Santo Antonio, confesso che, essendo io da quello per obedienzia richiesto che le sopradette cose, sì quelle che con li proprii occhi ho viste come quelle che da uomini degni di fede ho intese, gli volesse dire e far scrivere, quelle ho dette. È ben vero che molte cose ho fatte scrivere quali non ho viste, ma quelli che sono di quella contrada funno testimonio essere vere. E molte altre cose ho lasciate, quale se prima con li proprii non fossero viste non sono credibili.

Le predette cose io, fra Guglielmo di Solona, nell’anno 1330 nel mese di maggio a Padova, nel loco di S. Antonio, ho scritte, in quel modo che il predetto fra Odorico con la propria bocca gli riferiva, non curandomi d’un alto e ornato modo di parlare scriverli, ma con un domestico e mezo modo di dire, accioché da dotti e ignoranti siano quelle intese. Il predetto fra Odorico passò dalla presente vita del Signor nell’anno 1331 alli 4 di gennaio, e dopo la sua morte di molti miracoli risplendette.

Versione B

VIAGGIO DEL BEATO FRATE ODORICO DI PORTO MAGGIORE DEL FRIULI, FATTO NELL’ANNO MCCCXVIII.

In questo anno corrente del MCCCXVIII divotamente prego il mio Signore Iddio che porga tal lume al mio intelletto che io possa, in tutto o in parte, rammemorare le maravigliose cose da me viste con questi occhi, alle quali, perché maravigliose siano, non perciò se gli deve aver minor fede, poscia che appresso Iddio niuna cosa è impossibile. Voglio dunque a coloro che queste cose che io dirò vedute non hanno, quanto meglio potrò, brevemente scrivendo, dimostrarle. E giuro, per quell’Iddio che in mio aiuto ho chiamato, in questa narrazione non dovere io dire né meno né più di quel che in varie parti del mondo caminando ho visto.

Nell’anno sopradetto io, frate Odorico di Porto Maggiore del Friuli, della provincia di Padova, nel mese d’aprile, con buona licenza del mio superiore mi parti’, e navigando con l’aiuto di Dio e buon vento giunsi in Constantinopoli con altri miei compagni. E indi partendo, passammo il mare Maggiore e arrivammo in Trabisonda, città metropoli di Ponto, ove giace il corpo del beato Atanasio. Qui fu la prima cosa da me veduta degna di maraviglia, quale tanto più oserò di dirla quanto che molti, con quali ho parlato in Venezia, m’hanno riferito d’aver visto simil cosa. Viddi un uomo barbuto e di feroce aspetto che menava con lui circa duemila perdici, a quella guisa che menava i pastori loro armenti; quali Eferdici volando e andando via le menò a donare all’imperatore di Costantinopoli, il quale ne tolse quante a lui parve e l’altre le lasciò andar via. Del che maravigliandomi fortemente, udi’ da coloro che sarebbe egli per far altre prove più maravigliose di queste; fra le quali fu questa, che un giorno essendo stato ammazzato un caro e fidelissimo fameglio dello imperatore di Costantinopoli, e non trovandosi il malfattore, ne fu questo barbato dallo imperatore con istanza pregato che con qualche via lo scoprisse. Il quale, fatto portare il giovane morto nel mezo della piazza tutto insanguinato, in presenza di molta gente, scongiurando con li suoi incantesmi gli messe in bocca una crescia piccola di fior di farina, il quale non sì presto ebbe in bocca la crescia che si rizzò in piedi e disse chi l’aveva ammazzato e per che cagione, e ciò detto ricadde subito morto.

Dopo molti giorni andassimo ad un castello dello imperadore di Costantinopoli, che avea nome Zanicco, dove si cava l’oricalco e ‘l cristallo. Indi partiti venimmo in Armenia maggiore, in una terra che ha nome Orzaloni, ove poco innanti era morta una ricchissima donna, la quale fece testamento e, fra l’altre cose, lassò che de’ suoi beni si fabricasse un monastero di meretrici delle più belle giovani del paese, e di detti beni della defunta queste donne fussero ben vestite e adornate secondo loro usanza, e ben servite così nel vestire come nel mangiare, le quali erano obligate senza alcuna mercede di sodisfare tutti coloro da’ quali fussero richieste. E se pure vi fusse tra loro alcuna che non avesse sodisfatto a quei che l’avessino richiesta, e coloro se ne fussero lamentati, subito la donna fusse mandata via da detto monastero e priva di tutto quanto aveva in compagnia di quelle. Di che volendo noi saper la cagione, e perché avessi fatto fare tal cosa doppo morte la detta donna, ci fu risposto per impetrar misericordia della anima sua e di suoi peccati dal Dio suo che ella adorava.

