Viaggi di Marco Polo edizione completa presa dal testo di Giambattista Ramusio

Marco Polo fu un viaggiatore veneziano (Venezia o Curzola 1254 – Venezia 1324), figlio di Niccolò. Ancor giovinetto accompagnò il padre e lo zio Matteo nella grande ambasceria presso il gran khan̄ Qūbīlāy, intrapresa per incarico di Gregorio IX. Partito (1271) da Laiazzo (od. Ayas sul Golfo di Alessandretta), compì così un lungo viaggio attraverso l’Asia anteriore e quindi l’Asia centrale in regioni ancora ignote agli Europei (alte valli del Pamir, deserto di Lop e del Gobi, ecc.), giungendo attraverso le vastissime steppe mongoliche, dopo tre anni e mezzo dalla partenza, ai confini del “Catai” (Cina) e infine a Pechino. Ottenuta la fiducia del sovrano, ebbe nei diciassette anni di soggiorno in quel paese importanti missioni che lo portarono fino all’Yünnan, al Tibet, all’Annam e alla Cocincina e che gli permisero di approfondire la conoscenza delle condizioni di vita, delle lingue e dei costumi di gran parte dell’Asia orientale, ma soprattutto del “Mangi” (Cina centrale). Presentatasi l’occasione di una spedizione navale in Persia che accompagnava una principessa cinese sposa di Argun khān, sovrano di quel paese, si imbarcò anch’egli col padre e lo zio e giunse dopo quasi due anni di viaggio a Hurmūz. Quivi soggiornò per nove mesi presso la corte persiana e ripartì poi per Trebisonda, Costantinopoli, Negroponte, giungendo infine nuovamente a Venezia, dopo venticinque anni di assenza (1295). Durante un successivo periodo di prigionia a Genova (fu forse catturato nella battaglia navale di Curzola, 1298), narrò la relazione dei suoi viaggi a un compagno di nome Rustichello, che la trascrisse in franco-italiano. Tale relazione, comunemente nota col titolo di Milione (v.), ricchissima di notizie e osservazioni raccolte con acuto spirito critico da Marco durante il suo lungo viaggio, ebbe presto rinomanza e diffusione in tutta Europa.

(Fonte: Enciclopedia Treccani)

DI MESSER GIOVAMBATTISTA RAMUSIO PREFAZIONE SOPRA IL PRINCIPIO DEL LIBRO DEL MAGNIFICO MESSER MARCO POLO

All’eccellente messer Ieronimo Fracastoro.

In quanta stima fusse la geografia appresso gli antichi, eccellente messer Ieronimo, si può questo facilmente comprendere, che essendovi bisogno di gran dottrina e contemplazione per venir alla cognizione di quella, ne volsero scrivere alcuni di più illustri scrittori, tra’ quali il primo fu Omero, che non seppe con altra forma di parole esprimer un uomo perfetto e pieno di sapienzia che dicendo ch’egli era andato in diverse parti del mondo e aveva veduto molte città e costumi de’ popoli: tanto la cognizione di questa scienzia gli pareva atta a far un uomo savio e prudente. Ne scrissero dopo lui molti altri auttori greci, e fra gli altri Aristotele ad Alessandro, e Polibio maestro di Scipione, e Strabone molto copiosamente, il libro del quale, e di Tolomeo alessandrino, son pervenuti alla età nostra; appresso de’ Latini, Agrippa genero d’Augusto, Iuba re di Mauritania e molti altri, le fatiche de’ quali sono smarrite col tempo, né si sa altro di loro se non quanto si legge nei libri di Plinio, che ancor egli copiosamente ne scrisse. Di tutti i sopranominati, Tolomeo, per esser posteriore, n’ebbe maggior cognizione, percioché verso di tramontana trapassa il mar Caspio e sa che gli è come un lago serrato d’intorno: la qual cosa al tempo di Strabone e di Plinio, quando i Romani eran signori del mondo, non si sapeva. Pur ancora con questa cognizione, oltra il detto mare per gradi quindici di latitudine mette terra incognita, e il medesimo fa verso il previous hit polo next hit antartico, oltra l’equinoziale. Delle qual parti, quella verso mezogiorno i capitani portoghesi a’ tempi nostri prima di tutti hanno scoperta; quella verso tramontana e greco levante il magnifico messer Marco previous hit Polo next hit, onorato gentiluomo veneziano, già quasi trecento anni, come più copiosamente si leggerà nel suo libro.

E veramente è cosa maravigliosa a considerare la grandezza del viaggio che fecero prima il padre e zio d’esso messer Marco fino alla corte del gran Cane imperatore de’ Tartari, di continuo camminando verso greco levante, e dapoi tutti tre nel ritorno, nei mari orientali e dell’Indie. E oltra di questo, come il predetto gentiluomo sapesse così ordinatamente descrivere ciò che vidde, essendo pochi uomini di quella sua età intelligenti di cotal dottrina, ed egli allevato tanto tempo appresso quella rozza nazione de’ Tartari, senza alcuna accommodata maniera di scrivere. Il libro del quale, per causa de infinite scorrezioni ed errori, è stato molte decine d’anni riputato favola, e che i nomi delle città e provincie fussero tutte fizioni e imaginazioni senza fondamento alcuno, e per dir meglio sogni. Ma da cento anni in qua si è cominciato, da quelli che han praticato nella Persia, pur a riconoscere la provincia del Cataio; poi la navigazione de’ Portoghesi, oltra l’Aurea Chersoneso, verso greco han discoperto prima molte città e provincie dell’India e molte isole, con i medesimi nomi che ‘l detto autor gli chiama; poi, avendo passata la regione della China, sono venuti in cognizione (come narra il signor Giovan di Barros, gentiluomo portoghese, nella sua Geografia, avuta da’ popoli della China) che la città di Cantone, una delle principali del regno della China, è in gradi trenta e due terzi di latitudine, e corre la costa greco garbino; oltra ciò, che passando 275 leghe la detta costa gira verso maestro, e che le provincie che sono appresso il mare sono tre, cioè Mangi, Zanton e Quinsai, qual è anche la principal città dove dimora il re, ed è in quarantasei gradi di latitudine; e passando ancor più oltre, la costa corre fino a gradi cinquanta.

Or, veduto che tante particolarità al tempo nostro di quella parte del mondo si scuoprono della qual ha scritto il predetto messer Marco, cosa ragionevole ho giudicato di far venir in luce il suo libro, col mezo di diversi esemplari scritti già più di dugento anni, a mio giudicio perfettamente corretto e di gran lunga molto più fidele di quello che fin ora si è letto, acciò ch’il mondo non perdesse quel frutto che da tanta diligenzia e industria intorno così onorata scienzia si può raccogliere, per la cognizione che si piglia della parte verso greco levante, posta dagli antichi scrittori per terra incognita. E benché in questo libro siano scritte molte cose che pareno fabulose e incredibili, non si deve però prestargli minor fede nell’altre ch’egli narra, che sono vere, né imputargli per così grande errore, percioché riferisce quello che gli veniva detto. E chi leggerà Strabone, Plinio, Erodoto e altri simili scrittori antichi, vi troverà di molto più maravigliose e fuor d’ogni credenza. Ma che diremo degli scrittori de’ nostri tempi, che narrano dell’Indie occidentali, trovate per il signor don Cristoforo Colombo? non dipingono monti d’oro e d’argento incredibili? arbori, frutti e animali di forma maravigliosa? E pur dell’oro e argento non si ingannano, e l’età nostra l’ha con suo grave danno sentito, per le tante guerre state tra’ principi cristiani. Degli animali, frutti e piante, ogni ora ne vengono copiosamente portate in Italia, e si conosce ch’hanno scritto la verità. E sopra l’altre, la grandezza della città di Quinsai, nella provincia di Mangi, non si vede esser simile alla gran città di Temistitan della Nuova Spagna, trovata per il signor Hernando Cortese, dove erano i palazzi e giardini del re Mutezuma, così grandi e famosi? E molte volte ho fra me stesso pensato, sopra il viaggio fatto per terra da questi nostri gentiluomini veneziani, e quello fatto per mare per il predetto signor don Cristoforo, qual di questi due sia più maraviglioso: e se l’affezione della patria non m’inganna, mi pare che per ragion probabile si possa affermare che questo fatto per terra debba esser anteposto a quello di mare, dovendosi considerare una tanta grandezza di animo con la quale così difficile impresa fu operata e condotta a fine, per una così disperata lunghezza e asprezza di cammino, nel qual, per mancamento del vivere, non di giorni ma di mesi, era loro necessario di portar seco vettovaglia per loro e per gli animali che conducevano; là dove il Colombo, andando per mare, portava commodamente seco ciò che gli faceva bisogno molto abondantemente, e in trenta o quaranta giorni col vento pervenne là dove disegnava; e questi stettero un anno intero a passar tanti deserti e tanti fiumi. E che sia più difficile l’andar al Cataio ch’al Mondo Nuovo, e più pericoloso e lungo, si comprende per questo, ch’essendovi stati due volte questi gentiluomini, alcuni di questa nostra parte di Europa non ha dipoi avuto ardire di andarvi; dove che, l’anno sequente che si scopersero queste Indie occidentali, immediate vi ritornarono molte navi, e ogni giorno al presente ne vanno infinite ordinariamente; e sono fatte quelle parti così note, e con tanto commerzio, che maggior non è quello ch’è ora fra l’Italia, Spagna e Inghilterra.

