Francisco Pizarro e la conquista del Perù

Pizarro ‹pitℎàrro›, Francisco. – Conquistatore (Trujillo, Estremadura, 1475 circa – Lima 1541). Il suo nome è indissolubilmente legato al ricordo di una delle imprese più temerarie delle conquiste spagnole in America. Determinato a conquistare il Perù, organizzò, a partire dal 1524, alcune spedizioni insieme a D. de Almagro (1475-1538). Ottenuto il sostegno della corona spagnola (1529), nel 1532 P. attaccò l’Impero inca che, minato dai contrasti interni, non oppose resistenza. Conquistata Cuzco (1533), nel periodo successivo P. consolidò il suo potere sul territorio con un susseguirsi di stragi e devastazioni. Entrato in conflitto con Almagro, dopo la morte di questi (1538), venne infine anch’egli ucciso.

Vita e attività
Di umili natali, poco si sa della sua infanzia e gioventù: figlio naturale di Gonzalo Pizarro, che combatté in Italia agli ordini del Gran Capitano raggiungendo il grado di colonnello di fanteria, ebbe un’adolescenza triste e fu costretto a fare il guardiano di maiali. Fuggito a Siviglia, poté imbarcarsi e si recò giovane in America e da Santo Domingo prese parte a spedizioni nel Golfo di Darién (1508) e nel Mare del Sud (1513); al seguito di Pedrarias Dávila, si stabilì poi a Panama. Qui le notizie riportate da Pascual de Andagoya, reduce dalla spedizione (1522) sulle coste del Pacifico, intorno all’esistenza di un potente e ricchissimo regno del Birú o Pirú, lo indussero a tentarne la conquista, associandosi a tale scopo con D. de Almagro e con F. de Luque. Un primo tentativo ebbe luogo nel novembre 1524; P. partì da Panama con una prima nave, sbarcò sulla costa ecuadoriana a Puerto de la Hambre, sostenne scontri con gli Indios e ritornò quindi a Panama, dove si riunì con Almagro, che a sua volta aveva seguito lo stesso itinerario. Rinnovata nel marzo 1526 l’associazione coi due compagni e avuto, con promesse di parte del bottino, il consenso del governatore P. Dávila, P. diede inizio alla seconda spedizione. Toccata la foce del fiume San Juan, la Baia di San Mateo e il porto di Tacámez, P. sostò nell’Isola del Gallo, poi passò nell’Isola della Gorgona in attesa di rinforzi. Insieme con Almagro visitò poi l’Isola di Santa Clara e Túmbez nel Golfo di Guayaquil e raggiunse il porto di Santa, donde, raccolte ulteriori notizie sulle ricchezze degli Incas, ritornò a Panama (1527). Recatosi quindi in Spagna (1528), ottenne dal re le «capitolazioni» (1529) che regolavano la conquista delle nuove terre e lo nominavano capitano generale e governatore di queste (denominate ufficialmente Nuova Castiglia). Preparata una terza spedizione, nel genn. 1531 P. partì da Panama, sbarcò nella Baia di San Mateo e giunse a Túmbez, dove ebbe conferma della situazione caotica dell’impero incaico, diviso tra i partigiani di Huáscar e quelli di Atahualpa, e seppe della presenza di quest’ultimo nella vicina città di Cajamarca. Senza attendere l’arrivo di Almagro, P. raggiunse rapidamente la città, e con meno di 200 uomini s’impadronì a tradimento di Atahualpa (15 nov. 1532), malgrado i suoi 40.000 soldati. L’impero incaico cadde così in un giorno; Atahualpa restò qualche mese prigioniero, fece consegnare un enorme riscatto, ma non evitò la condanna a morte (ag. 1533). L’entrata di P. a Cuzco (15 nov. 1533) e il saccheggio della città furono seguiti dalla nomina a imperatore di Manco Cápac II e dal consolidamento della conquista: Almagro partì alla conquista del Cile, mentre P. fondò Lima (genn. 1535), Trujillo e altri minori stabilimenti di coloni in vari punti dell’impero. Gli Indios frattanto si sollevarono e assediarono Cuzco (1536); il ritorno di Almagro, che, pur liberando la città, catturò due fratellastri di P. (1537) e sostenne che la città era compresa nella sua giurisdizione, diede inizio alla guerra tra i due conquistadores. Almagro fu presto battuto in battaglia a Las Salinas dai seguaci di Pizarro e condannato a morte (1538). Tre anni dopo i partigiani di Almagro, raccoltisi intorno al figlio di questo, Diego detto el Mozo, penetrarono nel palazzo dell’adelantado a Lima e uccisero Pizarro a pugnalate.

(Enciclopedia Treccani)

 

DISCORSO SOPRA IL DISCOPRIMENTO E CONQUISTA DEL PERÙ

Ora che abbiamo finite le narrazioni che da noi si son potute aver del discoprimento e conquista della Nuova Spagna fatta per il signor Fernando Cortese, si comincierà a dire di quella parte di terra ferma sopra il mar del Sur chiamata il Perù, la quale al presente è discoperta intorno intorno con diverse navigazioni, e tien di larghezza mille leghe e di lunghezza 1200 e di circunferenza 4065. Dico, cominciando da quella parte di detta terra ferma che si ristringe tanto fra il mar del Nort e quello del Sur, che non vi è di spazio più che 60 leghe, cioè dalla città del Nome di Dio, ch’è verso levante, a quella del Panama, che è verso ponente, il qual Panama sta in gradi otto e mezzo di sopra dell’equinoziale: e se questo stretto di terra di 60 leghe fussi tagliato, tutto il Perù della grandezza che abbiamo detto sarebbe isola e corre da questi gradi otto e mezzo di sopra l’equinoziale fino a 52 sotto il polo antartico, dove è il stretto di Magalianes. Ora di questo gran pezzo del mondo di nuovo trovato vi sono stati varii discopritori, perché di quella parte che guarda verso levante nel mare del Nort si son vedute varie navigazioni nel libro del signor Pietro Martire, e della terra del Brasil per le navi de’ Portughesi, e della navigazion scritta per il signor Antonio Pigafetta; e avendosi letto il discoprir che fece Vasco Nunez di Balboa del mar del Sur, si proseguiranno le narrazioni del conquistare del detto paese del Perù, fatto d’alcuni capitani spagnuoli. E però dico, avendo Pedrarias d’Avila fondato la città del Panama, come s’è letto, si trovarono fra gli abitatori di detto luogo due cavalieri ricchissimi per l’imprese passate, che, desiderosi di non stare in ozio, s’accordarono di mandar a discoprire più oltre la terra che correva sopra il detto mar del Sur verso ponente: e questi furono Francesco Pizarro e Diego d’Almagro; e determinarono che un di lor andasse in Spagna a farsi dar la governazion della terra che scoprissero, che fusse commune fra loro; e andatovi il Pizarro, promettendo gran tesori alla Maestà cesarea, fu fatto capitano generale e governatore del Perù e della Nuova Castiglia, che così fu chiamato detto paese. Condusse di Spagna detto Francesco quattro suoi fratelli, cioè Ferrando, Gonzalo e Giovan Pizarro e Francesco Martin d’Alcantara, fratello di madre. Giunti questi Pizarri nel Panama con gran fausto e pompa, non furon ben veduti dall’Almagro, qual si vedea escluso dagli onori e titoli, essendo compagno dell’impresa: e furono in grandissima discordia; pur, intravenendo molti gentiluomini, e specialmente quelli venuti di Spagna nuovamente, s’accordorno insieme, promettendoli il Pizarro di procurargli un’altra governazione nella detta terra.

Or l’Almagro, acquietatosi, dette 700 pesi di oro, l’armi e vettovaglie che avea al Pizarro, qual andò a far l’impresa, come si vedrà nelle sotto scritte tre narrazioni. E veramente questi due capitani meriterebbono grandissime lodi di questa così gloriosa impresa, se alla fine per avarizia, accompagnata con l’ambizione, non si fossero ribellati contro alla Maestà cesarea, e tra loro non avessin fatto molte guerre civili con li Spagnuoli medesimi, le quali ebbero infelice e sfortunato esito. E tutti quelli che si trovarono alla morte del caciche Atabalipa, nominati nelle infrascritte relazioni, fecero cattivo fine, come si vedrà nel quarto volume di queste navigazioni. E accioché si sappin le condizioni di detti due cavalieri, dico che Diego d’Almagro era nativo della città d’Almagro in Spagna, il padre del qual non si seppe, ancor che lui procurasse d’intenderlo, poiché si vidde ricco. Non sapeva leggere, ma era valente, diligente e amico d’onore, e desideroso d’esser lodato, e sopra tutto liberalissimo. e per questa causa tutti i soldati l’amavano fuor di misura, perché dall’altro canto era molto aspro e di parole e di fatti. Donò più di centomila ducati del suo a quelli che furono con lui all’impresa de Chili: liberalità più tosto di prencipe che di soldato. Alla fine per ambizione di signoreggiare venne alle mani con Francesco Pizarro, qual lo fece prender da Hernando Pizarro suo fratello e, posto in prigione nel Cusco, lo fece strangolare, e poi in su la piazza gli fece tagliar la testa, nell’anno 1538. Mai ebbe moglie, ma di una Indiana nel Panama ebbe un figliuolo del suo nome medesimo: fecegli insegnare e ammaestrarlo con ogni diligenza, riuscì un valente cavaliero e più che alcuno altro nato d’Indiana, ma alla fine fu fatto morir per le mani di detti Pizarri.

Francesco Pizarro fu figliuolo naturale di Gonzalo Pizarro, capitano in Navarra. Nacque nella terra di Trugillo, e fu da sua madre posto sopra la porta d’una chiesa: pur, riconosciuto dal padre doppo alcuni giorni, lo pose a stare in villa alle sue possessioni. Non seppe leggere, e vedendosi in quel stato, essendo grande, sdegnatosi si partì e venne in Sibilia, e de lì nell’Indie. Stette in S. Domenico, e passò ad Uraba con Alfonso d’Hoieda e Vasco Nunez di Balboa, a discoprire il mar del Sur, e con Pedrarias d’Avila nel Panama. Costui possedette più oro e argento che alcun Spagnuolo over capitano che sia mai stato per il mondo; non era liberale né scarso, né si vantava di quel che donava, ma era sollecito molto del util del re; giocava largamente con ogni sorte d’uomini senza far differenza d’alcuno. Non vestiva riccamente, ancorché alcune fiate portassi una vesta foderata di martori, che Fernando Cortese li mandò a donare; si dilettava di portare le scarpe e il cappello di seta di color bianco, perché così portava il gran capitan Consalvo Ferrando. Fu uomo grosso, non seppe leggere, fu animoso, robusto e valente, ma negligente in guardare la sua vita, perché li fu detto e fatto intendere che Diego d’Almagro, al quale avea fatto morire il padre, come è detto, trattava di farlo ammazzare, ed egli non lo volse mai credere, finché i congiurati non gli furono adosso nella città de los Reyes e con le spade lo finirono: e fu del 1541, a’ 24 di zugno.