Quindi partito, andai sul monte dove è l’arca di Noè, nella cui cima si dice pochi che abbino voluto andarvi essere potuti pervenire, perché il monte è santissimo e oltre ciò inaccessibile per l’altissima neve che vi sta tutto l’anno e piglia almeno le due parti del monte. E quindi partiti, navigammo e venimmo in una città di Persia detta Taurisio, dove sono luoghi di frati minori. La città è mirabile e abondante di ricchi mercadanti, al cui lato è un grandissimo monte di sale, donde ogni persona ne può torre quanto vuole; e già se n’erano carche navi e mandato dove ne era carestia.

Quindi ci partimmo e arrivammo in Soldania, dove è la sedia del re di Persia, e da qui a Sabba, dove arrivarono i tre magi. Questa l’è una bella città e ben situata, lontana da Gierusalemme delle giornate più di LX. Di qui andammo al mar sabbionoso, e ci convenne star colla caravana in porto ben quattro giorni. E non fu niuno di noi che ardisse d’intrar in questo loco, perché l’è un’arena asciutta e al tutto priva d’umore, e si muta a quella guisa che fa il mare quando è in tempesta, or qui or lì, e fa nel muoversi l’istesso ondeggiar che fa il mare, in guisa tale che un’infinità di persone s’è trovata, caminando per viaggio, oppressa e sommersa e coverta da queste arene, le quali dal vento dibattute e trasportate or fanno come monte in un loco e or in un altro, secondo la forza del vento da cui sono elle agitate.

Tra pochi giorni doppo venimmo in una città chiamata Geste, la quale è l’ultima parte della Persia verso il paese d’India. Quivi trovai grandissima abondanza di grano e di fichi e d’uva passa grossissima e verde. E quindi partito andai nella Caldea, là ove tutti e’ giovani e vecchi secondo loro facultà sono vestiti da donne alla guisa di queste del nostro paese; la maggior parte di qual porta in testa cuffie lavorate di oro e adornate di perle e altre pietre preziose. E le donne loro al contrario vanno mal vestite, con veste che non giunge sino al ginocchio, con braghesse e legazze che pendono insino al collo del piede, e portano la testa discoverta, scapigliate, senza ornamento niuno nel capo. Qui viddi io un giovane che voleva menar per moglie una bella giovane, accompagnata da altre giovani belle e vergini, le quali forte e dirottamente piangevano, stando il giovane sposo con la testa bassa e leggiadrissimamente vestito; e d’indi a poco il giovane montò s’un asino, e la moglie lo seguiva mal vestita e scalza a piedi, toccando l’asino, e ‘l padre andava benedicendo, fino a casa dove la menò per moglie.

Lungi di qui navigando per lo mar d’India, in ventotto giorni arrivassimo in una città stata già del re Porro e chiamata Tava, e ben situata, là ov’è grande abondanza per conto del vivere. Qui viddi uno leon grande e negrissimo, alla guisa di un bufalo, e viddi le nottole, o vogliam dire vespertiglioni, come sono le anatre di qui da noi, e topi chiamati sorici di faraone, che sono grandi come volpi, e ve ne sono un’infinità grande, e peggiori de’ cani mordenti. Il paese è di saracini. La gente è idololatra e adora il bue, della cui carne non ne mangierebbeno per qualsivoglia cosa del mondo, ma gli fanno ben lavorar la terra; però, giunti che sono al sesto anno, li lasciano andar via dove loro piace e gli adorano in ogni loco che se gli fanno incontro; e del loro sterco se n’ungono il viso, credendo eglino allora esser santificati. Né solo questo animale adorano, ma bensì come primo degli altri con minor riverenza, ma però molti e varii ne adorano: chi pesci, chi fuoco, chi luna, chi arbori, chi il sole. Le donne vanno nude, e quando alcuna va a marito, monta a cavallo e ‘l marito monta in groppa e gli tiene appontato un coltello alla gola; e non hanno niente indosso, se non in testa una cuffia alta alla guisa d’una mitra e lavorata di fioretti bianchi; a cui cantando tutte le vergini della terra vanno innanzi ordinatamente fino a casa, dove lo sposo e la sposa si restano soli, e la mattina, levati, vanno pur nudi come prima.