Or, venendo alla prima parte del primo libro (che ivi dentro è chiamata da messer Marco il proemio del presente libro), confesso ingenuamente che mai non averei inteso quel viaggio primo, che fecero alla corte di quel signor de’ Tartari occidentali messer Mafio e messer Nicolò, il padre di messer Marco, e poi a quella del gran Cane, se la bona fortuna non mi avesse li mesi passati fatto capitar alle mani una parte d’un libro arabo, ultimamente tradotta in latino per un uomo di questa età ben intendente di molte lingue, composto già dugento e più anni d’un gran principe di Soria detto Abilfada Ismael, correndo gli anni de legira 715, ch’è il millesimo de’ Turchi, qual ora, del 1553, corre 950: del quale non credo dover esser a noia a’ lettori se alcune cose brevemente narrerò, le quali degne di notizia ho riputate.

Questo principe si trovò quasi d’intorno a’ tempi medesimi de’ prefati tre gentiluomini de Ca’ previous hit Polo next hit e, per quello che da’ suoi scritti si può anco vedere, sapeva molto ben le cose di filosofia e d’astrologia, e volse ancora egli far, al modo delle tavole di Tolomeo, una particolar descrizione di tutte le parti del mondo che al suo tempo si conoscevano. E a questo effetto ridusse, come in un compendio, tutto quello che già aveano scritto molti auttori arabi de’ gradi delle longitudini e latitudini di dette parti; nel qual compendio non seguita l’ordine di Tolomeo, ancor che lo citi, perché l’avea tradotto in arabo, ma tiene un altro modo: conciosiacosaché, tirando alcune linee per lungo e per traverso, dividendole in parti eguali come areole, immediate ne fa appresentar agli occhi prima il nome della città, poi di ciascuno che scriva di quella, e appresso la varietà de’ gradi, sì di longitudine come di latitudine, clima, provincia, e in ultimo una brevissima e molto succinta descrizione di quella. Ordine veramente bellissimo e risoluto, che è proprio e peculiare degli scrittori arabi, perché il medesimo fece Avicenna nel secondo libro, dove tratta dell’erbe, che mette prima il nome di quelle, poi la descrizione e in ultimo le virtù e malattie alle quali sono appropriate.

Or questo libro di geografia non è tradotto tutto, ma vi manca la maggior parte delle commentazioni sopra ciascuna provincia: che se fosse tutto latino, averemmo una geografia particolar delle parti di Asia e Africa delle quali s’avea notizia a’ suoi tempi, e saperemo i nomi delle provincie, città, monti, fiumi e mari, come al presente si chiamano, co’ gradi delle longitudini e latitudini, secondo che vengono scritte da questi auttori arabi, cioè Attual, Canon, Bensidio, Resum, Cusiro, e poi Tolomeo; che, scontrandoli col detto, si averia più certa cognizione di molti nomi antichi, citati nell’istorie d’Alessandro e Strabone, ch’ora si vanno conietturando, che sarebbe una delle belle e rare cose che si potessero veder a questi tempi. Qual auttore nelle longitudini non comincia dall’isole Fortunate, come fa Tolomeo, ma dalli primi liti delle marine d’Africa, e dice essere differente dieci gradi di quello che fa Tolomeo. E però sempre il lettor advertisca, nelle longitudini che qui a basso si cittaranno del detto, volendole confrontar con quelle di Tolomeo, di batterne giù dieci gradi. Ma a far questo così gran beneficio al mondo sarebbe necessaria la liberalità di qualche gran principe, che lo volesse far venir in luce fornito: che non gli apportaria forse minor gloria, e più stabile e fissa negli animi degli uomini e di tutta la posterità, di quella che può nascere da’ grandi imperii e trionfi acquistati coll’armi.

Ma, ritornando al principio del libro che da messer Marco è chiamato per proemio, dice messer Marco che, partiti suo zio e padre di Constantinopoli, navigarono per il mar Maggiore ad un porto detto Soldadia, e non vi mette il nome della provincia: e ancor che in alcuni libri sia scritto d’Armenia, in quelli nondimeno che mi sono capitati nelle mani, antichissimi e scritti già centocinquanta anni, non vi è altro che Soldadia. E di qui presero il cammino per terra alla corte d’un gran signor de’ Tartari occidentali detto Barca. Or nel suo libro il sopradetto Ismael, descrivendo le provincie che circondano il mar Maggiore dalla parte di tramontana, e la Taurica Chersoneso, dov’è la città di Caffa, dice la provincia di Chirmia ha tre città, una detta Sogdat, l’altra Zodat, e Caffa, e che Sogdat corre maestro ponente rispetto a Caffa, ch’è posta verso levante; qual Sogdat è in gradi 56 di longitudine e 50 di latitudine. Seguita poi che Comager è una provincia nel dominio de’ Tartari di Barca, fra la Porta di Ferro e la città d’Asach, cioè rispetto alla detta Porta è verso ponente, ma rispetto ad Asach è verso levante. Continua ancora dicendo che vi è un’altra provincia, detta Elochzi, fra li Tartari di Barca e li Tartari meridionali d’Alaù, dove è la città di Iachz, i popoli della quale passano per la Porta di Ferro. Parlando poi della palude Meotide, la qual si chiama mar el Azach, dice che dalla parte di levante è la città di Eltaman con la provincia, la qual è il fine del reame Barca. Da tutte queste cose scritte per questo sultan Ismael si vien in cognizione che sopra la Taurica Chersoneso, dov’è Gazaria e Caffa, vi è la città di Sogdat, la qual al presente col porto si chiama Soldadia. Appresso, che del regno di Barca era la provincia di Comager, ch’è la Cumania, provincia grandissima nella qual vi è la città di Azach, cioè Assara: il che conferma il libro di Ayton Armeno, che dietro messer Marco previous hit Polo next hit si leggerà. Dipoi, che vi erano li Tartari di Barca occidentali e quelli di Alaù meridionali, che passavan per la Porta di Ferro, la qual è quella che al presente si chiama Derbent, che (come dicono) fu fabricata d’Alessandro Magno appresso il mar Ircano, tal che il fin del regno di Barca era verso la parte di levante che circonda la palude Meotide, cioè di Zabacche. Di sorte che ‘l cammino di questi duoi gentiluomini è questo: che, partiti di Constantinopoli, navigano per il mar Maggiore alla Taurica Chersoneso, ch’è l’isola attaccata con la terra ferma, lunga 24 miglia e 15 larga, dov’è il porto di Soldadia, appresso Caffa; e dapoi per terra vanno a trovar quel signor de’ Tartari detto Barca nella Cumania, dov’è la città d’Assara; e fatto il fatto d’arme fra detto Barca e Alaù, della qual sconfitta ne fa anco menzion il sopradetto Ayton Armeno, non possendo ritornar indietro per la detta causa, convengono andar per la Cumania tanto verso levante che circondassero il regno di Barca e venissero ad Ouchacha, ch’è città ne’ confini della Cumania verso la Porta di Ferro, e ne fa menzion detto messer Marco in questo primo libro due volte: e questa via fanno i popoli cercassi volendo venir nella Persia. Passata questa Porta di Ferro, passano anco il fiume Tigris, che Aython Armeno chiama Phison, quando parla di Sodochi figliuol di Occotacan che conquistò la Persia minore, e che ‘l suo successore si chiama Barach. Or questi duoi fratelli, passato il Tigris e un deserto, arrivano alla città di Bochara, della qual era signor il sopradetto Barach. Questa città di Bochara, secondo Ismael sultan, è in gradi 86 e mezo di longitudine e 39 e mezo di latitudine, ed è la patria dove nacque Avicenna, che fra gli medici, per la sua eccellente dottrina, vien chiamato il principe infino alli tempi nostri: e questo è quanto appartien alla intelligenzia della prima parte di questo proemio.

Da Bochara poi vengono condotti alla volta di greco e tramontana alla corte del gran Can, dal qual son poi mandati ambasciadori al papa; e ritornando in qua pervengono al porto della Ghiazza, nell’Armenia minore, che anticamente si chiamava Issicus Sinus, che risponde per mezo l’isola di Cipro. E indi per mar vennero nella città d’Acre, che si teneva allora per i cristiani, e latinamente è chiamata Acca e Ptolemais, dove si trovava legato della sede apostolica messer Tebaldo de’ Visconti da Piacenza, qual (come narra il Platina nelle vite de’ pontifici) in luogo di Clemente IIII fu fatto papa, e chiamossi Gregorio X, ove dice ch’al tempo di costui alcuni prencipi tartari, mossi da l’auttorità sua, si fecero cristiani. Questi due fratelli, come nel detto proemio si racconta, partiti d’Acre andarono a Venezia, dove tolto seco messer Marco, l’autor di questo libro, di nuovo ritornarono in Acre; e quivi presa la benedizione del papa nuovamente creato, qual era stato insino allora legato, e tolti in sua compagnia due frati predicatori per condurli al gran Cane, come furono in Armenia la trovarono perturbata per la guerra mossa da Benhocdare, soltan di Babilonia, del qual ne scrive anco l’auttor armeno.