Gonzalo Pizarro, dapoi la morte di Diego d’Almagro e di Francesco suo fratello, si ribellò contra alla Maestà cesarea e si fece chiamar re del Cusco; e dapoi molti conflitti con capitani di Cesare, fu preso e fattogli tagliar la testa nella città de los Reyes del 1548. E non è fuor di proposito di considerare come tutti i capitani che furon al discoprimento del Perù e alla morte del cacique Atabalipa feciono mala fine: perché Giovan Pizarro, fratello di Francesco, fu morto dagli Indiani nel Cusco; e Francesco Pizarro e suoi fratelli feciono strangolare Diego d’Almagro; e Diego d’Almagro suo figliuolo fece ammazzare Francesco Pizarro; e il licenziado Vacca di Castro fece tagliar la testa al detto Diego; e Blasco Nunez Vela fece prigione Vacca di Castro, il qual non è ancor fuor di prigione di Spagna; Gonzalo Pizarro amazzò in battaglia Vasco Nunez; e Gasca giustiziò Gonzalo Pizarro, e mandò preso in Spagna l’auditore Cepeda, perché gli altri suoi compagni erano morti: di sorte che chi volesse andare dietro raccontando troveria più di 150 capitani, uomini con carico di governo e di giustizia e d’eserciti, esser periti, alcuni per mano d’Indiani, altri combattendo fra loro, ma il più di lor fatti appiccare. Gl’Indiani di quel paese, uomini vecchi e prudenti, e molti Spagnuoli dicono queste morti e guerre procedere dalla constellazione della terra e dalla ricchezza di quella; ma li più prudenti l’attribuiscono alla malizia e avarizia degli uomini, ancorché dicono che, dapoi che s’arricordano (ancora che abbino cento anni), mai mancò la guerra nel Perù, perché Guainaca, Opanguy suo padre, ebbero continuamente guerra co’ suoi vicini per signoreggiar soli quella terra, e Guaxcar e Atabalipa fratelli combatterono sopra il dominare quanto potettono, e Atabalipa ammazzò Guaxacar suo fratello maggiore, e Francesco Pizarro amazzò e privò del regno Atabalipa per traditore. E quanti procurarono la morte del detto fecero la sua fine infelice e dolorosa, come è sopra detto; e il reverendo fra Vicenzio Valverde, che fu alla presa del Cusco, come si leggerà, fu fatto vescovo del Cusco, e alla fine, fuggendo da Diego d’Almagro, fu fatto morir dagl’Indiani dell’isola della Puna. Hernando di Soto, partito dal Perù e andato nel paese della Florida, fu morto dagl’Indiani; e Hernando Pizarro, se ben non si trovò alla morte d’Atabalipa, pur fu mandato prigion in Spagna in la Mota di Medina del Campo, per causa della morte d’Almagro.

Sopra tutta questa regione del Perù sono state fondate diverse città, alle quali è stato posto i nomi di quelle città di Spagna, e a ciascuna assegnato il suo vescovo, come la città de los Reyes sopra il mar del Perù è fatto arcivescovado, e li suoi suffraganei sono il vescovo del Cusco, del Quito, Carcas e Tumbez, e ogni dì si va nobilitando. Tutta questa regione del Perù è divisa in tre parti, cioè pianura, montagna e andes. La pianura è molto calida e arenosa e s’estende lungo la marina, e cominciando da Tumbez non vi piove né tuona né vi vengono saette, e corre di costa 500 leghe o più, e di larghezza fino in dieci o dodeci, fin al piede della montagna; e gli uomini si servon, tanto per il bere quanto per lo irrigare i terreni lavorati e seminati, delli fiumi e fontane che descendon dalli sopradetti monti, quali non s’allontanano 15 o 20 leghe dal mare. La montagna è una schiena di monti altissimi che corre 700 o più leghe, su le quali vi piovono grandissime acque e vi nevica in gran copia, ed è molto fredda; e gli abitatori che stanno fra quel freddo e caldo sono per la maggior parte guerci o ciechi, ed è gran maraviglia che fra tanti uomini non ve se ne trova a pena due soli che non sieno ciechi o guerci. Queste son le più asprissime montagne che si trovino al mondo, e hanno principio nella Nuova Spagna e più oltra, ed entrano fra il Panama e il Nome di Dio, e s’estendon sino al stretto di Magalianes; da’ quali monti nascon grandissimi fiumi, che descendon nel mar del Sur e nel mar del Nort, com’è il fiume della Plata e del Maragnon. Andes son valle molto popolate e ricchissime d’oro e d’argento e d’animali, ma non s’ha di queste tanta notizia come della montagna e della pianura.

E questa narrazione con brevità abbiamo voluto discorrer per satisfazione de’ lettori, la qual più distintamente leggeranno nel 4to volume.

RELAZIONE D’UN CAPITANO SPAGNOLO DELLA CONQUISTA DEL PERÙ.

Capitolo 1

Come il signor Francesco Pizarro e il signor Hernando suo fratello, desiderosi di scoprir cose nuove nel mar del Sur, partitisi di Panama, dopo trovate molte terre e città, venuti in notizia d’Atabalipa cacique, il qual aveva distrutto il paese del Cusco suo fratello e minacciava i cristiani, mandorono contra lui Hernando di Soto capitano. E de’ costumi di quelli abitatori.

Sì come nelli precedenti libri s’è veduto chiaramente nella terra ferma dell’Indie occidentali, gradi sette sopra la linea dell’equinoziale, nelle provincie d’Esquegua e Uracca è la terra tanto stretta che da mar a mar non è più di diciotto in venti leghe, che a miglia quattro per lega sariano circa ottanta miglia, di modo che chi stesse in su la più alta sommità delle montagne d’Esquegua e guardasse verso tramontana vederebbe il mar che si chiama del Nort, e voltandosi all’opposito verso mezzodì vederebbe il mar del Sur. Nelle quali parti sono stati fatti abitar dal signor Pedrarias, capitano dell’imperatore, duoi porti molto commodi nella navigazione di quelli mari, cioè nel mar del Nort, qual vien verso Spagna, una città con un porto detto il Nome di Dio, e nell’altro mar del Sur Panama, città e porto antico degli Indiani, ma al presente pieno di cristiani con il suo vescovo. In questa città adunque trovandosi il valoroso cavaliero Francesco Pizarro capitano, con suo fratello il signor Hernando Pizarro, desiderosi di scoprir cose nuove in questo mare del Sur, cioè di mezzodì, fabricorono alcuni navilii, avendovi abbondanzia grandissima di legnami e altre cose necessarie a tale impresa, e pensorono d’andar tanto navigando che trovassero l’isole delle Molucche, dove nascono tutte le specierie. Ma la fortuna fu loro molto più favorevole di quel che pensorono, perché avanti trovorono tanti ori e argenti che dimenticorono d’andar a trovar dette Molucche, e fu il viaggio in questo modo, secondo che da persona prudente e pratica che vi fu presente brevemente è descritto.

Nel anno 1531 del mese di febraio noi imbarcammo nel porto di Panama, il quale è in terra ferma dell’Indie gradi sette sopra l’equinoziale, nel mar del Sur, cioè verso mezzodì, e fummo dugentocinquanta uomini a piè e ottanta a cavallo, sotto il capitano e valoroso cavalier Francesco Pizarro. E navigando per il detto mare quindeci giorni, dismontammo in una spiaggia che al presente si chiama San Matteo, e dismontati in terra andammo circa cento leghe, che a quattro miglia per lega sono quattrocento miglia, conquistando sempre molti luoghi abitati da Indiani, e arrivammo ad una terra chiamata Coaque, qual è sotto la linea equinoziale, dove trovammo qualche poco d’oro e qualche pietra di smeraldo. In questa terra s’ammalorno assai delli nostri. E quindi passammo ad una isola allora chiamata la Pugna, oggi Sant’Iago, due leghe lontana da terra ferma, di circuito di leghe quindeci, molto popolata e ben cultivata, e per questo abondantissima di vettovaglie: e il cacique dell’isola, volendoci far piacere, ci mandava delle vettovaglie, e avanti di quelli che le portavano erano persone che sonavano di diversi instrumenti; nella qual stemmo cinque o sei mesi, dove morirono otto o dieci de’ nostri. De lì con navili attraversammo e arrivammo in terra ferma alla città di Tumbez, dove stemmo tre mesi, e di quindi andammo ad una terra detta Tangarara, nella quale facemmo un ridotto per abitare, qual chiamammo San Michele; nel qual luogo cominciammo aver notizia d’un gran cacique over signor nominato Atabalipa, e d’un suo fratello chiamato Cusco, con il qual faceva guerra, e dalli capitani d’Atabalipa fu seguitato con grande esercito, tanto che fu fatto prigione. In questo tempo che costoro guerreggiavano, arrivò il signor Francesco Pizarro con sessanta cavalli e novanta fanti, perché gli altri restorono nel ridotto di San Michele. Quando Atabalipa intese che venivano li cristiani, mandò un capitano a spiar che gente eravamo. Questo capitano venne verso il nostro campo, e non gli bastò l’animo, con le genti che aveva, combatter con esso noi, ma subito ritornò indreto a dar risposta al suo signore, con dirgli che se gli desse più gente, che ritorneria a combattere. Il cacique gli rispose, secondo che dipoi ci fu detto, che più sicuramente prenderia li cristiani quando loro arrivassero dove lui era.