Quindi partendo e navigando per lo mare Oceano verso il nirisi, e trovando il sole, e caminando per lunghe contrade, arrivammo a quella di Nicoverra, la qual gira a torno circa duemila miglia. Dove viddi e uomini e donne colla testa di cane e nudi, quali pure adoravano un bue, della cui effigie tali ne portano nella fronte una d’oro, altri una d’argento, secondo loro avere. Gli uomini sono grandi communemente e fortissimi; la maggior parte del tempo fanno guerra, e alla nuda, fuori che sono coverti da uno scudo grandissimo che gli cuopre fino a terra. Quando prendono alcuni de’ loro nemici, se non si riscattano se gli mangiano arrostiti, e ‘l simile vien fatto a loro dai nemici. E ‘l re di queste bestie era con una catena al collo di trecento perle grosse e bianche e tonde com’una nocella; e oltre ciò nella destra mano aveva un rubino che, per lo vero Iddio, era più grande d’una spanna, e così fino che parea d’aver in mano un carbone infocato. E diceasi che il gran Cane avea più volte messo ogni suo ingegno e forza per averlo, ma non l’avea mai possuto avere. Il re, benché sia idololatra e col viso rassembri un cane, tien ragione e giustizia, e ha gran quantità di figliuoli ed è di gran possanza, e per tutto il suo paese si va sicuro senza essere offeso.

Di qui partiti arrivammo, caminando verso oriente, in una grandissima isola chiamata Diddi. Qui è grandissima gente, che non mangia cose che siano compre; le donne e gli uomini grandi e membrutti, quali si mangiano l’un l’altro; e il padre vende i figli come da noi si vendono i capretti. E se o uomo o donna alcuna si ammalasse, subito sono portati ad un lor sacerdote che attende alli sacrificii de’ loro idoli, fra’ quali ve n’è un grandissimo tutto di oro il quale è più degli altri adorato, a cui si porta innanzi l’ammalato, il quale doppo molte orazioni fattegli risponde se dee morire o guarire. Se dee guarire, l’ammalato è riportato a casa, con esser prima fatte all’idolo molte offerte. Ma se l’idolo risponde che debba morire, il sacerdote toglie un panno e gli lo mette d’intorno alla gola e lo strangola, e del morto ne fanno più di mille pezzi e lo mettono in un vaso grande, e così vien mangiato da tutti i parenti; e dell’ossa si fan certe cerimonie e poi sono sotterrate. E se alcuno de’ parenti non vi fusse invitato, se lo reputa a grande ignominia e scorno, e quasi sono lieti quando alcuno s’inferma per posserlo mangiare e farne festa. Onde io avendogli di ciò ripreso, e dettogli che farebbono meglio a lasciarli morire naturalmente e sotterarli, mi fu risposto che sepelliti a questo modo puzzarebbono e farebbono i vermi, di modo che Iddio, offeso dalla puzza, non gli riceverebbe nella gloria sua.

Da qui passammo nell’India superiore e pervenimmo nella nobile provincia di Mangi, chiamata l’India di sopra, qual provincia contiene più di duemila grosse cittadi e altretante tenute e grosse castella, che sono come Vicenza o Trivigi, che non han nome di città. In questo paese è tanta moltitudine di gente che è una cosa incredibile, di tal sorte che in molte parti di detta provincia viddi più stretta la gente che non è a Vinezia al tempo dell’Ascensione. Il paese è abondante assai di pane e vino e carne, ma molto più di pesce, e vi sono infiniti artegiani e assaissimi mercadanti. E non vi è chi vada cercando la limosina, perché o poveri o infermi sono ben governati e provisti delle cose necessarie. Gli uomini sono tutti ugualmente grandi e pallidi, con i peli della barba irti e male composti alla guisa delle capre; le donne sono bellissime.

La prima città della provincia che io vedessi fu Tescol, la quale è tre volte maggior di Vinezia, ed è lungi del mare una giornata ed è messa sopra un fiume; e vi sono tanti navilii de naviganti che osarei dire non averne tanti tutta l’Italia. E per un ducato viddi dar 700 libre di zenzevero verde e fresco. Qui sono oche bellissime e maggiori tre volte delle nostre e bianchissime, e hanno su la testa un osso com’un ovo, e dalla gola gli pende la pelle fin in terra; l’anatre e le galline sono per due delle nostre. Qui sono i maggiori serpenti del mondo, quali si prendono con certi loro ingegni, e li coceno e mangiano, e gli paiono odoriferi; di modo che il mangiar serpenti in convito non è differente da altre vivande, anzi, quando vogliono far convito più famoso, tanto più serpenti apparecchiano e danno in tavola a’ convitati.