Della navigazion poi che fecero nel suo ritorno verso l’India con la regina assegnata per moglie del re Argon, e da che porto della provincia del Cataio e di Mangi si partissero, non si può dire cosa alcuna, perché non lo nominano. Ma ben al presente si sa che da’ porti di dette provincie venendo verso levante, e poi voltando verso siroco e mezodì, si vien nell’India, come nelle tavole della Geografia dello illustre signor Giovan de Barros portughese si potrà copiosamente vedere. Quivi giunti, trovarono che ‘l re Argon era morto, e che, per esser suo figliuolo Casan giovane, uno nominato Chiaccato governava il regno: Hayton Armeno il chiama Regaito. Par poi che andassero a trovar detto Casan nelle parti dell’Arbore Secco, ne’ confini della Persia; il qual Casan, come si leggerà nel predetto Hayton Armeno, divenne grandissimo capitano di guerra. E l’Arbore Secco è nella provincia di Timochain, come nel vigesimo capitolo del primo libro da lui viene più copiosamente descritto. Ritornati poi a Chiaccato per aver la sua espedizione, ebbero le quattro tavole d’oro, per virtù delle quali furono accompagnati sicuramente fino in Trabisonda: e questo perché i Tartari dominavano e aveano tutt’i signori tributarii loro fino al mar Maggiore, ancor che fussero cristiani. Che volta veramente pigliassero partendosi dal Chiaccato a far il detto viaggio, non si può se non per conietture pensare che, partiti dal regno del detto re Argon, dove stava questo Chiaccato, che poteva esser uno di quelli regni che sono fra terra sopra il fiume Indo, se ne venissero per mare fino nel sino Persico all’isola di Ormus, e smontati sopra la provincia della Carmania, la quale nel libro si chiama Chermain, tenessero poi per quella banda il camino verso la Persia, conciosiacosaché si vede detto auttore far molto menzione dell’isola d’Ormus, delle città e terre di Chermain, fino nella Persia; la quale egli non poteva aver veduta nel viaggio che fece dal porto della Ghiazza alla corte del gran Cane, ma ben in questo suo ritorno. E della Persia vennero verso il mar Maggior a Trabesonda, e poi a Constantinopoli, Negroponte, e ultimamente a Venezia.

Dove giunti che furono, intravenne loro quel medesimo ch’avenne ad Ulisse che, dapoi venti anni tornato da Troia in Itaca sua patria, non fu riconosciuto da alcuno:così questi tre gentiluomini, dapoi tanti anni ch’eran stati lontani dalla patria, non furno riconosciuti da alcuno de’ loro parenti, i quali fermamente riputavano che fussero già molti anni morti, perché così anche la fama era venuta. Si trovavan questi gentiluomini, per la lunghezza e sconci del viaggio, e per le molte fatiche e travagli dell’animo, tutti tramutati nella effigie, che rappresentavano un non so che del tartaro nel volto e nel parlare, avendosi quasi dementicata la lingua veneziana. Li vestimenti loro erano tristi e fatti di panni grossi, al modo de’ Tartari. Andarono alla casa loro, la qual era in questa città nella contrada di S. Giovan Crisostomo, come ancora oggidì si può vedere, ch’a quel tempo era un bellissimo e molto alto palaggio, e ora è detta la corte del Millioni, per la caggione che qui sotto si narrerà: e trovarono che in quella erano entrati alcuni suoi parenti, alli quali ebbero grandissima fatica di dar ad intendere che fussero quelli che erano, perché, vedendoli così trasfigurati nella faccia e mal in ordine d’abiti, non poteano mai credere che fussero quei da Ca’ previous hit Polo next hit, ch’aveano tenuti tanti e tanti anni per morti.

Or questi tre gentiluomini (per quello ch’io essendo giovanetto n’ho udito molte fiate dire dal clarissimo messer Gasparo Malipiero, gentiluomo molto vecchio e senatore di singular bontà e integrità ch’avea la sua casa nel canale di S. Marina, e sul cantone ch’è alla bocca del rio di San Giovan Crisostomo, per mezo a punto della ditta corte del Millioni, che riferiva d’averlo inteso ancor lui da suo padre e avo, e d’alcuni altri vecchi uomini suoi vicini) s’imaginarono di far un tratto col qual, in un istesso tempo, ricuperassero e la conoscenza de’ suoi e l’onor di tutta la città, che fu in questo modo: che, invitati molti suoi parenti ad un convito, il qual volsero che fosse preparato onoratissimo e con molta magnificenza nella detta sua casa, e venuto l’ora del sedere a tavola, uscirono fuori di camera tutti tre vestiti di raso cremosino, in veste lunghe fino in terra, come solevano standosi in casa usare in que’ tempi; e data l’acqua alle mani, e fatti seder gli altri, spogliatesi le dette vesti se ne misero altre di damasco cremosino, e le prime di suo ordine furono tagliate in pezzi e divise fra li servitori. Dapoi, mangiate alcune vivande, tornarono di nuovo a vestirsi di velluto cremosino e, posti di nuovo a tavola, le vesti seconde furono divise fra li servitori; e in fine del convito il simil fecero di quelle di velluto, avendosi poi rivestiti nell’abito de’ panni consueti che usavano tutti gli altri. Questa cosa fece maravigliare, anzi restar come attoniti, tutti gli invitati; ma, tolti via li mantili e fatti andar fuori della sala tutt’i servitori, messer Marco, come il più giovane, levato dalla tavola andò in una delle camere, e portò fuori le tre veste di panno grosso consumate con le quali erano venuti a casa; e quivi con alcuni coltelli taglienti cominciarono a discucir alcuni orli e cuciture doppie, e cavar fuori gioie preciosissime in gran quantità, cioè rubini, safiri, carboni, diamanti e smeraldi, che in cadauna di dette vesti erano stati cuciti con molto artificio, e in maniera ch’alcuno non si averia potuto imaginare che ivi fussero state: perché, al partir dal gran Cane, tutte le ricchezze ch’egli aveva loro donate cambiarono in tanti rubini, smeraldi e altre gioie, sapendo certo che, s’altrimente avessero fatto, per sì lungo, difficile ed estremo cammino non saria mai stato possibile che seco avessero potuto portare tanto oro. Or questa dimostrazione di così grande e infinito tesoro di gioie e pietre preciose, che furono poste sopra la tavola, riempié di nuovo gli astanti di così fatta maraviglia che restarono come stupidi e fuori di se stessi, e conobbero veramente ch’erano quegli onorati e valorosi gentiluomini da Ca’ previous hit Polo next hit, di che prima dubitavano, e fecero loro grandissimo onore e riverenzia.

Divulgata che fu questa cosa per Venezia, subito tutta la città, sì de’ nobili come de’ populari, corse a casa loro ad abbracciargli e fare tutte quelle maggiori carezze e dimostrazioni d’amorevolezza e riverenzia che si potessero imaginare: e messer Maffio, ch’era il più vecchio, onorarono d’un magistrato che nella città in que’ tempi era di molta auttorità. E tutta la gioventù ogni giorno andava continuamente a visitare e trattenere messer Marco, ch’era umanissimo e graziosissimo, e gli dimandavano delle cose del Cataio e del Cane; il quale rispondeva con tanta benignità e cortesia che tutti gli restavano in uno certo modo obligati. E perché nel continuo raccontare ch’egli faceva più e più volte della grandezza del gran Cane, dicendo l’entrate di quello esser da 10 in 15 millioni d’oro, e così di molt’altre ricchezze di quelli paesi, riferiva tutte a millioni, lo cognominarono messer Marco Millioni, che così ancora ne’ libri publici di questa Republica, dove si fa menzion di lui, ho veduto notato; e la corte della sua casa a S. Giovan Crisostomo, da quel tempo in qua, è ancora volgarmente chiamata del Millioni.

Non molti mesi dapoi che furono giunti a Venezia, sendo venuta nuova come Lampa Doria, capitano dell’armata de’ Genovesi, era venuto con settanta galee fino all’isola di Curzola, e d’ordine del principe dell’illustrissima Signoria fatte che furono armate 90 galee con ogni prestezza nella città, fu fatto per il suo valore governatore d’una messer Marco previous hit Polo next hit; il quale insieme con l’altre, essendo capitan generale il clarissimo messer Andrea Dandolo procuratore di S. Marco, cognominato il Calvo, molto forte e valoroso gentiluomo, andò a trovar l’armata genovese; con la qual combattendo il giorno di nostra Donna di settembre, ed essendo rotta (come è commune la sorte del combattere) la nostra armata, fu preso, perciò che, avendosi voluto mettere avanti con la sua galea nella prima banda ad investir l’armata nimica, e valorosamente e con grande animo combattendo per la patria e per la salute de’ suoi, non seguitato dagli altri, rimase ferito e prigione col Dandolo. E incontinente posto in ferri, fu mandato a Genova, dove, inteso delle sue rare qualità e del maraviglioso viaggio ch’egli avea fatto, concorse tutta la città per vederlo e per parlargli, non avendolo in luogo di prigione, ma come carissimo amico e molto onorato gentiluomo. E gli facevano tanto onore e carezze, che non era mai ora del giorno che dai più nobili gentiluomini di quella città non fusse visitato, e presentato d’ogni cosa nel vivere necessaria.

Or trovandosi in questo stato messer Marco, e vedendo il gran desiderio ch’ognun avea d’intendere le cose del paese del Cataio e del gran Cane, essendo astretto ogni giorno di tornar a riferire con molta fatica, fu consigliato che le dovesse mettere in scrittura: per il qual effetto, tenuto modo che fusse scritto qui a Venezia a suo padre, che dovesse mandargli le sue scritture e memoriali che avea portati seco, e quelli avuti, col mezzo d’un gentiluomo genovese molto suo amico, che si dilettava grandemente di saper le cose del mondo e ogni giorno andava a star seco in prigione per molte ore, scrisse per gratificarlo il presente libro in lingua latina, sì come accostumano li Genovesi in maggior parte fino oggi di scrivere le loro facende, non possendo con la penna esprimere la loro pronuncia naturale. Quindi avenne che ‘l detto libro fu dato fuori la prima volta da messer Marco in latino, del quale fatte che furono poi molte copie, e tradotto nella lingua nostra volgare, tutta Italia in pochi mesi ne fu ripiena, tanto desiderata e aspettata da tutti era questa istoria.