Intendendo il signor governator Francesco Pizarro che questo cacique andava acquistando quel paese con gran numero di gente, determinò d’andarlo a trovar con quella poca gente che avea, che eravamo in tutto 150, tra li quali erano circa sessanta a cavallo; e così andammo a trovar questo cacique, il quale minacciava di venire ad assaltarci, onde il governator volse andar a trovar lui. E giunti ad un luogo detto Piura, il governator trovò un capitano suo fratello, qual avea mandato avanti con quaranta tra fanti e cavalli, e da lui seppe come tutti quelli caciqui over signori lo minacciavano con Atabalipa. Qui s’informò il governatore dagli Indiani, dalli quali intese come questo cacique Atabalipa stava in una terra chiamata Caxamalca, dove l’aspettava con molta gente; e dimandando del cammino e come il paese era abitato, intese da quelli e da una Indiana che menavamo con esso noi che in quel cammino erano assai luoghi disabitati, e che v’era una montagna nel passar della quale, per esser molto alta, si sentiva gran freddo per cinque giornate, e che duoi giorni non troveremmo acqua. Nientedimeno il signor governator si partì con le sue genti molto allegro, ma sette delli suoi fanti se ne ritornorono al ridotto, avendo paura del cammino, per esser cattivo e con poca acqua: ma il gran desiderio del signor governator e della sua compagnia, che avevano da servir la cesarea Maestà, fece che non ricusorno a travaglio o a fatica che potessino avere. E andorono ad un luogo lontano da quello due leghe, dove quattro giorni avanti era arrivato il signor capitano Hernando Pizarro per pacificare quel cacique. Quando il governator arrivò a questo luogo, intese che tre giornate lontano da quel luogo era una terra detta Caxas, nella quale erano alloggiati molti Indiani, uomini da guerra, e avevano accumulati molti tributi, con li quali Atabalipa forniva il suo campo. Hernando Pizarro volse andarlo a trovare, ma il governator non gli volse dar licenzia e mandò Hernando di Soto, con molto sospetto per la poca gente che avevano, e gli dette cinquanta over sessanta uomini, con dirli che l’aspetteria in un luogo che si chiama Caran, e che lo venisse a trovare o gli mandasse alcun fra dieci giorni.

Il capitano Hernando di Soto si partì con la detta gente verso il detto luogo di Caxas, e arrivandogli appresso seppe che la gente di guerra era stata sopra una montagna aspettandoli, donde s’erano partiti. Arrivarono costoro al luogo, ch’era grande, e in alcune case molto alte trovarono gran quantità di maiz, ch’è uno grano come ceci bianco del quale fanno pane, e molte scarpe, e l’altre case erano piene di lana; e trovorono più di cinquanta donne, che non facevano altro che vesti, e similmente vino di maiz, cioè di quel grano, per gli uomini da guerra, del qual vino per le case non era poca quantità. Le vesti che facevano erano di tale finezza che noi pensavamo che fussino di seta, lavorate con figure d’oro tirato o battuto, benissimo commesso. Le donne vestono veste lunghe, talmente che le strascinano per terra; gli uomini portano certe camicie corte senza maniche e son brutti. Il mangiar loro è quasi di cose crude, eccetto il maiz, che cuocono. Sacrificano ogni mese le più care cose che abbino, e alcuna volta li proprii figliuoli, ad uno idolo, il volto del quale bagnano con il sangue, e ancora le porte delle moschee. Questa terra era molto destrutta per la guerra che gli avea fatto Atabalipa, e sopra gli arbori erano molti Indiani ascosi, li quali non se gli erano voluti dare: tutti questi popoli avanti erano sotto il Cusco, e quello tenevano per signore e pagavangli tributo. Il capitano allora mandò a chiamar il cacique di quel luogo, qual subito venne, dolendosi molto fortemente d’Atabalipa, che così gli aveva destrutta la terra e mortogli molta gente, che di dieci o dodecimila Indiani che aveva non gli eran rimasti più che tremila; e che nelli giorni passati era la gente da guerra in quel luogo e, come seppono che vi venivano li cristiani, per paura di quelli se n’erano partiti. Allora il signor capitano disse a tutti che stessero in buona pace con li cristiani e fussero vassalli dell’imperatore, e che non avessero paura d’Atabalipa. Il cacique ebbe molto piacere di tal cosa, e subito aperse una casa di quelle ch’erano serrate e poste in guardia per Atabalipa, e cavò di quella quattro o cinque donne e dettele al capitano, perché servissero alli cristiani in apparechiarli da mangiar per il cammino. Dell’oro dissero che non ne avevano, perché tutto l’aveva tolto Atabalipa; pur gli dette quattro o cinque tegole, che sono piastre tonde d’oro di minera.

Capitolo 2

Del presente mandato per Atabalipa a’ cristiani, e quello gli fu dato e risposto all’incontro. E come il governatore, passate certe montagne molto difficili, arrivò alla città chiamata Caxamalca, dove era il campo del detto cacique.

In questo mezzo venne un capitano d’Atabalipa. Il cacique ebbe gran paura e levossi in piede, non avendo ardimento di star a sedere avanti quello, ma il signor Hernando di Soto se lo fece sedere appresso. Questo capitan portava un presente alli cristiani da parte d’Atabalipa: il presente era due fontane di pietra fatte a modo di fortezza, per bere, e due some d’uccelli che parevano oche scorticate secche, delli quali in quel paese fanno gran conto, perché ne fanno polvere e con quella si profumano. Il capitan Hernando di Soto si partì di quel luogo, menò seco quel capitano d’Atabalipa e andò a trovare il governatore, qual ebbe molto piacer di veder quel capitano, e dettegli una camicia molto ricca e due coppe di vetro, le quali presentasse al suo signore, e gli dicesse che egli era suo amico e che averia piacer di vederlo, e che se aveva guerra con alcuno, che l’aiutarebbe. Partissi il capitano alla volta del suo signore, e dopo duoi giorni si partì il governatore per andarsi ad incontrar con Atabalipa. E trovò per il cammino destrutto quasi tutto il paese, e i caciqui fuggiti, che tutti erano ridotti con il suo signore; e andando per quel cammino, ch’era la maggior parte fatto con argini di terra da ogni banda e pien d’arbori che facevano ombra, di due in due leghe trovavano alloggiamenti con alcuni condotti d’acque per commodità delli viandanti. E arrivando appresso alla montagna, Hernando Pizarro e Hernando di Soto andarono avanti con alquanta gente, e passarono un fiume grande notando, perché avevano inteso che in un luogo avanti era molta ricchezza. Arrivati al luogo circa al far della notte, trovammo la maggior parte della gente ascosa, e mandammo a dirlo al governatore. L’altro giorno la mattina passò il fiume il governatore con tutta la gente. E avanti che arrivassimo al luogo pigliammo duoi Indiani, li quali, per saper nuova del cacique Atabalipa, il capitano ordinò che fussero legati a duoi pali, perché avessero paura, nel domandarli. Uno di quelli disse che non sapeva cosa alcuna d’Atabalipa, ma che l’altro pochi giorni avanti aveva lassato con Atabalipa il cacique di quel luogo. Dall’altro sapemmo che nel cammino che va alla provincia del Cusco erano gran terre e abbondanti, e che in una bellissima valle era una città chiamata Caxamalca, dove stava il gran cacique Atabalipa, figliuolo del gran Cusco vecchio, il quale era il maggior signore che si trovasse fra gli Indiani; e che quella Caxamalca era la maggior terra di quella provincia del Cusco, o vero Perù, e che Atabalipa con molta gente aspettava li cristiani in essa; e che molti Indiani guardavano duoi mali passi ch’erano in su la montagna, e che portavan per bandiera la camicia che il governatore aveva mandato al cacique Atabalipa, e che non sapeva altra cosa più di quello ch’aveva detto: né con fuoco né con altro tormento disse più di questo. I capitani dissero al governatore quello che dalli duoi Indiani avevano sentito; duo giorni dapoi partimmo da quel luogo.

Il governator lasciò quel buon cammino fatto con gli argini sopradetti e prese altro cammino, che non era tanto buono, e arrivando a piè della montagna fece la sua retroguarda, e lasciò con quella un capitan chiamato Salcedo, perché è uomo di buona guardia e ardito nella guerra, e lui si partì con altri capitani e gente più espedita, raccomandandosi a Dio. E incominciò a montar su per la montagna, ch’era molto alta, e nel montar trovò una forte terra murata, la qual passata, al far della notte arrivò ad un luogo una lega di là da quella fortezza, dove eran case fatte di calcina e pietre per alloggiar il signor di quella terra: e la retroguarda arrivò la sera alla fortezza. Il seguente giorno restava una montagna molto alta ch’era sopra quel luogo, e il cammino era per quella; partimmoci avanti al levar del sole, accioché gli Indiani non c’impedissero la strada, dove era un passo molto cattivo, al qual fu ordinato che fussero tutti li capitani con le sue genti. Dapoi che avemmo montato, ebbe il signor governator molto piacere, perché pensava che gl’Indiani l’avessino preso, come l’Indiano che tormentammo col fuoco ci aveva detto: e quivi aspettò il governator la retroguardia, accioché andassimo tutti uniti, parendoci aver montato il più alto della montagna fredda, e subito la retroguardia arrivò. In quella notte vennero duoi Indiani con dieci overo dodeci pecore, per comandamento d’Atabalipa, e quelle detteno al governatore, il qual li dette molte cose e li rimandò. In quella montagna dimorammo cinque giorni, dipoi partimmo alla volta del campo d’Atabalipa, e un giorno avanti che arrivassimo al campo, venne da sua parte un messo e portò un presente di molte pecore cotte e pan di maiz e vasi con vino detto chicha. E avendo il governator mandato un Indiano, il qual era cacique de’ luoghi dove eravamo alloggiati, grande amico delli cristiani, questo cacique andò fino al campo d’Atabalipa, le guardie del quale non lo lascioron passare, anzi lo domandorono donde veniva il messaggier de’ diavoli, ch’erano venuti per tanto cammino e non trovavano chi gli ammazzasse. Il cacique gli pregò che lo lasciassino andar a parlar con Atabalipa, perché quando alcun nunzio andava alli cristiani gli era fatto molto onore. Loro per questo non lo lasciarono andar avanti, e quella notte tornò a dormir dove il governator era arrivato con la sua gente, e fece avisato il governatore che nissuna cosa da mangiar che Atabalipa mandasse mangiassero: e così fu fatto, che tutta la vivanda che Atabalipa mandò fu data agli Indiani che portavano le bagaglie. Avanti l’ora di vespro arrivammo a vista della terra, che è molto grande, e trovammo molti pastori e beccari del campo d’Atabalipa, e vedemmo che sotto la terra circa una lega era una casa circondata d’arbori, intorno della qual da ogni banda era coperta d’alcuni panni bianchi come tende o padiglioni più che mezza lega. Quivi era il campo dove Atabalipa stava ad aspettare alla pianura, e così arrivammo alla terra.

Capitolo 3

Della città di Caxamalca e del palazzo d’Atabalipa; del vestire ed esercizii delle donne e degli uomini di quel luogo.