Quindi partimmo e navigammo 27 giornate, e trovammo di molte cittadi e castella, ne’ quali entrammo, e specialmente venimmo in una bellissima città detta Zanton, dove sono dui luoghi di nostri frati minori. La terra è abondante di tutte le cose necessarie alla vita umana; qui 3 libre di zuchero si danno per un soldo. La città è grande due volte più di Bologna; uomini e donne sono piacevoli e belli e cortesi, massime a’ forastieri. Sono in questa terra molti monasteri e idololatrice, avisandovi che vi sono più di 3000 idoli, e il minore è due volte più grande d’un uomo, e sono d’oro o d’argento o d’altri metalli lavorati; e gli danno da mangiare mettendogli il fumo nel naso, e loro si mangiano le bevande refreddate che sono.

Di qui partendo verso oriente, giunsi in una città che è sopra il mare, grande più di 30 miglia, chiamata Foggia; i galli sono grandissimi, le galline bianchissime e in vece di piume sono vestite di lana come pecore. Quindi navigammo 18 giornate, trovando sempre città e castella, e pervenimmo ad un monte altissimo nel qual mi parve veder cosa strana, che da quel lito dove noi discendessemo io viddi uomini, le donne e bestie tutti negrissimi più che carboni spenti, e da l’altro lato verso oriente erano tutti, uomini e donne e bestie, bianchissimi; ma l’una parte e l’altra mi pareva che vivessino e vestisseno come bestie. Le donne maritate portano in testa un corno di legno coverto di pelle, lungo più di due spanne, a mezo la fronte.

Qui poco dimorammo e, partiti, arrivammo ad una città chiamata Belsa, che ha un fiume che passa per mezo la terra, e fuori ha un grandissimo ponte di marmo e da capo ha una bella osteria. E lo ostieri, per darci piacere, ci disse se noi volemo veder pescare, e menocci al lato del ponte dove il fiume era più largo, là ove erano molte barche; ed eracene una che pescava con un pesce che loro chiamano marigione. E l’oste ne aveva un altro, e quello tolse, e tenevalo con una corda messa in una bella collana: è ben vero che noi ne avevamo veduti ne’ nostri paesi assai, e molti lo chiamano veglio marino. Questa bestia avea il muso e ‘l collo com’una volpe, e i piedi davanti com’un cane, ma avea le dita più longhe e i piedi di dietro come un’oca, e la coda col resto del busto come un pesce. Quale l’oste lo mandò giù nel fiume ed egli, cacciatosi dentro, cominciò a prendere di molto pesce con la bocca, tuttavia mettendolo nella barca: e giuro che in meno di due ore n’empì più di dui cestoni, e similmente fecero gli altri pescatori. Quando poi non volean più pescare, lasciavano la bestia nell’acqua, accioché andasse a pascersi, e quando era ben pasciuta ritornava ciascuna al suo pescatore, come cosa domestica. Qui medesimo viddi un’altra sorte di pescare: stavano gli uomini tutti nudi in barca, e ciascuno aveva un sacchetto a torno e buttavasi in acqua per un ottavo d’ora in circa, e prendeva del pesce con mano mettendolo in sacchetto, e poi tornava in barca; e incontinente si metteva in una tina d’acqua calda, e un’altra volta poi si buttavano in acqua a pigliar del pesce.