La prigionia di messer Marco perturbò grandemente gli animi di messer Maffio e messer Nicolò suo padre, perciò che, avendo eglino fin nel tempo del lor viaggio deliberato di maritarlo tantosto che fussero giunti in Venezia, vedendosi ora in questo infelice stato, con tanto tesoro e senza eredi alcuni, e dubitando che la prigionia del predetto dovesse durar molti anni e, quello che poteva avvenir peggio ancora, che non vi lasciasse la vita (perché da molti era loro affermato che gran numero de prigioni veneziani erano stati in Genova le decine d’anni avanti che avessero potuto uscire), e vedendo di non poterlo ricuperar di prigione con alcuna condizione di denari, come più volte avevano per molte vie tentato, consigliatisi insieme, deliberarono che messer Nicolò, ancor che fusse molto vecchio, ma però di complessione gagliarda, di novo dovesse pigliar moglie: e così, maritatosi, in termine d’anni quattro ebbe tre figliuoli, nominati l’un Stefano, l’altro Maffio e l’altro Giovanni. Non passarono molti anni dapoi che ‘l detto messer Marco, per mezzo della molta grazia che egli aveva acquistata appresso i primi gentiluomini e tutta la città di Genova, fu liberato e tratto di prigione; di dove ritornato a casa, ritrovò che suo padre aveva in quel spazio di tempo avuto tre figliuoli: né per questo si perturbò punto, anzi, come savio e prudente, consentì ancor egli di pigliar moglie, il che fatto, non ebbe alcun figliuolo maschio, ma due femine, una chiamata Moretta e l’altra Fantina. Essendo poi morto suo padre, come a buono e pietoso figliuolo convenia, fece fargli una molto onorata sepoltura per la condizione di quei tempi, che fu un cassone grande di pietra viva, qual fino al giorno presente si vede sotto il portico ch’è avanti la chiesa di S. Lorenzo di questa città, nell’entrare da parte destra, con una inscrizione tale che denota quella esser la sepoltura di messer Nicolò previous hit Polo next hit, della contrata di S. Giovan Crisostomo. L’arma della sua famiglia è una sbarra in pendente con tre uccelli dentro, li colori della quale, per alcuni libri d’istorie antiche, dove si vedono colorite tutte l’armi de’ gentiluomini di questa nobil città, sono il campo azurro, la sbarra d’argento e li tre uccelli negri, che sono quella sorte d’uccelli che qui volgarmente si chiamano pole, dette da’ Latini “gracculi”.

Quanto tempo veramente durasse la descendenzia di questa nobile e valorosa famiglia, ritrovo che messer Andrea previous hit Polo next hit da S. Felice ebbe tre figliuoli, il primo de’ quali fu messer Marco, il secondo Maffio, il terzo Nicolò: questi due ultimi furono quelli che andarono a Constantinopoli prima, e poi al Cataio, come s’è veduto. Ed essendo venuto a morte messer Marco il primo, la moglie di messer Nicolò, ch’era rimasa gravida a casa, come ella partorì, per rinovar la memoria del morto pose nome Marco al figliuolo che nacque, ch’è l’autore di questo libro. De’ fratelli del quale, che nacquero dapoi il secondo matrimonio di suo padre, cioè Stefano, Giovanni e Maffio, non trovo che altri avessero figliuoli se non Maffio, ch’ebbe cinque figliuoli maschi e una femina, nominata Maria, la qual, mancati che furono gli fratelli senza figliuoli, ereditò del 1417 tutta la facoltà di suo padre e fratelli, essendo onoratamente maritata in messer Azzo Trivisano, della contrata di S. Stai di questa città; onde poi venne descendendo la felice e onorata stirpe del clarissimo messer Domenico Trivisano, procurator di S. Marco e valoroso capitano generale di mare di questa Republica, la cui virtù e singolar bontà è rappresentata e accresciuta nella persona del serenissimo principe il signor Marcantonio Trivisano suo figliuolo. Questo è il corso di questa nobile famiglia da Ca’ previous hit Polo next hit, qual durò infino all’anno di nostra salute 1417; nel qual tempo, morto Marco previous hit Polo next hit, ultimo delli cinque figliuoli di Maffio che abbiamo detto di sopra, senza alcun figliuolo, come porta la condizione e rivolgimento delle cose umane, in tutto mancò.

E avendo trovato due proemii avanti questo libro, che furono già composti in lingua latina, l’uno per quel gentiluomo di Genova molto amico del predetto messer Marco, e che l’aiutò a scrivere e comporre latinamente il viaggio mentre era in prigione, e l’altro per un frate Francesco Pipino bolognese, dell’ordine de’ predicatori, che, non essendoli pervenuto alle mani alcuna copia dell’esemplar latino, né leggendosi allora questo viaggio altro che tradotto in volgare, lo ritornò di volgare in latino del 1320, non ho voluto lasciare di non rimettergli tutti due, per maggior satisfazione e contentezza de’ lettori, acciò che uniti servino più abbondantemente in vece di prefazione del detto libro. Il quale, insieme con questi altri eccellenti scrittori della parte verso levante e greco tramontana fino sotto il nostro previous hit polo next hit, che abbiamo con non poca fatica così interi e fedeli in questo secondo volume fin ora raccolti, anderà sotto l’onorato nome di Vostra Eccellenza, in quella maniera che già gli abbiamo dedicato il primo delle cose dell’Africa e del paese del Prete Ianni, con li molti viaggi dalla città di Lisbona e dal mar Rosso a Calicut e insino alle Molucche, dove nascono le specierie; e come poi le sarà parimente dedicato anco il terzo, dove si conterano le navigazioni al Mondo Nuovo agli antichi incognito, fatte dal Colombo con molti acquisti, accresciuti poi dal Cortese, dal Pizzarro e da altri capitani, e della cognizione della Nuova Francia, nelle dette Indie posta dalla parte di verso maestro tramontana. Il che ho determinato di fare acciò che dalla grandezza e splendore del nome suo glorioso riceva questo volume, insieme con gli altri due, quella autorità e riputazione che non gli può dare la bassezza del mio debol ingegno. Vostra Eccellenza adunque lo riceverà con quella sincerità ch’io anche gliel’offero, e difendendolo quanto sarà in lei, insieme con l’altro fin ora dato in luce, dalle calunnie de’ maldicenti, farà che, sì come io con molta fiducia e sicurtà l’ho dato in protezione al nome suo onorato, così anche egli sia già fatto sicuro col favor di Vostra Eccellenza, senza sospetto alcuno insieme col primo liberamente alle mani degli uomini pervenga.

Di Venezia, a’ sette di luglio MDLIII.

ESPOSIZIONE DI MESSER GIO. BATTISTA RAMUSIO SOPRA QUESTE PAROLE DI MESSER MARCO previous hit POLO next hit: “NEL TEMPO DI BALDUINO, IMPERATORE DI CONSTANTINOPOLI, DOVE ALLORA SOLEVA STARE UN PODESTA1 DI VENEZIA PER NOME DI MESSER LO DOSE, CORRENDO GLI ANNI DEL NOSTRO SIGNORE 1250”.

Cominciando messer Marco previous hit Polo next hit il suo viaggio dalle sopra dette parole, m’è sparso nel principio di questo libro cosa sommamente necessaria e da non essere in modo alcuno pretermessa, ancor che molti istorici n’abbino fatto diversamente menzione, l’esporre quanto più brevemente si potrà, a più compiuta satisfazione de’ lettori, la cagione perché in Constantinopoli in que’ tempi stesse un podestà per nome del doge di Venezia, massimamente che appartiene la cognizione di così illustre e gloriosa memoria alla grandezza ed eccellenzia di questa veramente divina Republica, dalle cui antiche scritture e memorie, in antichissimi libri e a que’ tempi notate, di questa impresa di Constantinopoli, n’ho io sommariamente tratte quelle particolar cose che qui sotto, sì come io stimo, con molto contento de’ benigni lettori saranno descritte.

E1 adunque da sapere che l’anno di nostra salute 1202 vennero in questa città di Venezia que’ gran principi francesi e fiamenghi, veramente cristianissimi, Baldovino conte di Fiandra e di Henaut, Enrico suo fratello, Luigi conte di Bles e di Chartres, e il conte Ugo di San previous hit Polo next hit, con gran numero di baroni e signori e vescovi e abbati, che aveano gli anni avanti preso il segno della croce. E condussero seco numeroso esercito, il quale fu ordinato, per non dare incommodo alla città, che pigliasse gli alloggiamenti a San Nicolò sopra il lito del mare, ove erano mandate dalla città le vettovaglie di giorno in giorno per il lor bisogno (ed erane lor capitano generale il marchese Bonifacio di Monferrato terzo di questo nome), con proponimento d’andare a soccorrere ai cristiani nella Terra Santa; ove poco avanti per il Saladino soldano di Egitto era stato tolto a Guidone di Lusignano il regno di Ierusalem e di tutta la Soria, il quale essi, dopo quella famosa recuperazione di Gottofreddo Boglione e di tanti baroni, che fu d’intorno l’anno di nostra salute 1099, aveano posseduto ottantaotto anni continui. E montarono l’ottavo giorno d’ottobre, l’istesso anno 1202, al porto di San Nicolò de Lio sull’armata, la quale l’anno avanti, secondo l’ordine e convenzioni fatte con gli ambasciatori che essi avevano mandati a Venezia, era loro stata apparecchiata da messer Rigo Dandolo, allora serenissimo principe di questa Republica; il quale a così santa e cristiana impresa com’era quella della ricuperazione di Terra Santa volse andare in persona, come a buon e religioso principe conveniva, ancor che fosse molto vecchio e cieco; ma prima, con tutto il popolo che in quella impresa l’avea da seguitare, tolse l’insegna della croce nella chiesa di San Marco, avanti l’altare grande, con gran solennità e con bellissime ceremonie, lasciando d’ordine della Republica Reniero suo figliuolo al governo della città. Avendo la Republica in quel tempo perduta la città di Zara in Schiavonia, fu fatta convenzione con li baroni che s’andasse prima a ricuperarla; la quale, dopo lungo assedio dell’esercito e dell’armata, fu presa il mese di novembre e tolta dalle mani di Bela, re d’Ungheria, il quale se n’era per avanti impatronito. Sopragiunse poi il verno con gran freddo, che non li lasciò partire per andare al destinato viaggio di Soria e allo acquisto di Ierusalemme.