Questa terra Caxamalca è la principale di questo luogo, posta a piè d’una montagna, in una valle circundata da colline, ed è di circuito circa quattro miglia. Passangli appresso duoi bellissimi fiumi, sopra ciascuno de’ quali è un ponte, per il quale s’entra nella città per due porte; ma da una banda, avanti che s’entri nella terra, è un gran palazzo circundato da muri ad uso di tempio, nella corte del quale, ch’è grande, sono piantati varii arbori, li quali fanno ombra: e questo palazzo dicono esser la casa del sole, quale adorano, nella quale quando entrano si scalzano, e simile a questa se ne trovano quasi avanti a ciascuna terra grande. Ma dentro alla terra sono circa 2000 case distinte in strade diritte a filo, la lunghezza delle quali è circa passi 200, con muri di pietra forti e alte passa tre; dentro sono ben partite, con fonte d’acque, molte belle. In mezzo è una piazza maggior che alcuna di Spagna, tutta serrata intorno, avanti la quale è una fortezza di pietre, con una scala per la quale si va di piazza alla detta fortezza. Da una banda di questa piazza è il palazzo del signore Atabalipa, molto maggiore di tutti gli altri, con giardini e loggie grandissime, dove il signore stava tutto il giorno; le abitazioni tutte eran dipinte di diversi colori, e fra gli altri d’uno colore rosso che pareva cinabro. In una delle abitazioni over loggia erano due grandi fontane ornate di piastre d’oro, in una delle quali per uno cannone entra acqua calda, talmente che non vi si poteva tener la mano, nell’altra entra acqua freddissima. Escono queste acque della montagna vicina, ed entrano nel palazzo per cannoni, de’ quali escono e mescolansi insieme e si spargono per tutta la terra, e servono alli servizii necessarii per ciascuno. Gli abitatori sono gente assai netta e le donne molto oneste, le quali portano sopra lor veste certe cinture lavorate sottilmente, con le quali si fascian quasi tutto il corpo; sopra queste portano a modo d’un manto, il quale le cuopre dalla testa insino a mezza gamba; gli uomini vestono certe camiciette senza maniche. Gli esercizii loro sono tingere in casa lane e bambagia, per fare quel tanto di tele che gli fa di bisogno; fanno ancora calze di lana e altre, in tal modo che gli scusano scarpe.

E primieramente entrò il signor Hernando Pizarro con alquanta gente, e faceva tempesta molto grande. Nella terra era molto poca gente, che potevan esser da quattrocento in cinquecento Indiani, che guardavan le porte delle case del cacique Atabalipa, ch’erano piene di donne che facevano chicha, cioè vino, per il campo d’Atabalipa. Subito s’alloggiò il signor governator con le sue genti, con molto timor della quantità grande degl’Indiani che erano nella pianura. Ciascuno delli cristiani dicevano che fariano più che Orlando, perché non aspettavano altro soccorso se non quel di Dio.

Capitolo 4

Come il signor Hernando Pizarro e Hernando di Soto andorono a parlar al cacique Atabalipa, e in che modo trovarono ordinati gli squadroni e tutto il campo, e quello esercito esser da ottantamilla uomini.

Il signor Hernando Pizarro e Hernando di Soto domandarono licenzia al signor governator, che li lasciasse andar con cinque o sei a cavallo e con il turcimano a parlar con il cacique Atabalipa, e vedere come stava alloggiato il suo campo. Il governator li lasciò andare, benché contra sua voglia, e loro andorono al campo, che era una lega lontano. Tutto il campo dove il cacique stava da una parte e dall’altra era circundato da squadroni di gente, picchieri, alabardieri e arcieri, e un altro squadrone era d’Indiani con frombe, e alcuni con certe mazze di lunghezza d’un braccio e mezzo e grosse come una asta di giannetta, con una palla tonda in cima grossa un pugno, nella quale sono fitte cinque o sei punte di pietra dura grosse un deto: e queste adoprano a due mani. Li principali portano le mazze e alcuni accette d’oro e d’argento, altri portano lancette per tirare a modo di partigianette, quelli della retroguardia portano lancie lunghe circa palmi trenta, e in un delli bracci portano una manica ripiena di bambagia; e alcuni hanno in testa celate che gli cuoprono infino sopra gli occhi, fatte di canne tessute con molta bambagia, tal che di ferro non sarebber tanto forti. Li cristiani che andavano passorono per mezzo di loro, senza che alcuno facesse movimento, e arrivorno dove stava il cacique, e trovaronlo che sedeva alla porta del suo alloggiamento, con molte donne dietro: e niuno Indiano ardiva stargli a torno. E arrivò Hernando di Soto con il cavallo sopra di lui, e lui stette quieto senza far movimento alcuno: e gli arrivò tanto appresso che il cavallo con le nari gli sventolava un fiocco che lui teneva legato in su la fronte, di lana, tanto fino che pareva di seta chermisi, e mai si mosse. Il capitan Hernando di Soto si cavò uno anello di deto e glielo dette, in segno di pace e amore da parte delli cristiani, e lui lo prese con poca estimazione. E subito venne Hernando Pizarro, che era rimasto alquanto adietro, per metter tre over quattro cavalli in un luogo dove era un mal passo; e portava in groppa del cavallo un Indiano, che era il turcimano. E arrivò al cacique, con poca paura di lui e delle sue genti, e gli disse ch’alzasse il capo, qual teneva molto basso, e gli parlasse, poiché era suo amico e lo veniva a vedere, e pregollo che la mattina poi fusse a veder il governator, che desiderava molto di vederlo. Il cacique li disse con la testa bassa che andrebbe la mattina a vederlo. Disse il capitano, perché venivan stracchi del cammino, ch’ei comandasse che li fusse dato da bere. Il cacique chiamò due Indiane, qual portarono due gran coppe d’oro per dargli da bere: e quelli per contentarlo finsono di bere, ma non beverono, e si espedirono da lui. Hernando di Soto rimesse il cavallo molte fiate alla volta d’uno squadrone de’ picchieri, e loro si ritirorno un passo indrieto. Dapoi, partiti li cristiani, loro pagorono bene quelli che s’erano ritirati indrieto, che ad essi e sue mogliere e figliuoli comandò il cacique che fusse tagliata la testa, dicendoli che dovevano andar avanti e non tornar indrieto, e che a tutti quelli che ritornasseno indrieto comanderia fusse fatto il medesimo. Li capitani ritornorno al signor governatore, e li disseno quel che era seguito del cacique, e che li pareva che la gente ch’egli aveva potriano esser da quarantamila uomini da guerra: e questo dissono per dar animo alla gente, perché erano più di ottantamila, e dissono ancora quello che gli aveva detto il cacique.

Capitolo 5

Come Atabalipa mosse il suo campo contra il governatore, e in che modo fusse ordinato l’uno e l’altro campo, e come s’appiccò la battaglia, nella qual furono rotti e posti in fuga gl’Indiani e preso il signore.

Alloggiata quella notte la gente, non fu picciolo né grande, a piedi né a cavallo, che tutta quella notte non andassino con le sue arme facendo le guardie, e similmente il buon vecchio del governatore, qual andava facendo animo alla gente, che in quel giorno tutti fussero valenti. L’altro giorno da mattina non faceva altro che andare e venire messi al campo di Atabalipa, qual una volta diceva di voler venire con le armi, altra volta di venir senza quelle. Il governatore gli mandò a dir che venisse come volesse, che gli uomini parevano buoni con le sue armi. All’ora di mezzogiorno si cominciò a partire con il suo campo, con tanta gente che tutti i campi erano pieni; e tutti questi Indiani portavano una diadema grande di oro e d’argento, come una corona, in testa, e venivano tutti vestiti con gli suoi vestimenti. All’ora di vespro erano arrivati tutti alla città, alla porta della quale era fermo il cacique, e ivi stette aspettando le sue genti accioché tutti intrassero uniti; il quale, quando tutti furono arrivati, fatta la sua ordinanza, mosse con tutta la sua gente per andar avanti in questo modo. Avanti andavano quattrocento Indiani vestiti tutti ad una livrea, li quali niente altro facevano che nettare la strada, levando via tutte le pietre o paglia che trovavano per il cammino donde doveva passar il signor, portato in lettica; e sotto quelle veste a livrea portavano certe mazocchie secretamente, con giubboni forti, con frombe e pietre fatte a posta per quelle. Dopo questi venivan tre squadre vestiti ad un’altra livrea, li quali andavano cantando e ballando; questi seguitava altra gente armata e con diademe d’oro e d’argento in testa: fra questi era il gran cacique Atabalipa, vestito d’una veste di lana finissima, che pareva di chermisì, con oro tirato over battuto benissimo tessuto. La lettica sopra la quale era portato era molto alta e maravigliosa, perché era foderata di penne di pappagallo di diversi colori e ornata di pietre preciose tutte legate in oro e argento, portata da Indiani vestiti di penne di pappagallo di diversi colori; dietro alla quale venivan due altre ricchissime, nelle quali eran altri personaggi principali appresso il signore, benché avesse qualche sospetto lui e tutta la sua gente. Il signor governator li mandò subito un uomo, pregandolo che venisse dove lui stava, dandoli sicurtà che non riceverebbe alcun danno né dispiacere: per tanto che ben poteva venir senza paura, ancor che ‘l cacique non mostrasse averne.