Stati qui alquanti giorni, partimmo e arrivammo in una città maravigliosa detta Guinzai, che in nostra favella vuol dire città di cielo. Questa città è la maggiore che sia in tutto ‘l mondo, ed è sì grande che a pena ardisco di dirlo; ma ho ben trovate in Vinezia assai persone che vi sono state. La terra è pienissima di gente, e non vi è un passo di terra che non sia abitato. Case ve ne sono assaissime, di otto e di dieci solari, che in ogni solaro abita una fameglia con le sue massarie, per la gran carestia di terreno, di modo tale che ogni piccola stanza vale gran danari. La città ha grandissimi borghi, ne’ quali abita assai più gente che nella città; la quale ha 12 porte principali, e ciascuna porta ha una strada dritta d’otto miglia, e in capo di 8 miglia v’è una città più grande di Padova, di sorte che ogni porta delle 12 ha per la dritta strada una città della grandezza che ho detto. Noi eravamo 7 che andassimo per quei borghi. Qui han cavato i terrazani e fatto lagune per certi canali, come sono a Vinezia, e sono tanti e tali che da capo e da piè delli canali, o vero lagune, hanno porte che, per Dio vero, sono di certo di più di diece miglia: e a tutte sono le guardie, e queste stanno per il gran Cane. Nella terra vi son di molti cristiani, ma più di saraceni e idololatri. E mi fu detto che ciascuna casa paga l’anno al signore un bastagne, che val un ducato e mezo, e dieci fameglie fanno un fuoco per focolaro. Questi focolari della terra sono 85, e ogni focolaro è diecimila fochi, e ogni foco è communemente 10 famiglie; e questo è solamente de’ saracini, tutti il resto è di cristiani e mercadanti e altre genti forastiere, che sono dieci volte più di saracini. E appresso alla maraviglia come potessimo star tante genti insieme, s’aggiungeva il veder quanto in abondanza vi fusse e pane e vino e carne e altre cose tutte necessarie alla vita umana. Qui dimora lo re di Mangi.

Dove è un luogo di frati minori che convertirono un grandissimo barone, nella cui casa io albergai, e dissemi: “Acta, – cioè “o padre”, – vieni che ti mostrerò la terra”. Ciò detto salimmo in una barchetta, e mi menò in un monastero chiamata Thebe; e uno di quei religiosi mi disse: “O rabin, – che viene a dire “o religioso”, – va’ con questo che è del tuo ordine, che vi mostrerà qualcosa di nuovo”. E così andammo sin al loco de’ frati minori, dove ebbi grandissimo onore, e fui fino a sera trattenuto con varii ragionamenti della magnificenza delle terre. Fra tanto venne lui con molti altri frati di fuora del loco un trar d’arco, in un orto grande e dove era un monticello tutto pien di caverne e intorno intorno d’alberi fruttiferi. Ivi due di quei nostri frati cominciorno a sonar di cembalo, e subito viddi cosa più maravigliosa che avessi mai visto per viaggio, conciosiaché io viddi uscir da quelle caverne, spinte dal suono udito, le migliaia di bestie salvatiche le più diverse e strane che mai più fussino vedute: fra quali conobbi gatti salvatichi, martarelli, scimie, maimoni, volpi, lupi, spinosi, ed erano bestie cornute con viso umano e altri assai diversi, ma la più parte aveano viso umano. E poiché alquanto erano stati, s’andorono via e con gran fretta tornorono nelle caverne; onde io fui pien di paura e di meraviglia, pregai colui che m’avea qui menato che cosa ciò fusse, e che volesse significar tanta diversità di bestie. Ed egli sorridendo dissemi che quelle erano anime de gran signori e nobili uomini, che qui si pascono di sudor di Dio: e quanto l’uomo era più nobile, tanto più in nobil corpo di bestia entrava l’anima sua. Il che tuttavia che io nol credessi, non potti cavar altro da lui, né da quegli che vi erano presenti.

E desiderosi di veder qualche cosa altra di nuovo, ci partimmo, e navigando in men di sei giorni arrivammo ad un’altra bellissima città chiamata Chilense, la qual girava intorno delle miglia più di quaranta; nella qual sono 360 porte tutte lavorate di marmo con intagli bellissimi. E dicesi che questa terra fu la prima che avesse il re de Mangi, quale è assai abitata e d’assaissimi navilii, abondantissima d’ogni cosa; ma perché non vi erano cose degne di meraviglia, poco vi dimorammo. E navigando trovammo un fiume largo più di 20 miglia, di cui un ramo passa per la terra, chiamato Piemaronni. Gli uomini e le donne qui non sono maggiori di tre spanne. Qui si fanno i maggiori lavori di bombace del mondo, e vi sono assaissimi mercanti e forastieri, ma ogniuno di loro non maggiore, come ho detto, di tre spanne.