E in questo mezo vennero a Zara ambasciadori mandati da Filippo svevo, re della Magna, a’ baroni, dicendo che, se volevano aver pietà d’Alessio, suo cognato e figliuolo d’Isaac Angelo imperatore di Constantinopoli, che s’era poco innanzi fuggito a lui dalle crudelissime mani di suo zio Alessio il tiranno (il quale, avendo cavati gli occhi ad Isaac suo fratello e padre di costui, s’era fatto signore e s’avea con gran tradimento usurpato quello imperio di Constantinopoli), fariano loro gran partiti, sì come aveano ampia facultà dal loro signore e da lui. Ottennero finalmente gli ambasciadori, per i molti preghi fatti a’ baroni e al doge e per la pietà ch’ebbero del giovane, che, tantosto che si potesse navigare, sarebbe per loro rimesso il giovanetto in stato con suo padre: e fu allora molto solennemente promesso per gli ambasciadori e giurato che, se col padre lo rimettevano nell’imperio, egli, oltra che di subito rimetterebbe tutto ‘l stato alla obedienzia della Chiesa romana, dalla quale era partito già molto tempo, darebbe ancora dugentomila marche d’argento alli baroni, con vettovaglia per tutto l’esercito, e diecimila fanti a sue spese per questo santo servigio per uno anno continuo; e di più s’obligava a tener tutto il tempo della vita sua cinquecento cavallieri nella Terra Santa a sue spese.

Conchiuso questo partito, e solennemente dall’una e l’altra parte giurato, gli ambasciadori si partirono, ritornando a Filippo nella Magna, e facendo sapere il tempo al quale era stato a punto determinato dalli baroni e dal doge che ‘l giovanetto dovesse venir a ritrovarli a Zara per partirsi, che fu alquanti giorni dopo Pasqua. Il quale giunto che fu, montati sull’armata e imbarcate le genti, andarono al diritto verso Constantinopoli, dove in pochi giorni giunti, e smontati alla riva di Calcedonia, che è dall’altra parte del stretto all’incontro di Constantinopoli, ov’era allora un bellissimo palazzo dell’imperatore greco, e tratti e’ cavalli fuori degli uscieri (che ora si chiamano palanderie), ordinarono i baroni le lor battaglie in quel modo e forma a punto come doveano dipoi andare all’assalto della città. E fatta sopra il lito una picciola scaramuccia col megaduca del tiranno Alessio, e quello rotto e sconfitto, avendo anco mostrato dalla prora della galea del doge Dandolo il giovanetto Alessio alli Greci della città, che in gran numero erano adunati sopra le mura e sopra tutte le torri di Constantinopoli, per vedere se a lui s’avessero voluto arrendere, si rimbarcorono: e, passato lo stretto, smontarono nella terra di Constantinopoli, ove Alessio il tiranno era venuto sopra la riva, con gran numero di Greci a piedi e a cavallo, per vietarli il smontare. Spaventatosi l’imperatore da così grande ardire di nemici e avilitosi, subito si ritirò, e fu presa da’ Francesi la torre di Pera, nella quale era tirata da Constantinopoli una molto forte catena che chiudeva il porto.

Posto l’assedio per loro dalla parte di terra, e per Veneziani dalla parte di mare con le loro navi e galee, ordinato l’assalto, incominciarono quelli del doge, poste in ordinanza le galee nel golfo di Pera, a drizzare nell’armata mangani e periere e dare la battaglia (perché non era ancor trovata la maravigliosa machina dell’artegliaria, ch’oggidì si costuma nelle guerre): e batterono le mura della città molto gagliardamente, le quali, dopo non lungo combattere e di non molti giorni, furono prese quasi per beneficio divino, per ciò che, essendo stata veduta da’ Greci la bandiera di San Marco sopra una delle torri della città, che da niun mai si seppe come vi fusse stata posta, in tal maniera si smarrirono che incontanente abbandonarono più di vinticinque torri da quella parte e si fuggirono. Le quali subito prese dal doge, e postoli dentro la guardia de’ Veneziani, fu mandata senza indugio la novella alli baroni ch’erano nella parte di terra; i quali, inteso questo, raddopiarono l’assalto, e in molte parti assalirono le mura con le scale: e così in breve spazio di tempo fu presa una parte della città, e messo il fuoco in molte case de’ nemici. Allora Alessio il tiranno, visto non potere resistere alle forze de’ nemici, con nuovo consiglio uscì fuori della città per tre porte, con tutto il suo sforzo, per assaltarli alla campagna. I baroni, vista sì gran moltitudine venirli incontro, avendo raccolto e ordinato il loro esercito, talmente che non potevano esser offesi se non davanti, si messeno in battaglia per aspettare l’affronto animosamente. Pareva che veramente tutta la campagna fusse coperta di battaglie de’ nemici, le quali in ordinanza con saldo passo andavano alla volta de’ baroni: ed era cosa maravigliosa a vedere che li baroni, che non avevono più che sei battaglie, aspettassino l’assalto di così grande esercito; e già tanto s’era fatto innanzi il tiranno con le sue genti, che facilmente da lontano si potevano ferire.

Quando questo udì il doge di Venezia, fece incontinente imbarcare le sue genti e abbandonare quelle torri che egli aveva di già acquistate, dicendo che voleva andare a vivere e morire co’ pellegrini: e così, dismontato in terra con tutte le sue genti, si unì con l’esercito. Stettero continuamente le battaglie de’ pellegrini con tanto ordine e ardire a fronte de’ nemici, che i Greci mai non ebbono animo d’assaltargli. Quando il tiranno vidde questo, perduto d’animo, incominciò incontinente a far ritirare le sue genti e ritornò nella città, ove tolta quella parte di gioie e di tesoro che seco poté portare, abbandonata la moglie e gli amici e di tutti scordatosi, solamente alla propria salute intento, la notte seguente fuggì e lasciò miserabilmente la città e l’imperio, avendo otto anni, tre mesi e dieci dì (come vogliono alcuni) tiranneggiato. E in quella ora a punto della fuga del tiranno, fu tratto di prigione l’imperatore cieco Isaac, e rimesso dal popolo nell’imperio, regalmente vestito, e portato da’ suoi con molto onore e magnificenza nel palazzo di Blacherna. E benché allora l’oscurità della notte a così gran facende apportasse grande impedimento, fu nondimeno, per il desiderio grande ch’egli avea d’abbracciare il figliuolo Alessio, mandatolo a chiamare nell’esercito, ordinando che fusse con gli altri baroni condotto con molto onore nella città. I quali, non consentendo a ciò se prima da esso imperatore Isaac il giorno seguente non fusse con solennità confermato quanto a Zara, per il figliuolo e per gli ambasciatori di Filippo suo genero, a suo nome era stato promesso, mandarono, fatto che fu il giorno chiaro, due Veneziani e due Francesi per nome del doge e delli baroni all’imperator, a farsi confermare le convenzioni fatte col figliuolo: le quali confermate che furono da lui con giuramento e con lettere imperiali, e suggellate con bolla d’oro, sì come egli usava, montarono a cavallo i baroni e accompagnarono il giovanetto nella città davanti il padre, dal quale fu ricevuto con grandissima allegrezza. E alquanti mesi dapoi fu ancora, con molta festa e grande onore, secondo il costume loro, nel primo giorno d’agosto coronato imperatore dal patriarca nella chiesa di Santa Sofia.

Fatta che fu questa bella e pietosa operazione per li baroni e il doge, e rimesso il padre col figliuolo in stato, volendo eglino ormai partirsi per andare a loro destinato viaggio di Soria, percioché la lega loro fatta in Zara non durava se non sino a san Michele del mese di settembre, fecero dire ad Isaac il vecchio e Alessio il giovanetto imperatore che, approssimandosi il tempo della lor partita, volessero pagar loro le convenzioni e quanto erano rimasi d’accordo a Zara, accioché passando il tempo non perdessero così bella occasione di fare la disegnata impresa. Alessio, con molte benigne parole e prieghi usati per coprire le sue astuzie e inganni, tanto seppe fare che, prolungata la lor partita da san Michele infino al mese di marzo, e giurata di nuovo la lega infino a san Michele de l’anno seguente, promesse di pagare fra quel termine interamente tutto quel debito ch’egli avea contratto con loro. Restarono per preghi d’Alessio li baroni, accettando la scusa con ferma speranza che, sì come l’avevano essi benissimo servito nel rimetterlo col padre in stato, egli parimente osservasse loro la fede promessa.

Non passò molto tempo che Alessio, o fusse per il mal consiglio de’ suoi o per altra cagione, si mostrò apertamente molto perfido e disleale al doge e alli baroni, che gli erano stati tanto amorevoli e cortesi dell’aiuto loro, e avevangli fatto così grande e relevato beneficio; e venne a tale che un giorno ardì ancora negare quanto prima avea loro promesso, ben che di ciò chiara fede apparisse per lettere imperiali di suo padre, sugellate con la bolla d’oro, ch’erano appresso al doge di Venezia. Di modo che, dopo l’averlo fatto più e più volte dimandare che le convenzioni fussero loro osservate, li baroni furono astretti per onor loro finalmente, vedendosi in tal maniera beffati, a sfidarlo, con molta vergogna di lui e disonore dell’imperio, e stringerlo al pagamento con molte minaccie, rompendogli guerra: la qual si cominciò di nuovo molto forte e gagliarda, per la poca fede del giovanetto imperatore.