Il governator avea alloggiate le sue genti in case molto grandi, che era lunga ciascuna di quelle più di dugento passi, e uniti in una di queste case stava il signor Hernando Pizarro con quatordeci o quindeci a cavallo, nell’altra stava il signor Hernando di Soto con altri quindeci o sedeci a cavallo, similmente stava Belcazar con altretanti, poco più o manco; nell’altra stava il signor governator con duoi o tre a cavallo e con venti o venticinque uomini a piedi; e tutta l’altra gente stava alla guardia delle porte d’una fortezza molto forte, che alcun non intrasse dentro, la qual era in mezo la piazza: e in quella Pietro di Candia, capitano per sua Maestà, con otto o nove schiopetti e quattro pezzi piccioli d’artiglieria che guardavan quella fortezza, qual tenevan per comandamento del governatore, il quale avea loro comandato che se fino a dieci indiani intrassero in quella, che gli lasciasse intrare, ma più no. Quando il cacique arrivò in su la piazza, disse: “Dove sono questi cristiani? Mi pare che siano tutti ascosi, che non ne appar alcuno”. In questo mezzo introrono sette o otto Indiani in quella fortezza, e un capitano con una picca molto lunga, con una bandiera, fece un segnal che venissero con le armi, percioché li picchieri che venivano adietro portavano le picche di quelli che andavano avanti, e così parevano senza armi, e pur venivano con quelle. Allora un frate dell’ordine di S. Domenico, con una croce in mano, volendoli dire alcuna cosa di Dio, gli andò a parlare e gli disse che li cristiani erano suoi amici, e che ‘l signor governator desiderava che lui venisse nel suo alloggiamento a vederlo. Il cacique gli rispose che ‘l non passaria più avanti, fintanto che li cristiani non gli rendessero tutto quello che gli avean tolto in tutta la terra, e che poi faria tanto quanto gli venisse in volontà. Lasciando il frate tal pratiche, con un libro qual portava in mano gli cominciò a dir le cose di Dio che li parevano a proposito, ma lui non le volse accettare, e domandandogli il libro, il padre glielo dette pensando che lo volesse baciare, e lui presolo lo buttò addosso le sue genti. L’Indiano che era turcimano, sendo presente quando gli diceva quelle cose, subito corse e prese il libro e dettelo al padre, il quale si ritornò subito indrieto gridando: “Saltate fuora, saltate fuora, cristiani, e venite a questi nemici cani, che non voglion accettar le cose di Dio, che m’ha gettato il cacique in terra il libro della nostra santa legge”. In questo il governatore fece sonar le trombe e dette segno al bombardiero che scaricasse l’artiglieria, il che fu fatto; e gli Spagnuoli a piedi e a cavallo uscirono con tanta furia addosso agli Indiani che quegli, udito lo spaventevole strepito dell’arteglieria e veduto l’impeto delli cavalli, si misono in fuga, e quelli che erano montati in su la fortezza non discesero donde eran montati, ma ne furon buttati a terra; e similmente uscì il governatore con quella gente a piedi che avea seco, e andò a drittura alla lettica nella quale era il signor Atabalipa. E molti di quelli a piedi che andavano avanti si ritirarono alquanto da lui, vedendo che con il signor governatore erano molti Indiani suoi nemici, per il che il signor governatore s’approssimò con le sue genti alla lettica, ancorché non lo lasciassero arrivare, perché molti Indiani, alli quali eran state tagliate le mani, con le spalle tenevano la lettica del signore: ma poco giovò il loro sforzo, perché tutti furono morti, insieme con altri signori li quali eran portati in lettica, e il signor fu preso per il governator, il quale, fatto cuore, con quelli pochi pedoni che aveva e con la gente a cavallo uscì alla campagna. E molti di loro si misero a seguitare gl’Indiani che andavano fuggendo, li quali eran tanti che per fuggir detteno in un muro di sei piedi di grossezza e più di quindeci di lunghezza e altezza d’un uomo, e quello rovinorno, sopra le quali ruine caddero molti da cavallo; e in spazio di due ore, che non era più giorno, tutta quella gente fu posta in rotta, e veramente non fu per le nostre forze, che eravamo pochi, ma solo per la grazia di Dio. Rimasero in quel giorno morti da sei over settemila Indiani, oltra molti che aveano tagliate le braccia e molte altre ferite; e in quella notte andò circuendo la gente a cavallo e a piedi la terra, perché si vedevan cinque overo seimila Indiani in una montagna che soprastava alla terra, delli quali avevamo qualche sospetto. E accioché li cristiani si tornassero in campo, comandò il governatore che si tirasse un colpo d’artiglieria, il qual tratto, subito ritornorno quelli che erano sparsi per il campo, dubitando che gl’Indiani non gli assaltassero e similmente gli uomini da piedi.

Capitolo 6

Come il signor governatore fece gran carezze al cacique Atabalipa, e la grandissima quantità d’oro e d’argento che esso cacique promise per suo riscatto; e come, essendo così prigione, intendendo che dalle sue genti era stato preso un suo fratello chiamato Cusco, al quale di già aveva tolto il regno, lo fece ammazzare.

Essendo passate quattro o cinque ore della notte, il governatore stava molto allegro per la vittoria che Dio gli aveva dato, e al contrario il cacique stava molto maninconioso. Al qual domandando il governatore la causa, e dicendogli che non doveva aver affanno di noi altri cristiani, che noi non eravamo nati nelle sue terre, ma molto lontani da quelle, e che per tutte le terre donde eramo venuti erano molto gran signori, li quali tutti ci avevamo fatti amici e vassalli dell’imperatore per pace o per guerra, e che lui non avesse paura per esser stato preso da noi, il cacique rispose mezzo ridendo che non stava pensoso per quello, ma perché ebbe pensiero di prender il governatore, la qual cosa gli era riuscita al contrario, e per tal causa stava con tanto dolore; ma che di grazia domandava al signor governatore che se ivi era alcun Indiano de’ suoi, che lo facesse venire, perché voleva parlar con lui. Subito comandò il signor governatore che fussero menati duoi Indiani principali di quelli che aveva presi nella battaglia, a’ quali il cacique gli domandò che quantità di gente era morta della sua; loro risposono che tutti li campi erano pieni di morti. Allora quello subito mandò a dire a tutta la gente che era rimasta che non fuggissero, anzi che lo venissero a trovare, poiché non era morto, e che era in mano delli cristiani, li quali gli pareva fussero buona gente: per tanto comandava loro che lo venissero a servire. Il governatore dimandò al turcimano quello che aveva detto il cacique, quale gli dichiarò il tutto. Il governatore allora, fatta una croce, la dette al cacique, dicendogli che ordinasse che tutta la sua gente, così unita come separata l’un dall’altro, ne portasse una in mano simile a quella, perché li cristiani a cavallo e a piedi usciriano la mattina seguente al campo e amazzariano tutti quelli che trovassero senza quel segnale.

Quella sera il signor governatore fece sedere alla sua tavola questo gran cacique Atabalipa con gran carezze, e volse che fusse servito dalle sue donne, che erano state prese, e comandò che gli fusse parato un ricco letto in quella camera dove dormiva lui, lasciandolo dislegato, ma con guardie. Era questo signore d’anni trenta in circa, ben disposto della persona, un poco grasso, con labra grosse e con occhi incarnati come di sangue, e parlava con molta gravità. Il padre fu chiamato Cusco, signor di quel paese, il quale era di circuito di circa trecento leghe, del quale cavava gran tributo. La patria e signoria sua non era questa provincia, ma una altra lontana molto di qui, chiamata Guito, della qual partendosi e arrivando in questo paese ci si volse fermare, per averlo trovato bello, abbondante e ricco, e pose nome ad una delle città principali Cusco, dalla quale fu poi così chiamata tutta la provincia. Fu temuto e ubbidito, e doppo la morte fu tenuto per iddio, e in molte terre gli furon fatte statue; ebbe cento figliuoli fra maschi e femine, fra’ quali fu Atabalipa e un altro chiamato parimente Cusco, lasciato dal padre erede della signoria, con il quale in questo tempo Atabalipa faceva guerra, e avevagli tolto tutto lo stato.

L’altro giorno da mattina uscirono tutti li cristiani al campo con molto ordine, e trovorono molti squadroni d’Indiani: il primo di tutti portava in mano una croce, per gran paura che avevano. E si ragunò assai oro, che era in alcuni padiglioni e sparso per li campi, e similmente molti panni: questo medesimo ragunorno li negri e Indiani da servizio, perché gli altri stavano in ordinanza guardando le sue persone. E accumulò cinquantamila pesi d’oro, che val ciascun peso un ducato largo e duoi carlini, e settemila marche d’argento, e molti smeraldi; di che il cacique mostrava esser contento, e disse al governatore che questi ori erano della sua credenziera per la sua tavola, che ben sapeva quel che andavano cercando. Il governator rispose che dalla gente di guerra non si cercava altro che oro, per sé e per il suo signor imperadore. Il cacique disse che lui gli daria tanto oro quanto staria in una stanza da parte che ivi era, fino un segno bianco che v’era, tanto alto che un uomo ben grande non v’arrivava ad un palmo appresso: ed era di 25 piè di lunghezza e quindeci di larghezza. Allora gli dimandò il governatore quanto argento gli daria. Il cacique rispose che condurria diecimila Indiani, che fariano un serraglio in mezzo della piazza, e che lo impieria tutto di vasi d’argento, cioè olle, pignatte, secchi e altri vasi: e questo li daria accioché lo rimettesse in sua libertà. Il governator gli promesse, ma con questo, che non facesse alcun tradimento a’ cristiani, e li dimandò in quanti giorni faria portar quell’oro che diceva; al quale rispose che in quaranta dì seguenti si porteria, e perché la quantità era molta, che manderia ad una provincia chiamata Chinca, e da quella faria portar l’argento che aveva comandato. In questo passò un spacio di venti giorni, che non venne oro, in capo delli quali portorono otto cantari fatti d’oro, che sono come pignatte grandi, con molti altri vasi e altre piastre.

Allora intendemmo come questo cacique aveva preso Cusco, suo fratello di padre, ma non di madre, qual era maggior signor di lui. E il medesimo Cusco, venendo condotto preso, seppe come li cristiani avevano preso suo fratello Atabalipa, e disse a quelli che lo menavano: “Se io vedessi li cristiani io saria signore, per questo ho gran desiderio di vedergli; e io so che mi vengono a cercare, e che Atabalipa ha lor promesso gran quantità d’oro che io avevo per dar loro, ma io gli daria quattro volte tanto e loro non mi ammazzeriano, come penso che costui farà”. Subito che Atabalipa intese quel che suo fratello Cusco aveva detto, ebbe gran paura che, sapendo questo, li cristiani non lo facessino subito morire e facessino signor suo fratello. Per questo comandò che subitamente fusse morto, e così fu fatto, che non li giovò il molto timor messo ad Atabalipa dal governatore, quando seppe che un suo capitano lo tenea prigione, con dirgli che non lo lasciasse ammazzare, ma che lo facesse venir al loro alloggiamento. Atabalipa si pensava esser signore perché aveva conquistato quel paese, e pochi giorni avanti, in una provincia che si chiama Gomacuco, aveva fatto morir assai gente e aveva preso un altro suo fratello, qual aveva giurato di bever con la testa del detto Atabalipa: ma, per il contrario, Atabalipa bevea con la sua, il che io viddi, e tutti quelli che si trovorno con il signor Hernando Pizarro. E viddi la testa con la pelle, la carne secca e li suoi capegli, e aveva li denti serrati, e tra quelli aveva una cannella d’argento, e in cima della testa teneva una coppa d’oro appiccata, con un buco che entrava nella testa: quando li veniva in memoria della guerra che suo fratello l’aveva fatta, mettevano gli schiavi la chicha in quella coppa, la qual usciva per la bocca e per la cannella, donde bevea Atabalipa.

Capitolo 7

Come il signor Hernando Pizarro, andando ad una moschea, qual si diceva esser molto ricca d’oro, trovò in diversi luoghi grandissima quantità d’oro, datogli per alcuni capitani d’Atabalipa per riscattarlo. E come spogliorono il tempio del Sole, coperto di lastre d’oro, e similmente molte case e pavimenti e muri, i quali erano coperti d’oro e d’argento.