Di qui usciti, caminando e passando una infinità di città e castella, giungessimo in una città chiamata Sai, ove è un luogo de frati minori. Qui trovassimo tre belle chiese di cristiani. La terra è bella e grande, e 18 tomavi di focolari; ogni focolaro è 10000 fochi, e ogni foco è 10 e 12 fameglie. Similmente ogn’anno pagano per foco quel che vale un ducato. Le genti di questa città la maggior parte vanno agli alberghi, di quali ve n’è grandissima quantità; e se alcuno volesse convitare od onorare un altro, va dall’ostiere e gli ordina tutto quel che ci vuole per bevanda de’ convitati. Quindi navigando, giungemmo ad una città nominata Laurenza, la quale è fondata sopra un fiume che passa per mezo il Cataio e fa grandissimo danno quando rompe gli argini. Così navigando giungessimo ad un’altra città chiamata Sunzomaco. Quivi è maggior abondanza di seta che sia in tutto ‘l mondo, che nella maggior carestia se ne danno 40 libre per un soldo; di mangiar vi è abondanza grande. E perché vi era in questo loco più gente che in niun altro che avessi visto, domandando donde ciò avvenisse, mi fu risposto per conto che l’aria e il luogo sono alla generazione molto salutiferi, di modo tale che pochi sono che moiono, se non di vecchiezza.

E navigando da quattro giornate, pervenimmo nella nobil città chiamata Cambalù, che è terra molto antica e gira 24 miglia, e un altra appresso a questa meno di un mezo miglio. Il circuito di ambedue è da 60 miglia: sono poi tutte due insieme cerchiate da un’altra muraglia, che gira in tutto circa 100 miglia. E questa è la principal terra del gran Cane, e qui si tien ragione, e quivi è la sedia di questo mirabil signore del gran Cane; il cui palazzo gira più di quattro miglia, e ad ogni cantone è un palazzo dove dimora uno di quattro suo baroni principali. E dentro al palazzo grande è un altro circuito di muro, che da un muro all’altro è forse meza tirata d’arco, e tra questi muri vi stanno i suoi provisionati con tutte le sue fameglie. E nell’altro circuito abita il gran Cane con tutti i suoi congiunti, che sono assaissimi, con tanti figliuoli, figliuole, generi, de nepoti, con tante moglie, consiglieri, secretarii e famegli che tutto il palazzo, che gira 4 miglia, viene ad esser abitato. Ben vero è che nel mezo delle case dove lui risiede è un monticello bellissimo, attorniato di bellissimi alberi, nel cui mezo sorge un laghetto che gira più d’un miglio, sopra cui è ‘l più bel ponte che non ho mai visto il migliore, in considerando il marmo, l’artificio, che è una maraviglia. Eran nell’acqua le centinaia dell’anatre e de assaissimi uccelli che vivono di pesce, d’ogni sorte, che quel lago produce. Io viddi il palazzo dentro ove stava il gran Cane, nel quale erano 24 colonne d’oro fino. Nel mezo del palazzo era una colonna di oro massiccio nella quale era intagliata una pigna di pietra preziosa, ed è sì fina, sì come io intesi, che ‘l suo prezzo non lo potrebbono agguagliare quattro grosse cittadi. Il suo nome è medecas, ed è tutta legata in oro fino. E artificialmente escie di questa pigna il beveraggio per lo signore, e similmente per condutto vanno atorno la mensa sua molti pavoni d’oro smaltati, che paiono che sian vivi, e tal volta si mettono a cantare fino che ‘l signor mangia. Il che tutto credo per certo che sia per arte diabolica.

Quando questo gran Cane siede nella sua sedia imperiale, nel lato manco sta la regina, un grado più giù, sotto cui stanno tutte le altre mogli, e sotto quelle tutto l’altro parentado. Da lato destro appresso il signore sta il figliuolo primogenito, che dee regnar doppo la sua morte, e a lui sotto tutti gli altri figliuoli e tutti coloro che vengono dal sangue regale. Nel loco più basso di tutti stanno quattro scrittori che scrivono tutto quello che parla il signore finché sta nella sedia; a cui davanti sta una grandissima quantità di baroni e altri nobilissimi, quali non ardiscono mai di parlare finché stanno inanzi alla presenza del signore, se da lui non fussero domandati. Sono poi attorno alla sua mensa tanti suoni e canti, tanti buffoni e altre sorti di persone, che a ciascuno fia incredibile, se volessi dir minutamente tutto quel tanto che io viddi. E di quei buffoni ciascuno ha l’ora sua deputata, quando dee star in guardia e trattenimento del signore; ma nelle porte sono guardie grandissime, e se alcuno vi s’appressasse senza licenza del capitano sarebbe amaramente battuto. E quando questo signore volesse far qualche gran convito, subito s’appresentano a lui quindecimila baroni che vengono tutti a servirlo. E io vi stetti tre anni in compagnia di frati minori che vi hanno il monastero, che dove dalla corte vi veniva tanta robba che sarebbe stata bastante per mille frati.