E mentre che Constantinopoli un’altra volta era da Francesi e da Veneziani assediato e dalla parte di terra e dalla parte di mare, Alessio fu tradito da un altro chiamato Alessio il Duca, molto suo familiare e benemerito, che, per aver congiunte le ciglia, volgarmente era in un certo modo e quasi per ischerno chiamato Marculfo: e una notte, su la più bell’ora del dormire, fu posto in una oscura prigione, e pochi giorni dipoi, il sesto mese del suo imperio, occultamente strangolato, non avendo in lui operato il tossico che prima gli avea tre volte fatto dar a bere nella prigione. Morto Alessio, e fattolo imperialmente sepelire come s’egli fusse naturalmente morto, prese Marculfo con l’aiuto de’ suoi seguaci l’imperio e la signoria della città, facendosi tiranno, con molto dolore de’ Greci e passione del vecchio Isaac, il quale, udito il miserabil caso del figliolo, morì incontinente di cordoglio. I baroni e il doge, inteso il grande tradimento e continuando gli assalti, batteano con diverse machine le mura e le torri senza fine, giorno e notte; e radoppiata la guerra, facendosi fra l’una e l’altra parte molto grosse scaramuccie, fu in una di quelle valorosamente acquistato da’ baroni e da’ Veneziani lo stendardo imperiale del tiranno, ma con molto maggior allegrezza un quadro ov’era dipinta l’imagine della nostra Donna, il quale usavano continuamente gl’imperatori greci portare seco nelle loro imprese, avendo in quello riposta ogni lor speranza della salute e conservazione dell’imperio. Questa imagine pervenne nei Veneziani, e sopra tutte l’altre gran ricchezze e gioie che gli toccarono fu tenuta carissima, e oggidì è con grande riverenzia e devozione servata qui nella chiesa di San Marco, ed è quella la quale si porta a processione al tempo della guerra e della peste, e per impetrare la pioggia e il sereno.

Finalmente due galee de’ Veneziani portate dal vento sotto le mura, e posta una scala dalla gabbia de’ loro arbori, un Veneziano e un Francese entrarono ad una torre, e valorosamente posta la bandiera di San Marco, levato il grido nell’armata, e in quell’istesso tempo per Francesi dalla parte di terra con molta forza rotta e presa una porta della città, fu preso Constantinopoli la seconda volta e sconfitto il tiranno Marculfo: il quale incontinente, fuggendo per la porta Oria dalla parte di ponente, abbandonò la città, essendo stato nella sedia imperiale non più che due mesi e giorni. Entrati li baroni e alloggiati nella città, dopo il sacco che fu molto grande e ricco, il quale, in esecuzioni dei patti conchiusi d’accordo ne’ padiglioni avanti il dare l’assalto alla città, fu portato in tre gran chiese e quivi diviso fra li baroni e Veneziani egualmente, furno eletti dodici uomini che dovessero creare l’imperatore, sei veneziani dalla parte del doge e sei dalla parte de’ baroni, che furono quattro vescovi francesi e due baroni lombardi. I quali, ridotti a far questa elezione in una ricca capella, che era nel palazzo ove alloggiava il doge di Venezia, crearono imperatore dopo lungo contrasto di molte ore Baldovino, il conte di Fiandra e di Hennault, nella maniera che s’erano, per l’instrumento fatto avanti il dare l’assalto alla città, convenuti: che fu tale, che colui il quale avesse più voti nelli dodici s’intendesse essere imperatore, e caso che duoi avessero tanto e tanti per ciascuno, si dovesse allora trare la sorte, e a chi ella toccasse fusse imperatore; il quale dovesse signoreggiare una delle quattro parti del predetto imperio di Constantinopoli, e avere per l’abitazione sua i palazzi di Boccalione e di Blacherna nella città, ch’erano anticamente stata abitazione degl’imperatori greci; l’altre tre parti dell’imperio fussero per uguale porzione divise fra i Veniziani e li baroni francesi, ch’altramente si faceano chiamare pellegrini; con patto espresso che, dalla parte di coloro onde non fusse stato creato l’imperatore, li chierici avessero libertà di eleggere il patriarca e ordinare la chiesa di S. Sofia e instituire li canonici, con reggere tutto ‘l stato ecclesiastico: il quale patriarca di Constantinopoli, e di riverenzia e di ricchezza, non era allora tra’ Greci punto inferiore al nostro papa di Roma.

I Veneziani, creato ch’ebbero Baldovino imperatore, ch’era della parte francese, e dato che fo titolo al doge di Venezia di despote (titolo allora di grand’onore), elessero Tommaso Moresini per patriarca di Constantinopoli, e fu diviso incontinente l’imperio in quattro parti, così come prima s’erano convenuti: delle quali avuta che n’ebbe una l’imperatore Baldovino, l’altre tre furono divise fra gli altri baroni e il doge di Venezia per uguale porzione; onde poi il doge di Venezia e suoi successori per molti anni continoi ebbero il titolo di dominatori della quarta e meza parte di tutto l’imperio della Romania. Bonifacio il marchese di Monferrato, che non avea potuto conseguire l’imperio, benché con ogni studio vi avesse atteso, e fatto gran fortuna a Baldovino, si fece suo uomo ligio, e da lui in contracambio e per segno d’amore fu creato re di Salonichi: e fra il tempo della incoronazione dell’imperatore (che fu l’anno 1204, il mese di maggio) sposò l’imperatrice Maria, sorella di Bela re d’Ungaria, che per avanti era stata moglie del morto imperator Isaac vecchio, e andò con le sue genti verso il regno di Salonichi. I Veneziani andarono al possesso e acquisto del loro imperio, che fu molte città della Tracia e molte isole dell’Arcipelago, con buona parte della Morea, facendo un editto, che cadauno Veneziano che armasse navilii a sue spese potesse andare a recuperare, delle dette isole, quelle che volesse, eccetto Candia e Corfù; dove che Rabano dalle Carcere veronese, uomo letterato in que’ tempi, che era venuto per consigliero del principe Dandolo, andò con licenzia del doge a pigliar l’isola di Negroponte, la qual alquanti anni dapoi, conoscendosi non avere forze bastanti a mantenerla, volontariamente cesse al doge di Venezia: dove fu poi mandato continuamente per governo dell’isola un gentiluomo di Venezia per bailo, fino che ella fu sotto l’imperio di questi signori.

Morto il principe Dandolo nell’assedio della città d’Andrinopoli, ch’era delle toccate in sorte nella divisione dell’imperio, ma da’ Greci che vi erano fuggiti e quivi raccolti dopo le lor miserie tenuta per nome di Ioanniza, re di Valachia e Bulgaria, e portato che fu a sepelire con onorate esequie in Constantinopoli nella chiesa di Santa Sofia, i Veneziani che si trovavano in Constantinopoli, avendo veduto, avanti la morte del doge, il grave caso della presa dell’imperatore Baldovino, che occorse come più a basso si leggerà, e vedendosi privi e dell’imperatore e del doge, né avendo allora in Constantinopoli alcuno de’ suoi che fusse loro capo e governo in così aspra e difficil impresa, essendosi tutti insieme ridotti un giorno, solennemente crearono, l’anno che allora correva 1205, loro podestà messer Marin Zeno (il qual si ritrovava in Constantinopoli), con ordine e deliberazione tale, che nell’avenire qualunche podestà o rettore che ‘l doge di Venezia di tempo in tempo mandasse col suo consiglio, over ordinasse podestà in Constantinopoli, si dovesse accettare per podestà e vero rettore e amministratore di quella parte della città e dell’imperio ch’era nella divisione toccata in sorte a’ Veneziani; il qual podestà s’intendesse aver anco il titolo di dominatore della quarta e meza parte dell’imperio di Romania, e portasse la calza di seta cremisina (insegna imperiale), come parimente portava l’imperator francese, e avea fin allora portata il Dandolo. Questo, con li suoi giudici, consiglieri e camarlenghi, e altri infiniti officiali e magistrati ch’appresso di lui onoratissimamente stavano, nel principio del suo reggimento confermò li feudi dell’imperio a quelli che dal doge Dandolo n’erano stati investiti, con ordine che non potessero da loro essere alienati in altri ch’in Veneziani, e fece molt’altre provisioni a publico beneficio della nazione e del stato. E dopo lui, mentre durarono gl’imperatori francesi in Constantinopoli, successero continuamente per diritto ordine altri podestà, mandati dalla Signoria di Venezia al governo di quella parte dell’imperio, ch’era de’ Greci chiamata despotato, sì come n’avea avuto il titolo per avanti il doge Dandolo.

Dopo la morte di Baldovino imperatore, ch’in un conflitto era stato fatto prigione dai soldati di Ioanniza, re di Bulgaria e Valachia, e poi morto, fu per li baroni ch’erano in Constantinopoli eletto per suo successore Enrico suo fratello, che fino a quel giorno, con titolo di bailo dell’imperio, avea con molto valore e giudicio governato l’esercito. Egli, tolta la corona dell’imperio l’anno 1206, il vigesimo giorno d’agosto, in Constantinopoli nella chiesa di S. Sofia, solennemente datagli da Tomaso Moresini patriarca, qual era tornato allora da Roma, ove avea impetrata da papa Innocenzio terzo la confermazione del suo patriarcato, e di più era stato eletto arcivescovo di Thebe, confermò a messer Marin Zeno, con molto onore e amorevolissime parole, in presenzia di Benedetto, cardinale di S. Susanna e legato del papa nella Romania, la quarta e meza parte dell’imperio che gli era toccata in sorte, promettendogli aiuto e favore per acquistare l’altre sue città tenute da’ Greci e per conservarle. Questo imperatore Enrico dipoi prese per moglie Agnese, figliuola del marchese Bonifacio di Monferrato, che era stato creato re di Salonichi, la quale fu anco lei il mese febraro coronata imperatrice, e fece ch’il marchese suo socero divenne suo uomo ligio: il qual, abboccatosi con l’imperator Enrico suo genero presso al fiume che corre sotto la città di Cipsella, e ottenuta la confermazione da lui del regno di Salonichi, nel ritorno suo al regno fu assalito da una grande correria di Valachi e Cumani, e, nel combattere gravemente ferito, nel 1207 morì.