In questi giorni fu portato certo oro, e di già il signor governatore aveva inteso come in quella terra era una moschea molto ricca, nella quale era molto più oro di quello che ‘l cacique gli aveva promesso, perché tutti li caciqui di quelli paesi adoravano in quella, e similmente il detto Cusco, li quali venivano ad intendere quello che avevano a fare, e molti dì dell’anno venivano ad un idolo che avevano fatto, e gli davano da bere in uno smeraldo concavo. Sapendo questa cosa il signor governatore e tutti gli altri cristiani che v’erano presenti, il signor Hernando Pizarro dimandò di grazia al governator suo fratello che li desse licenzia di poter andar a quella moschea, perché voleva veder quel falso iddio, o per dir meglio quel demonio, poiché aveva tanto oro. Il governator li dette licenzia, e menorono alcuni Spagnuoli con loro, con i quali il demonio poteva aiutarsi molto poco: e questo fu l’anno 1533. Il signor governatore e tutti quelli che restammo ci trovavamo ogni giorno in molto travaglio, perché il traditor d’Atabalipa faceva continuamente venir gente contra di noi, quali venivano, ma non bastava lor l’animo d’assaltarci.

Arrivò il signor Hernando Pizarro ad un luogo detto Guamacuco, e vi trovò oro che portavano per riscatto del cacique Atabalipa, che poteva esser da 100 mila castigliani d’oro, e scrisse al governatore che mandasse per quello oro, accioché venisse con buona guardia. Il governatore mandò tre uomini a cavallo che lo accompagnassero, a’ quali arrivati consegnò l’oro, e passò avanti al cammino della moschea, e coloro si tornorono al governatore. E nel cammino accadé che li compagni che portavano l’oro vennero insieme alle mani per alcuni pezzi d’oro, e uno tagliò un braccio all’altro: il che non averia voluto il governatore per tutto il detto oro.

Stando nella città di Caxamalca quaranta giorni il governator senza speranza d’aiuto, venne Diego d’Almagro con cento e cinquanta Spagnuoli in nostro soccorso, dal quale intendemmo che voleva far abitare un porto vecchio detto Cancebi, ma, come intese che noi avevamo trovato tanto oro, come fedel servitor dell’imperadore venne in nostro soccorso. Il cacique Atabalipa in questo tempo disse al governatore che l’oro non poteva venir così presto, perché, stando lui prigione, gli Indiani non lo ubbidivano, e che mandasse tre cristiani al paese Cusco, che questi portariano molto oro e disforniriano certe case che di lame d’oro erano coperte, ne portariano ancora molto che si trovava in Xauxa, e che potevano andare sicuri, perché tutto il paese era suo. Il governatore vi mandò uomini, raccomandandogli a Dio, li quali cristiani menorono assai Indiani che li portavano in hamacas, quale è a modo d’una lettica, ed erano molto ben serviti. E arrivorono al luogo detto Xauxa, dove stava un grande uomo, capitano di Atabalipa, qual era quello che prese il Cusco, e aveva tutto l’oro in suo potere, e dette alli cristiani trenta cariche d’oro, delle quali ciascuna pesava libre cento. E loro ne fecero poco conto e, mostrando che avevano poca paura di lui, gli dissero che era poco, e lui ordinò che li fussino date altre cinque cariche d’oro, il qual oro mandorono dove stava il signor governator, per un suo negro che avevano menato seco. E li detti volsero andar avanti e arrivarono alla città del Cusco, dove trovarono un capitano d’Atabalipa che si chiamava Quizquiz, che vuol dir in quella lingua barbiero. Costui fece poca stima delli cristiani, ancora che si maravigliasse non poco di loro, e per questo fu uno delli nostri che volse approssimarsi a lui e dargli delle ferite, pure non lo fece per la molta gente che teneva. Allora il capitano disse loro che non gli dimandassero molto oro, e che se non volevano restituir il cacique per quel tanto che gli dava, che lui l’andarebbe a tuor di sua mano: e subito gli inviò ad uno tempio del Sole, che loro adorano. Questo tempio era volto a levante, coperto di piastre d’oro. Li cristiani andorono al detto tempio e senza aiuto d’alcuno Indiano, perché loro non gli volevano aiutare, essendo quello tempio del Sole, dicendo che moririano, li cristiani determinarono con alcuni picchetti di rame disfornir quel tempio, e così lo spogliarono, secondo che poi di bocca loro ci dissono. E oltra questo furono ragunate ancora molte olle o pignatte d’oro, con le quali usano cucinare in quel luogo, e portate alli cristiani per riscatto del suo signore Atabalipa.

In tutte le case dove abitorono dicono che vi era tanto oro che era maraviglia. Entrorono in una casa dove fanno li loro sacrificii, dove trovarono una sedia d’oro: questa sedia era tanto grande che pesava 19 mila pesi, nella quale potevano seder duoi uomini. In un’altra casa molto grande, nella quale giaceva morto il Cusco vecchio, il pavimento della quale e li muri eran coperti di piastre d’oro e d’argento, trovarono molti cantari over giarre di terra coperte di lame d’oro che pesavano molto, e non gli volsono rompere per non far dispiacere agli Indiani; nella qual casa erano molte donne, ed eranvi duoi Indiani morti, a modo d’imbalsamati, appresso delli quali stava una donna con una maschera d’oro sul viso, facendogli vento con uno ventaglio per la polvere e per le mosche, e li detti Indiani morti avevano in mano un baston molto ricco d’oro. La donna non volse che intrassero dentro se non si discalzavano, e discalzandosi andarono a veder quelli corpi secchi, e levarono loro datorno molti pezzi d’oro; né del tutto gli spogliorono, perché il cacique Atabalipa gli aveva pregati che non gli spogliassero del tutto, dicendo che quel era suo padre, il Cusco vecchio: e per questo non ne volsero tuor più. E così caricorono il suo oro, e il capitan che v’era li dette tutte le cose necessarie per condurlo via. Li cristiani trovorono in quel luogo tanto argento che dissono al governatore che v’era una casa grande quasi piena di cantari e tinacci grandi e vasi e molte altre pezze, e che molto più n’avrian portato, ma temevano di non dimorar troppo, perché erano soli e più di dugento e cinquanta leghe lontani dagli altri cristiani; ma dissero che avevano serrato la casa e le porte di quella, e messovi un sigillo per la Maestà dell’imperatore e per il governatore Francesco Pizarro, e ordinatovi guardie d’Indiani. E fatto un signore in quel luogo, come gli era stato comandato, presono il suo cammino con le pezze dell’oro bellissime che portavano, tra le quali era una fontana grande d’oro fatta di molti pezzi, la qual pesava più di dodecimila pesi. Questa e molte altre cose portarono.

Capitolo 8

Di certi ponti sopra i fiumi, e come le ferrature, per averne mancamento, furono fatte d’oro e d’argento. Della città di Pachalchami e sua moschea, e le cose in quella ritrovate. Della città di Xauxa e d’un luogo grandissimo. Come Chulicuchima capitano col signor Hernando portarono l’oro del riscatto d’Atabalipa, e con quanta riverenzia vadino gl’Indiani al suo signore.

Lascio di parlare di costoro, che venivano per il suo cammino, e dirò del signor Hernando Pizarro, il quale andava alla volta della moschea. Nel qual viaggio, che fu di molte giornate, trovarono molti fiumi, sopra ciascuno delli quali sempre trovorono duoi ponti fatti vicini l’uno all’altro, in questo modo: avean fatto nel mezzo del fiume una pila, la quale appariva molto sopra l’acqua, per sostegno del mezzo del ponte, perché da una parte e dall’altra del fiume erano appiccate corde fatte di stroppe di salcio, grosse come un ginocchio, le quali alle rive eran legate a grossi sassi, discosto l’una dall’altra la larghezza d’un carro; a queste per traverso eran legate corde forti e ben tessute di cotone, e, perché il ponte stesse forte, appiccavano dalla parte di sotto a queste corde sassi molto grandi. Uno di questi ponti serviva alla gente comune e stava sempre aperto, l’altro alli signori e capitani, e questo stava sempre serrato, e fu aperto quando passò il signor Hernando Pizarro. E arrivò con molto travaglio, perché pensorono non condur mai alcuni cavalli, per mancamento di ferrature per il mal cammino, perché passorono per molte montagne, la strada delle quali era fatta a mano come una scala; ma il signor Hernando comandò agli Indiani che facessino ferrature d’oro e d’argento, e così li chiodi, e in questo modo condussero li suoi cavalli al luogo dove era la moschea, ad una città la quale è maggior di Roma, detta Pachalchami. Nella qual moschea è una camera molto brutta e sporca, dove è un idolo fatto di legno molto brutto, il qual dicono essere lo Dio loro, e che questo fa nascere tutto quello di che vivono, alli piedi del qual tengono offerte alcune gioie, massime smeraldi legati in oro; e hannolo in tanta venerazione che vogliono che sol quelli lo vadino a servire che da quello (come dicono) son chiamati, e dicono che nessuno è degno di toccarlo con mano, né ancora li muri della casa sua. Non è da dubitar che il diavolo non entri in quel idolo e parli con quelli suoi ministri, e dichi loro quel che hanno a dir per il paese. Vengono a questo idolo con grandissima divozione gl’Indiani di lontano trecento leghe, e gli offeriscono oro e argento e gioie, e subito che arrivano presentano il dono al portinaro, e lui entra dentro e parla con l’idolo e porta fuora la risposta. Avanti che alcuno ministro vadi a servirlo, bisogna che ‘l sia puro e casto, e che digiuni e non tocchi donna. Tutto il paese di Catamez che è lì intorno è devotissimo di questa moschea, e per questo vi portano ogni anno tributo, e l’idolo fa loro intendere che lui è loro Iddio, e che tutte le cose del mondo sono nelle man sue, e che niente adviene agli uomini che non sia di sua volontà: per il che gli Indiani della moschea e della città di Pachalchami erano in grandissima paura, perché il capitano Hernando Pizarro con gli Spagnuoli senza alcun rispetto erano entrati a vederlo, e per questo dubitavano gli Indiani che, dapoi usciti gli Spagnoli, l’idolo non gli distruggesse.