E, per lo Dio vero, è tanta differenza da questo signore a questi d’Italia come da un uomo ricchissimo ad un che sia il più povero del mondo; e perché le cose che io vi dico vi sieno più degne di fede, vi dico che mi fu da parecchi cristiani che ivi dimorano detto che questo signore teneva da ducentoottantamila uomini, li quali non attendevano se non a’ cani e cavalli e a tutte le cose che appartengono alla caccia per servigio del signore. Anzi, per solo governo del signore sono 400 medici constituiti quali sono tutti idololatri de’ cristiani continuamente vi sono 8 medici; quali non si scemano né aumentano, ma, morto l’uno, in suo loco si mette l’altro. In somma la corte è ordinatissima e magnifica quanto sia per tutto ‘l mondo di baroni, gentiluomini, famegli, agenti, cristiani, turchi, idololatri, quali tutti hanno dalla corte quel che gli fa di mestieri.

Il signore nel tempo della state dimora in una città tanto fresca che è più somigliante all’inverno che alla primavera, e ha nome Sandoy, ed è sotto tramontana; l’inverno dimora in un’altra città caldissima chiamata Cambalù. E di rado il detto signore colla sua fameglia more di malatie, se non di vecchiezza. Quando vuole andare da una terra in un’altra, va sopra un bellissimo carro ornato di drappi d’oro e di pietre preziose e perle grosse, menato da quattro elefanti coverti trionfalmente; e sopra il carro vanno dieci girfalchi, e quando vanno per strada van sempre uccellando. Allato al carro vanno sempre 50 baroni a cavallo per guardia; e la regina viene appresso in un altro carro con i figliuoli, con guardia d’altretanti baroni, ma non così adornato come quello del marito. Dietro poi una giornata viene tutto il restante della famiglia.

Le bestie poi di tante sorti strane sono infinite che lui tiene, fra quali erano sei cavalli che aveano sei piedi e sei gambe per uno, e viddi dui grandissimi struzzi e dui piccioli dietro di loro con dui colli per ciascuno e dui teste, dalle quali mangiavano; senza far menzione di altri uomini salvatichi che stanno nello giardino di detto signore, e donne tutte pelose di un pelo grande e bigio, quali han forma umana e si pascono di poma e d’altre bevande che gli ordina il signore che se gli dia: fra quali erano uomini non più grandi di dui spanne, e questi chiamano gomiti. Nella corte ho visto uomini di un occhio nella fronte, che si chiamavano minocchi. E a quel tempo furono appresentati al signore dui, un maschio e una femina, quali avevano una spanna di busto, colla testa grossa e le gambe lunghe, e senza mani, e s’imboccavano con uno dei piedi. E viddi un gigante grande circa 20 piedi, che menava dui leoni, l’un rosso e l’altro nero, e l’altro aveva in guardia leonesse e leopardi; e con sì fatte bestie andava il signore a far caccia, a prender cervi, caprioli, lupi, cingiali, orsi e altre bestie salvatiche.

Ma la grandezza del paese che domina questo gran principe è tanta che non bastano otto mesi ad andar da un capo all’altro per traverso, senza contarvi l’isole, che sono più di cinquemila, avisandovi che in questo terreno del principe sono più di duimilla grosse città, senza le castella, che son senza numero: e vi sono proposti quattro che governano l’imperio di questo gran signore. E ciascuna persona che, facendo viaggio, passa per quei paesi, di qual condizion sia, è ordinato che per dui pasti che fa non paghi nulla. Per tutto il paese vi sono torri altissime, dove sono assaissime guardie, le quali hanno sempre dui o tre corni da sonare grandissimi. E quando il signore vuol far sapere qualche novità da lungi, o vuol mandar lettere altrove che siano di grande importanza, incontanente ordina che si suoni il corno, e di mano in mano ad ogni loco, dove si trova apparecchiato un cavallo buono per posta, per tre o quattro miglia distante; ove si cambiano cavalli, persone, di tal sorte che in un giorno riceve e manda le littere dove non bastarebbono a pena dieci.