L’imperator Enrico, dopo molta e lunga guerra, fatta ora con Teodoro Lascari, che con l’aiuto de’ Greci tiranneggiava molte città dell’imperio nell’Asia, ora con Ioannizza, re di Valachia e Bulgaria, il qual con grossissimo esercito de Bulgari e di Valachi gli veniva adosso, e tanto vicino che correva spesse volte sino sopra le porte di Constantinopoli, facendo grandissimi danni e menando via uomini e bestie in gran copia in Valachia, avendo dieci anni retto l’imperio, morì senza figliuoli in Salonichi, l’anno 1216 il mese di giugno, e lasciò Violante, sua sorella, erede dell’imperio. Questa, che si trovava in Francia maritata in Pietro di Cortenay, conte d’Auxerre, onorato cavalliero, udita la morte dell’imperatore Enrico suo fratello, venne col marito a Roma; dove da papa Onorio III ambidue coronati imperatori nella chiesa di San Giovanni Laterano, nel 1217 il mese d’aprile, con molto solenne trionfo, incontinente elessero duoi delli suoi baroni e mandarongli a Constantinopoli, accioché solennemente giurassero in nome loro a messer Rogiero Permarino e Marin Storlato e Marin Zeno (che si trovavano in Constantinopoli legati per el doge Ziani, ch’era allora principe di Venezia) che per tutto il tempo dell’imperio loro gli saria osservata buona e real compagnia, e mantenute tutte le convenzioni e patti, ordinazioni e onorificenzie ch’aveano li Veneziani insino a quel giorno avute nella Romania, così con scritti come senza scritti, fatte per il già conte Baldovino di Fiandra imperatore, e dipoi per Enrico suo fratello e successore, con tutti li rettori e podestà di Constantinopoli stati nel despotato sino a quel tempo, per nome della signoria e del doge di Venezia.

Partitosi dipoi da Roma, l’imperatore, con la moglie imperatrice, venne a Brandicio, dove montato sopra le galee de’ Veneziani insieme col cardinale Colonna, datogli legato dal papa, andò all’assedio di Durazzo, ch’essendo sino alla divisione prima dell’imperio toccato in sorte a’ Veneziani e poi perso, desiderava per tante cortesie che le facevano in grazia loro prenderlo e consegnarglielo; ma non gli successe, però che un grand’uomo greco, detto Teodoro Conneno duca di Albania, vassallo di Teodoro Lascari, violentemente se n’era insignorito. Costui, mostrando con astuzia greca di volersi riconciliare con Pietro imperatore, l’alloggiò nella città, facendo finta di dargliela e volerlo di più, per onorificenzia, accompagnare fino a Constantinopoli nell’imperio, dov’egli andava col legato per terra, avendo mandata l’imperatrice per mare sopra le galere de’ Veneziani: e un giorno desinando a tavola l’ammazzò, facendo prigione il cardinale Colonna. Questa nuova così all’improviso e non aspettata, essendo intesa a Constantinopoli, turbò grandemente gli animi di tutti. Ma ritrovandosi allora messer Iacomo Tiepolo, podestà de’ Veneziani, nella città e nell’imperio, con la sua prudenzia e buon consiglio operò sì che in poche ore acquietò tutto il tumulto nato per la morte dell’imperatore. E vedendo che le cose de’ Francesi andavano ogni giorno declinando, e che di Francia non era mandato quel soccorso e aiuto che ragionevolmente si dovea aspettare, giudicò che, per star in pace e assicurare le cose della città, buona cosa era far tregua per alquanti anni col soldano e col Lascari e con gli altri signori vicini, che d’ogni parte facevano guerra con l’imperatore. Il che fatto col consiglio delli suoi giudici e consiglieri, e di Conone di Betuna, baron francese, ch’in luogo dell’imperatore morto essendo creato bailo governava la città nell’interregno, Roberto fra questo mezo, il figliuolo di Pietro imperatore, venuto di Francia a Constantinopoli, morta la madre che (come vogliono alcuni) governò l’imperio certo tempo, fu l’anno 1220 coronato imperatore in luogo di Pietro suo padre, avendogli volontariamente Filippo suo fratello, al quale per essere il primogenito s’apparteneva l’imperio, cessa la corona.

Questo, vedendo li buoni portamenti che facevano, e amorevoli consigli nel governo dell’imperio che raccordavano continuamente li podestà ch’erano mandati dalla signoria di Venezia, continuò a fare grandissime carezze e onori a messer Iacomo Tiepolo, che in quel tempo che egli venne ritrovò esser podestà; e ordinò ch’ogni facenda, di qualunche sorte ella si fosse, si consigliasse e trattasse prima con lui che con i consiglieri dell’imperio; e in ogni deliberazione che si faceva, seguendo il costume degli altri imperatori suoi precessori, voleva sempre il consiglio del podestà di Venezia, e negli scritti suoi nominava, come aveano fatto suo padre e zii, qualunche volta gli occorreva farne menzione, il doge di Venezia suo carissimo amico e collega dell’imperio. E ho letto io la copia del privilegio del prefato Roberto imperatore, che fece a’ Veneziani in Selimbria il ventesimo giorno di febraro, l’anno quarto del suo imperio, che fu del 1224, all’istesso tempo di messer Iacomo Tiepolo, podestà di Constantinopoli; nel qual egli conferma, così ricercato per lettere da messer Pietro Ziani, doge di Venezia, tutte quelle altre parti che li suoi podestà aveano nuovamente acquistate dell’imperio della Romania oltra le prime, e vuole ch’egli e li successori suoi abbino le medesime giurisdizioni e auttorità nelle predette parti di nuovo acquistate dell’imperio, “sì come noi abbiamo nelle cinque”, per dire le sue proprie e formali parole, perciò che già le parti de’ primi baroni che l’acquistarono erano per la morte loro in gran parte pervenute nell’imperatore. E queste carezze e favori non già senza causa il predetto imperatore faceva a’ Veneziani, perciò che, sapendo che le forze sue erano molto indebolite nella Grecia e ch’altrove non poteva avere né più presto né maggior aiuto che da essi, sopra le spalle de’ quali allora gran parte di tutto quell’imperio si riposava, gli avea in molto onore e riverenzia.

Messer Iacomo Tiepolo podestà fece in questo tempo tregua per cinque anni con Teodoro Lascari, il quale per conto di sua moglie, figliuola d’Alessio il fratricida, era stato da’ Greci coronato imperatore poco dapoi la presa di Constantinopoli, e avea continuamente signoreggiata quella parte dell’Asia all’incontro di Constantinopoli che ora si chiama la Natolia. E convenne con lui con solenne giuramento molte cose, che dapoi apportarono grande utile e onore insieme alla nazione veneziana e al despotato della Romania; ma fra l’altre che i Veneziani e mercanti di Venezia sicuramente e senz’alcuno impedimento o danno potessero fare le loro mercanzie e negociare nelle terre del Lascari, essendo sempre liberi così per mare come per terra, e con patto di poter anco fare qualunche sorte di mercanzie loro piacesse nella sudetta terra senza pagare alcuna gravezza o il comerchio, ch’era una sorte di gabella che allora e oggi ancora si costuma pagare in Constantinopoli e in Soria, e in ogn’altro luogo soggetto all’imperio del Turco, da tutti egualmente e da’ Turchi istessi (la quale gabella però del comerchio era pagata da quelli del Lascari, così in Constantinopoli come in qualunche altro luogo de’ Veneziani nella Romania); e s’alcuna nave veneziana o de’ loro sudditi pericolasse nelle terre a lui soggette, la robba fusse resa loro interamente. Appresso, che se alcuno Veneziano o mercante suddito, morendo nel stato suo, avesse fatto testamento, tutto l’aver suo fusse realmente reso agli eredi; e caso che ei fosse morto senza testamento, né avesse avuto appresso di sé alcuno de’ suoi al tempo della sua morte, la robba sua dovesse esser conservata salva appresso il signor della città nella quale egli fusse morto, infin che apparisse colui a chi ragionevolmente aspettasse; con solenne giuramento e particolar promessa che né il Lascari nel suo imperio, né il doge di Venezia nel suo despotato nella Romania, avessero facultà di far battere ad un istesso modo iperperi né manulati (il manulato era una sorte di moneta di molta riputazione appresso i Greci, chiamata da questo nome per conto di Manoel imperator di Constantinopoli, che ne fu l’autore), né alcun’altra sorte di moneta che si assomigliasse l’una a l’altra, ma ciascuno diversamente battesse la sua; né potesse il Lascari a modo alcuno mandare sue navi o altri legni alla città di Constantinopoli né fare soldati sopra il despotato de’ Veneziani durante la tregua, senza licenzia del doge di Venezia. Questo è quello messer Iacomo Tiepolo che per il suo valore ascese poi al principato de questa Republica, e fece raccore e ordinare tutti li statuti di Venezia riducendoli in un volume, ne’ quali si vede ancora dichiarato l’ordine che in quel tempo che signoreggiavano Constantinopoli s’osservava in questa città circa li testamenti de’ Veneziani che qui erano portati da Constantinopoli, fatti per modo di breviario: che non se gli avesse a prestar fede se non erano sottoscritti dal podestà de’ Veneziani o suo sustituto, o almeno da uno de’ conseglieri mandati di qui dalla Signoria.