Di questa moschea cavorono molto poco oro, perché l’avevano tutto ascoso, e trovorono una cava molto grande donde avevano tratto l’oro, e li luoghi dove stavano li cantari che gli aveano levati, di sorte che mai poterono trovare dove l’oro fusse. In un’altra casa viddero un poco d’oro ad una Indiana che guardava la casa, che l’aveva gettato in terra; trovorono similmente certi morti che erano in detta moschea; tal che non poterono averne più di trentamila pesi, e da un cacique di Chicha ne ebbero tanto che arrivorono alla somma di quarantamila pesi. E stando quivi gli mandò Chilicuchima, che era il capitano che prese il Cusco, messi, e fecegli intendere che avea molto oro per portar per riscatto del suo signore Atabalipa, e che si partirebbe da quel luogo di Xauxa, quale è una città molto grande fondata in una bella valle, e ha l’aere molto temperato, e che s’accompagneria con il signor Hernando Pizarro, e che insieme anderiano a veder il governatore. Hernando Pizarro si partì, pensando che fusse la verità quel che gl’Indiani dicevano, ma, essendo andato quattro o cinque giornate, seppe che non veniva il capitano, e deliberò con la gente che aveva andarsene al luogo del capitano, che era con gran gente, e così fece, e trovatolo gli disse che venisse a veder il signor governatore e il suo cacique Atabalipa. Lui rispose che non voleva partirsi di quel luogo, essendogli stato così comandato dal suo signore. Allora Hernando Pizarro gli disse che, se non voleva venire, lo menerebbe per forza, e mise in ordine quella poca gente che avea, perché era in una piazza grande e pensava, ancora che fussero molti, di vendicarsi di loro, perché quelli che erano con lui erano valenti uomini. Il capitan indiano, quando vidde quella gente messa in ordine, deliberò andar con lui. Il quale partito, avanti che arrivasse dove stava il signor governator in Caxamalca con il cacique Atabalipa, sei leghe lontano, trovò un lago d’acqua dolce, che era di circuito circa dieci leghe, con le rive tutte piene d’arbori verdissimi e tutto abitato intorno da casali d’Indiani, quali sono pastori, con pecore di diverse sorti, cioè alcune picciole come le nostre e altre tanto grandi che l’adoperano in portare le cose che gli fa di bisogno, per somieri. In questo lago sono uccelli di diverse sorti e similmente pesci, dal quale nasce un fiume bellissimo, il qual si passa con un ponte fabricato nel modo detto di sopra, dove stanno certi Indiani a torre un certo tributo da tutti quelli che passano. Giunti a Caxamalca, dove era il governatore e Atabalipa, il capitano Chilicuchima, avanti che entrasse nella stanza dove sedeva il cacique Atabalipa suo signore, prese da un Indiano di quelli che lui menava seco una carica mezzana e se la messe sopra le spalle, e il medesimo fecero tutti gli altri principali che lo seguitavano; ed entrati dentro, subito come lo vidde alzò tutte due le mani verso il sole, ringraziandolo che gli avesse fatto veder il signore suo, e subito piangendo si buttò in terra e con molta riverenzia pian piano s’accostò a lui e gli baciò le mani e i piedi, e il simile fecero gli altri Indiani principali. Atabalipa allora mostrò grandissima maestà e, ancora che sapesse che non aveva uomo in tutto il suo paese che lo amasse più di Chilicuchima, non lo volse però guardare nella faccia, ma stette con una gravità mirabile, né fece alcun atto o dimostrazione, non altrimenti che se gli fusse venuto avanti il più vil Indiano suo suddito. Questo atto di caricarsi le spalle quando vanno a veder gli suoi signori dimostra una gran riverenzia che gli hanno.

Capitolo 9

Come Chilicuchima, doppo molte minaccie, confessò dove fusse l’oro del Cusco vecchio. Della provincia chiamata Guito. Come Atabalipa aveva deputato molte case per fondere l’oro e l’argento; come si cavi l’oro delle minere del piano e in alcune montagne.

Questo cacique Atabalipa non ebbe grata la venuta del suo capitano, ma, essendo molto astuto, finse d’averne avuto piacere. Il governatore gli dimandò dell’oro del Cusco, perché quel capitano era quello che l’aveva preso: quello rispose, sì come Atabalipa l’aveva avisato, che non avevano altro oro, e che quello che avevano tutto l’avevano portato. Tutto quel che diceva era falso, e tirandolo da parte Hernando di Soto lo minacciò che, se non diceva la verità l’abbrucciarebbono; lui gli rispose quel che prima aveva detto, donde subito ficcorono un palo, al qual lo legorono, e portorono molte legne e paglia, dicendo pure che se non dicesse la verità l’abbrucciarebbono. Chilicuchima fece chiamar il suo signore, il qual venne con il governatore, e parlò con lui, e finalmente gli disse che voleva dire la verità alli cristiani, perché non dicendola l’abbrucciarebbono. Atabalipa gli disse che non dicesse cosa alcuna, perché essi tutto quello facevano per farli paura, che non avriano ardimento d’abbrucciarlo: e così gli dimandorono un’altra volta dell’oro, e lui non lo volse dire. Ma, subito che gli misero un poco di fuoco intorno, disse che menassero via quel cacique suo signore, perché lui gli faceva cenno che non dicesse la verità: e così lo menorono via, e subito disse che per comandamento del cacique Atabalipa lui era venuto tre o quattro volte con molta gente per assaltare li cristiani, il qual dipoi ordinava loro che tornassero indietro, per paura che, conoscendo i cristiani li suoi tradimenti, non l’ammazzassero. Similmente gli dimandorono un’altra volta dove era l’oro del Cusco vecchio. Lui gli disse che nel medesimo luogo del Cusco era un capitano chiamato Quizquiz, e che questo capitano aveva tutto l’oro, perché niuno ardisce accostarsi a lui, che, ancora che sia morto, fanno il suo comandamento così integramente come se ‘l fusse vivo, e così gli danno da bere e spandono tutto quel vino che gli vogliono dar a bere lì intorno, dove il corpo del Cusco vecchio è posto; e similmente disse quel capitano indiano che in quella terra più a basso, dove il cacique Atabalipa suo signor aveva alloggiato il suo esercito, era un padiglione molto grande, nel quale il cacique aveva molti cantari over ghiare grandi e altre diverse pezze d’oro di molte sorti. Questo e molte altre cose disse quel capitano indiano alli cristiani che quivi erano, le quali io non sapria dire, per non essermi trovato presente. Poiché costui ebbe così detto, subito lo menorono alla casa del signor Hernando Pizarro, e gli facevano una diligente guardia, perché così era necessario, imperoché più ubbidiva la maggior parte della gente al comandamento di questo capitano che al medesimo Atabalipa suo signore, perché era molto valent’uomo in guerra e aveva fatto molto male in quella provincia: ed era il detto capitano molto sdegnato contra Atabalipa suo signore, dicendo che per sua causa l’avevano mal trattato. Il cacique non gli mandava da mangiare né altra cosa alcuna, per causa del molto sdegno che contra lui teneva per quel che aveva detto, ma il signor capitano che l’aveva in casa gli dava ben da mangiare, e lo faceva servire e davagli quanto gli faceva di bisogno; e ancor che fusse così mezzo abbrucciato, molti di quelli Indiani l’andavano a servire, perché erano suoi famigliari. E questo capitano era nativo d’una provincia chiamata Guito, della qual il medesimo Atabalipa era signore.

Questo paese è molto piano e ricco, gli uomini sono molto valenti: con queste genti conquistò Atabalipa la terra del Cusco, della qual gente uscì il Cusco vecchio, quando cominciò a signoreggiare tutta quella provincia. In su questo ragionamento il cacique Atabalipa disse che aveva molte case deputate a fonder l’oro e l’argento, e che l’oro delle minere del piano era minuto, perché le mine del paese del monte erano di quelle bande del Cusco, ed erano più ricche, perché cavano di quelle l’oro in maggiori grani, e non bisognava lavarlo, ma lo ricoglievano nel fiume lavato; e come in alcune montagne cavano l’argento con poca fatica, e che un uomo ne cava in un giorno cinque o sei marche. Cavasi mescolato con piombo, stagno e zolfo, e poi si fa ben netto; e per cavarlo gli uomini appiccano fuoco grandissimo nelli monti, e subito che il zolfo è acceso l’argento scorre in pezzi.

Capitolo 10

La grandissima quantità d’oro portata al signor governatore, e il presente per lui mandato alla cesarea Maestà, e come fu diviso detto oro e quanto toccasse a ciascuno. Del tradimento ch’aveva ordinato Atabalipa e della morte di quello, e come fu fatto signor di quella terra il figliuol maggiore del Cusco vecchio, con gran sodisfazione e giubilo di tutta la città.

Lascio di parlare più oltre di questo. Dirò delli cristiani che vennero dal Cusco, li quali entrorono in campo del governatore con più di cento e novanta Indiani carichi d’oro, e ne portorono venti cantari e altre pezze grandi, che v’era tal pezzo che con fatica dodeci Indiani lo portavano, e similmente portorono altri pezzi che cavorono delle case. Dello argento ne portorono poco, perché così comandò loro il signor governatore, che non portassero argento ma oro, perché il cacique si doleva che non trovava Indiani che portassero l’oro, del quale alli giorni passati era stato portato non poca quantità. Aveva il signor governatore mandato duoi uomini al padiglione che il capitano indiano gli aveva detto, quali tornorono similmente con assai oro, del quale in una casa grande avevano in molti luoghi trovati monti grandi di diversi caratteri e pezzi minuti. Il governatore fece fondere tutto il minuto, tra ‘l quale furono alcuni grani grandi come castagne e altri maggiori, e alcuni di peso di libra e altri di maggior peso: e di questo fo fede, perché io ero guardiano della casa dell’oro e lo viddi fondere; ed eravi più di 90 tegole come piastre d’oro di minera, che alcune erano di buoni caratti: molte se ne fonderono, e furono fatte verghe, e altre si spartirono tra la gente. In questa casa erano più di 200 cantari d’argento grandi che aveva fatti portare il cacique, ancor che il governatore non l’avesse ordinato, ma v’erano molte pignatte e cantari piccioli e altri pezzi molto belli: e parmi che l’argento che io viddi pesare fusse cinquantamila marche, poco più o manco. Era oltra questo in questa casa ottanta cantari d’oro tra grandi e piccoli, e altri pezzi molto grandi; eravi ancora un monte più alto d’un uomo di quelle piastre, che erano tutte fine, di molto buon oro; ben che, per dire il vero, in questa casa in tutte le stanze erano monti grandi d’oro e d’argento.