Quando poi questo gran Cane vuol far una bella caccia, che la fa una sola volta l’anno, va in un loco che è di lungi da questa città dove egli dimora delle miglia più di 400, dove è un grande, folto bosco. Ivi sono bestie di ogni sorte, e si diceva che ‘l bosco girasse più di 200 miglia. Qui il signore mena con seco tanti cacciatori che circonda tutto ‘l bosco intorno intorno, e allora dislaccia i cani e leoni e leonesse e altre bestie fatte domestiche e acconcie a tal arte, e similmente varie sorti d’uccelli; e la gente si viene stringendo a poco a poco, e ‘l signore sta nel mezo della selva, là ove è un prato che gira un miglio, con quattro uomini armati e suoi fidati. E lui sta solo in un muro di quattro passi che lo circonda fino alla cintura, ma sta a cavallo insieme con gli altri, e talora nel suo carro imperiale: e queste fiere tutte, o la maggior parte, passano dinanzi a lui, o poco lungi, con gli altri cacciatori che tengono i lioni e leonesse e leopardi che stanno di lungi una tirata d’arco. Quivi è sì forte il gridar delle genti, l’abbaiar de’ cani, l’ulular delle fiere e ‘l sonar de’ corni e d’altri stromenti che le povere fiere, assalite da tema grande e orror di morte che porta seco, e lo presente stato che versa negli occhi delle infelici bestie, e ‘l ricordarsi delle altre volte che vi sono incappate, che fa tremare come debole canna e non ben ferma, percossa di crudelissimi e violentissimi soffiar di borea o d’aquilone, le quali vengono uccise quasi per tema. Ma fatta una grande uccisione di loro, l’imperatore, come tempo gli pare, grida “sio”, che vuol dire misericordia alle bestie: alla cui voce i cacciatori suonano raccolta e chiamano i cani dalla preda e gli uccelli, e fa riserrare le bocche della selva, che le bestie non vi possino più entrare. Ciò fatto, il signore monta sopra uno elefante, accompagnato da quaranta over cinquanta baroni, andando saettando le bestie che passano dinanti a loro. L’altro giorno poi fa pigliar le bestie morte e le ferite, e ciascuno di loro conosce la sua saetta che avea tirato alla bestia: secondo il colpo che ha fatto vien lodato o più o meno.

Oltre ciò il signore ogn’anno fa quattro feste: la prima è per il dì della sua natività, la seconda è dell’incoronazione sua, la terza è del matrimonio, quando menò per moglie la regina, la quarta è della natività del suo primogenito figliuolo; dove convita tutti i parenti suoi e baroni. Delle quali una ne vidd’io che vi fui presente, dove il veder tanti buffoni, tanti servitori, tante sorti di bevande, canti, suoni e altre cose metteva maraviglia a tutti; e massime il vedere il gran Cane in persona in una sedia ricchissima e ornatissima con tutti quanti i baroni coronati di pietre preziose e perle e oro, ciascuno secondo la sua possibilità, divisi in quattro parti overo squadre. In un poggetto di marmo poi stanno tutti i filosofi e astrologi, e tutti, secondo la loro professione, fanno prova di loro. E di loro certi guardano non so che ponti, o di stelle o di pianeti, secondo i quali, quando ora gli pare, gridano forte dicendo secondo il nostro idioma: “Ingenocchiamoci al nostro grandissimo signore”. E ogni persona che vi si trova presente inchina il capo a terra, e i baroni si cavano la corona, e similmente gridando un’altra volta accennano che seria ‘l tempo di levarsi e mettersi a sedere. In oltre ogni barone è tenuto dargli per tributo un cavallo bianco l’anno; senza dire dell’altre genti private, che gli donano chi bestie insegnate di farli riverenza e inchinarsi inanzi a lui e altre cose con quali si danno a conoscere al signore.

Un dì fra gli altri viddi una bestia grande come un agnello, che era tutta bianca più che neve, la cui lana rassembrava un bombace, la quale si pelava. E domandando dai circostanti che cosa fusse, fummi detto che era stata donata dal signore ad un barone per una carne che fusse la migliore e più utile al corpo umano d’ogn’altra; soggiungendomi che vi è un monte che ha nome Capsiis in cui nascono certi peponi grandi, e quando si fan maturi si aprono e n’esce fuori questa bestia. E fummi anche soggionto che nel reame di Scozia e d’Inghilterra sono arbori che producono pomi violati e tondi alla guisa di una zucca, da’ quali, quando sono maturi, esce fuora un uccello. Questo credo più, per averne avuto raguaglio da persone d’importanza e degne di fede, che se l’avessi visto con i miei propri occhi.

Ma voglio qui far fine di dir delle cose del gran Cane, ch’io sarei certo di non poter dir la millesima parte di quanto ho visto. Tuttavia stimo che sia meglio di passar altrove.

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