Messe insieme il signor governatore tutto quell’oro e fecelo pesare, presenti gli officiali di sua Maestà; il che fatto, furono elette persone che facessino le parti per la compagnia. E mandò il governatore un presente alla Maestà cesarea, che fu di centomila pesi, poco più o manco, in certe pezze che furono quindeci cantari e quattro pignatte, che tenevano duoi secchi d’acqua per ciascuna, e altre pezze minute che erano molto ricche: ed è la verità che, dapoi partito il signor capitano, fu portato molto più oro di quello era restato, che fu partito. Il signor governatore fece le parti, e toccò a ciascuno fante a piè quattromila e ottocento pesi d’oro, che sono ducati 7208, e agli uomini a cavallo il doppio, senza altri vantaggi che gli furono fatti. Dette il signore governatore alla gente che venne con Diego d’Almagro dell’oro della compagnia, avanti che fussero fatte le parti, venticinquemila pesi, perché n’aveva di bisogno; e a quelli cristiani che erano restati in quel luogo dove aveva fondato il ridotto di San Michele dette duamila pesi d’oro, accioché lo partissero, che ne toccò dugento pesi a ciascuno. E dette a tutti quelli che erano venuti con il capitano molto oro, di sorte che ad alcuni mercatanti dette due o tre coppe grandi d’oro, accioché ciascuno n’avesse parte, e a molti di quelli che l’avevano guadagnato dette manco di quello che lor meritavano: e questo dico perché a me così fu fatto. Subito ne furono molti, tra li quali fui io, che domandarono licenzia al signor governatore per venirsene in Castiglia, alcuni per dar relazione alla Maestà dell’imperadore del paese, altri per veder suo padre e sua mogliera: e fu dato licenzia a venticinque compagni, quali si partirono.

In questi dì, come seppe il cacique che volevano portar via l’oro del paese, comandò molte genti per molte parti, alcuni che venissero contra li cristiani che andavano ad imbarcarsi, e altri per venir contra il campo del governatore, per veder se poteva esser liberato: e questa era una gran moltitudine di gente, però la maggior parte veniva per forza o per tema che avevano. Come il signor governator fu di tal cosa informato, parlò al cacique adirato, dicendogli che li portamenti suoi erano molto tristi, poiché senza causa faceva venir gente contra di noi. Pochi giorni avanti erano venuti al nostro campo duoi Indiani figliuoli del Cusco vecchio, fratelli di Atabalipa da canto di padre e non di madre: questi vennero molto ascosamente, per timor di suo fratello. Quando il governatore seppe che erano figliuoli del Cusco vecchio, fece loro molto onore, perché nell’aspetto mostravano esser figliuoli di gran signore. Dormivano costoro appresso il governatore, perché non avevano ardimento di dormir in altra parte, per timor di Atabalipa. Un di questi era natural signore di quella terra, la quale gli rimaneva doppo la morte di suo fratello. In questi medesimi giorni vennero nuove che la gente di guerra era molto propinqua, e per tal causa noi stavamo molto vigilanti: e una notte vennero alcuni Indiani fuggendo d’un luogo che era lì vicino, dicendo che gli Indiani venivano per far guerra e che avevano rovinati loro li maizali, che sono campi dove nasce il grano del maiz, e che venivano per assaltare il campo de’ cristiani, e che per questo loro venivano fuggendo. Come questo seppe, il signor governatore fece consiglio con li suoi capitani e con gli officiali di sua Maestà, e determinorono di far morir subito Atabalipa, il qual lo meritava. Menoronlo adunque al far della notte nella strada e legoronlo ad un palo, e per comandamento del signor governatore lo volsero abbrucciar vivo; ma volse Iddio convertirlo perché disse che voleva esser cristiano, e per questo lo fecero strangolare in quella notte, la qual con molte altre era passata che le nostre genti non avevan dormito, per timor degli Indiani e di questo cacique. Il governator providde che fusse fatto la guardia al detto cacique morto, e il giorno seguente da mattina il sepelirono in una chiesa che avevano quivi, dove molte femine indiane si volevano sepelir vive con lui.

Venti giorni avanti che morisse Atabalipa, non si sapendo cosa alcuna dell’esercito che aspettavano, ed essendo Atabalipa una sera molto allegro e parlando con alcuni Spagnuoli, apparse in aere verso la città del Cusco a modo d’una cometa di fuoco, la quale stette gran parte della notte, e come Atabalipa l’ebbe veduta disse: “Presto morirà un gran signore di quel paese”. E questo fu lui. Della morte di questo cacique s’allegrò tutto quel paese, e non potevan creder che fusse morto; subito che la nuova andò alla gente di guerra, immediate ciascuno tornò a casa sua perché erano venuti per forza. Il signor governator fece far signor di quella terra il figliuolo maggiore del Cusco vecchio, con condizione che restassino, lui e tutta la sua gente, per vassalli dell’imperadore: e così loro promisero di fare. Subito che il figliuol del Cusco vecchio fu fatto signore, le genti del paese alzorno le mani al sole, ringraziandolo che gli avea dato il suo signor naturale; e fu messo in possessione dello stato, e messongli un fiocco molto ricco legato con una cordella intorno alla testa, il quale gli veniva tanto su la fronte che gli copriva quasi gli occhi: e questa è la corona che porta quel che è signor del paese del Cusco, e così portava Atabalipa. Il che poiché fu fatto, venne gran moltitudine di gente per servirci, e questo per comandamento di questo signor nuovo. Similmente s’allegrò della morte d’Atabalipa il capitan Chilicuchima, dicendo che per causa sua era stato mezzo abbrucciato, e che daria tutto l’oro di quella terra, che n’avevan gran quantità, e molto più di quello che Atabalipa aveva dato, perché quello che avevan fatto signore era natural signore di quella terra: e in quel giorno menorono quattro cariche d’oro e certe coppe grandi.

Alcuni giorni avanti che Atabalipa morisse, aveva ordinato che fussero portati una statua d’un pastor con le pecore d’oro e altri pezzi molto ricchi: e questo tutto veniva per conto della gente nostra di campo; ma il signor governatore fu consigliato che non facesse portar allora quell’oro, accioché quelli che si partivano e tornavano in Castiglia non n’avessero la lor parte. Il che inteso dal cacique, come io e molti altri udimmo dire, disse al signor governatore che non facesse ritornar quell’oro indietro, perché n’aspettava ancora molte maggior pezze, le quali dovevan portar più di dugento Indiani. Alle quali parole d’Atabalipa rispose il governatore che erano per andar in quel paese, e che tutto lo raccoglierebbeno: e tutto questo faceva accioché non s’avesse a partire con quelli che andavano in Castiglia. Io dico che viddi restar una gran casa piena di vasi d’oro e altri pezzi, dapoi che fu fatta la sopradetta divisione, li quali vasi si doveano partire fra noi che tornavamo in Castiglia, essendoci trovati nella battaglia, con tante fatiche con quante di sopra è stato narrato. E più dico che io viddi pesare e restar lì del quinto di sua Maestà, senza quello che portò il signor Hernando Pizarro, più di cento e ottantamila pesi.

Capitolo 11

Del paese chiamato Collao, dov’è un gran fiume dal qual si cava oro, e come si raccolga, in una isola del qual fiume si dice trovarsi una casa grande fabricata tutta d’oro. E come il signor governatore mandò all’imperadore la parte dell’oro e argento aspettante a sua Maestà, quali furono discaricati in Sibilia con grande admirazione di tutta la città.

Questo non voglio restar di dire, che disse il cacique Atabalipa che era un paese detto Collao, dove è un fiume molto grande, nel quale è una isola dove sono certe case, tra le quali n’era una molto grande tutta coperta d’oro, fatto in modo di paglia, della quale alcuni Indiani venuti da quell’isola ne portarono una brancata; li travi e tutto il resto ch’era in casa, tutta era coperta di piastre d’oro, e che v’era il pavimento fatto con grani d’oro, così come lo trovavano nelle minere. E questo udi’ dire al cacique e alli suoi Indiani, che erano di quella terra venuti a vederlo, presente il signor governatore. Disse di più il cacique che l’oro che si cava di quel fiume non lo ricogliono con bateas, che sono a modo d’uno bacil da barbiere con li manichi, dove lavano l’oro nell’acqua; anzi fanno in questo modo, che mettono la terra cavata della minera in un luogo a modo d’una fossa appresso l’acqua, e con una ruota cavano l’acqua del fiume e la fanno andar in quella fossa, e così lavano la terra: la qual lavata levano via l’acqua e ricogliono i grani dell’oro, che sono molti e grandi. E questo io l’ho udito dire molte volte, perché tutti quelli Indiani della terra di Collao, li quali io domandavo, dicevano così esser la verità.

Il governator Francesco Pizarro dette a noi che venivamo in Castiglia tutto l’oro e l’argento che era della parte della Maestà dell’imperadore. E dalla provincia del Cusco over del Perù, donde partimmo per andare ad imbarcarci alla marina, camminammo dugento leghe per terra, dove arrivati montammo in nave e navigammo per il mare del Sur fino al porto della città di Panama in quindeci giorni, dove dismontati fummo accettati con grandissima allegrezza e ammirazione di tutti, per la gran quantità dell’oro che viddero. Il signor governatore Pedrarias ci providde di tutte le cose necessarie per portar detto oro e argento quelle ottanta miglia per terra fino alla città del Nome di Dio, che è sopra l’altro mar del Nort, che vien in Spagna, come nel principio di questo libro è detto. Giunti che fummo alla città del Nome di Dio e imbarcati, venimmo all’isola Spagnuola e arrivammo alla città di San Domenico, che è nella parte dell’isola che guarda verso mezzodì: e questo viaggio facemmo in otto giorni. Dove, tolti li rinfrescamenti necessarii per venir alla volta di Spagna, voltammo le prore verso levante, tenendole sempre tra greco e levante, e navigammo da cinquantadui giorni, e facemmo 1350 leghe fino alli liti di Spagna, dove è San Luca di Barameda in sul fiume di Guadachibir, secondo la ragione che facevano li pilotti nostri, ancorché io penso che fussero molte più: e avemmo buonissimo tempo, e arrivammo alla città di Sibilia, dove tutte le navi sogliono discaricare le robbe che portano dall’Indie. In questo viaggio dall’isola Spagnuola non toccammo se non l’isole delle Canarie, ancorché alcuni tocchino l’isole degli Azori, e come fummo allontanati da terra cinquecento in seicento miglia, trovammo il mar basso, né dubitammo più di fortuna, perché i venti non fanno fortuna se non appresso terra, cioè appresso l’isola Spagnuola over appresso i liti di Spagna, dove il mar è profondissimo; e navigammo gran parte con l’instrumento del quadrante, con il sole, finché, appressandoci al nostro abitabile, cominciammo a reggerci con la tramontana. Questa navigazione è molto sicura, per infiniti pilotti che sono pratichi di quella. Arrivammo in Sibilia alli quindeci giorni di gennaio 1534, dove furono discaricati tutti gli ori e argenti, con grandissima ammirazione di tutta la città e d’infiniti mercatanti fiorentini, genovesi e veniziani, li quali tutti corsono a veder tal cosa: e dipoi, avendone scritto per il mondo, io non ne dirò altro, salvo che tutti noi con la parte delli nostri ori partimmo e andammo a casa nostra, dove fummo ricevuti con quella allegrezza che ognun si può pensare.