Teodoro Lascari, dapoi fatta tregua col Tiepolo, desiderando fare anche parentado coll’imperator Roberto per fermar meglio le cose sue, tentò di dargli per moglie Eudocia sua figliuola; ma essendogli vietato per il suo patriarca, che non volse acconsentirvi, come che il far parentado con Latini fusse quasi contro gl’instituti loro, non gli riuscì il pensiero. Onde egli, volendo pur fornire questo suo desiderio, e tentate molte altre strade senza effetto, alla fine pieno di sdegno si morì, lasciando l’imperio a Giovanni Vatazo suo genero, ch’altrimente era chiamato il duca, marito di Irene sua figliuola, per non esser il figliuolo che gli era nato nel secondo matrimonio della moglie armena ancora in età matura e atto al governo, né vivendo allora alcuno di que’ due figliuoli ch’ebbe della prima moglie Anna, figliuola del tiranno Alessio di Constantinopoli. Era Teodoro di età vicino a cinquanta anni quando morì, avendo regnato intorno a diciotto anni, e (per quello ch’io ho letto in una istoria greca di que’ tempi non ancora publicata) di picciola statura, di color bruno, con la barba lunga divisa in due parti nella summità, quasi guercio d’un occhio, molto animoso e pronto nel combattere, ma uomo che dall’ira e dalla lussuria difficilmente si potea astenere; nel resto liberalissimo signore, e tanto magnifico che volea spesse volte quelli a’ quali pur una volta alcuna cosa donava incontinente far ricchi. Nelle guerre specialmente fatte contro Latini e Persiani fu assai sfortunato. Ebbe il suo corpo sepoltura dov’erano l’ossa d’Anna sua prima moglie, nel monasterio del Iacinto nella città di Nicea in Bitinia.

Alla fine, Roberto imperatore di Constantinopoli (per ritornar a lui), come alle volte aviene ai giovani, innamoratosi imprudentemente d’una bellissima giovane greca, di nobil sangue e ricca, ancor che sapesse che dalla madre era stata promessa ad un Borgognone de’ primi capitani del suo esercito, senz’alcun rispetto e con grande insolenzia tolta, la menò a casa. La quale ingiuria non potendo il Borgognone sostenere, pieno d’ira e di furore, non essendo l’imperatore in Constantinopoli, con molti suoi seguaci entrò una notte in palazzo, e rotte le porte, presa la giovane e la madre, a quella tagliò il naso e l’orecchie; e la madre, come quella che era stata cagione della rapina della figliuola, fece affogar in mare. Questo miserabil caso perturbò tanto l’imperatore che, pieno di sdegno e di cordoglio per lo scorno grande fattogli dal capitano, raccomandato ch’ebbe l’imperio a messer Marin Michele (ch’era allora, secondo alcuni, podestà de’ Veneziani), come quello che faceva pensiero di non voler più ritornar a Constantinopoli, si partì disperato e venne in Italia; dove, ito a Roma per dolersi col papa di questa sua miseria e sciagura che gli era avenuta, stato che fu alquanto tempo appresso sua Santità e amorevolmente da lei racconsolato, fu consigliato a ritornare a Constantinopoli: nel qual viaggio, gravemente ammalato, nella Morea morì, lasciando l’imperio a suo fratello Baldovino, per l’età non ancor atto a governar l’imperio. Il quale, essendo poi giunto all’età matura, morto Giovanni conte di Brena, re di Ierusalemme, suo suocero (che avendogli dopo la morte di Roberto suo fratello data la sua figliuola Marta per moglie, e col consiglio de’ primi baroni del governo dell’imperio governato e molto valorosamente dall’impeto del Vatazzo difeso alquanti anni lo stato), fu coronato imperatore di Constantinopoli. Ed è quello del quale messer Marco previous hit Polo next hit nel principio del suo libro scrivendo dice: “Nel tempo di Balduin imperatore di Constantinopoli, dove allora soleva stare un podestà di Venezia per nome di messer lo dose, correndo gli anni di nostro Signore 1250, etc.”.

Di qui avenne che, volendo egli al tempo che compose e scrisse questo libro in Genova, che fu del 1298, notificar particolarmente e descrivere il tempo apunto nel quale suo padre e zio s’erano ritrovati in Constantinopoli, che fu l’anno 1250, nel principato di messer Marin Moresini doge di Venezia, giudicò lui cosa molto degna e lodevole (ancor che in quel tempo gran parte della porzione del stato di Veneziani nella Romania fosse già perduta con la signoria de’ Francesi in Grecia) incominciar con la memoria di questo tempo a descriver il suo viaggio, per dimostrare l’onorificenzia e grandezza in che per avanti era stata la sua patria: perciò che, allora ch’egli dimorava prigione in Genova, erano già nel spacio di que’ quarantaotto anni stati scacciati li Francesi dal Vatazzo, col sopradetto Baldovino imperatore che lui nomina, e per mezo di Michel Paleologo gli Greci ritornati nel lor primo imperio di Constantinopoli. Della quale impresa, come rara e illustre, io ne ho in questo luogo, parendomi fare molto al proposito nostro, così brevemente (toccando però alcune cose necessarie da sapere) voluto far menzione, accioché a quelli lettori che non averanno alcuna cognizione, o almen poca, delle cose di que’ tempi, né saperanno lo stato nel quale allora questi signori si ritrovavano, non paia cosa fabulosa il leggere che già trecento anni questa Republica abbia tenuto per così lungo spazio di tempo podestà in Constantinopoli, sì com’ella fece, e sia con molto beneficio della cristianità stata tanti anni patrona d’una parte di quella così bella e gloriosa città e di quel tanto maraviglioso imperio, che ora, per le molte discordie longamente state fra’ principi cristiani, si truova soggetto agl’infideli.

Ma chi averà piacere d’intendere particolarmente e con più diritto e continuato ordine il filo di tutta questa istoria, ch’io di sopra non ho raccontato né è sino ora stata scritta da alcuno, incominciando specialmente dal principio che Teobaldo conte di Campagna e di Bria, e Luis conte di Bles, con Baldovino e gl’altri baroni, l’anno 1200 presero la cruciata nella Fiandra, e fatto il loro parlamento in una città di Campagna, mandarono l’anno seguente sei onorati baroni loro ambasciatori al doge Dandolo a Venezia, con lettere di credenza e molti partiti, a dimandare navilii e un’armata per passare in Soria con uno esercito di trentotto in quarantamila persone che aveano raccolto, e andare alla recuperazione di Terra Santa, leggerà l’istoria di Paolo mio figliuolo, la quale egli latinamente scrive d’ordine dell’illustrissimo ed eccellentissimo Consiglio di Dieci di questa Republica. Il quale, accioché la memoria di tanto illustre e gloriosa impresa non sia molto più dalla longhezza del tempo fatta oscura di quello che ella è stata fin ora, gli ha con la sua solita liberalità e magnificenza dato carico che ne debba far un copioso volume, raccogliendo tutte quelle cose che si truovano scritte, parte ne’ memoriali e scritture autentiche portate in que’ tempi con molte gioie e tesori dell’acquisto di Constantinopoli in questa città, dagli altri istorici che ne hanno parlato pretermesse, e parte ne’ commentari scritti a penna ritrovati a’ nostri tempi, che mai il Sabellico né alcun altro scrittore ha veduti, d’un grande gentiluomo francese di molta auttorità e maneggio, il quale, ritrovandosi sempre presente col conte Baldovino di Fiandra ed Enrico suo fratello in questa impresa, la volse allora, come colui che la maneggiò e della quale n’era benissimo instrutto, nella lingua francese con molte belle particolarità e con ogni diligenzia descrivere. Questo libro già alquanti anni il clarissimo messer Francesco Contarino, il procuratore di San Marco, essendo ambasciator in Fiandra a Carlo V imperatore l’anno 1541, e avendolo a caso in una libraria d’un monastero trovato, portò seco in questa città, non volendo patire che così bella istoria, tanto diligentemente e con tanto onore della sua patria per un uomo francese descritta, che altrove non si trovava, rimanesse perpetuamente nascosta in un solo libro scritto a penna dentro una libraria della Fiandra.

Or in queste istorie di mio figliuolo si leggeranno le mutazioni e i rivolgimenti di quelle signorie, con la morte, creazioni e prigionie di tanti imperatori e tiranni ch’erano a quel tempo in molte parti della Grecia e dell’Asia, con la turbulenzia del stato loro, e finalmente la perdita di tutto quello imperio che pervenne nei Latini; il dominio de’ Veneziani nella Romania, con suoi privilegii e onoratissime giurisdizioni, e co’ nomi di ciascheduna città, luogo, castello o casale, che così nella Tracia come nella Morea e nel Peloponeso le toccarono in sorte nella divisione dell’imperio fatta da’ partitori; e dell’isole dell’Arcipelago, e de’ signori che l’occuparono, a chi furono tolte; la porzione dell’imperio venuto in sorte a’ baroni francesi, ch’altrimente si chiamavano pellegrini, e quella del medesimo imperatore Balduino ed Enrico fratelli, incoronati imperatori l’un dopo l’altro, con lor nozze e parentadi dopo l’acquisto dell’imperio fatti; la creazione del marchese di Monferrato in re di Salonichi e l’imperio suo, col maritaggio nella sorella del re d’Ungaria; la morte di Balduino, primo imperatore de’ Latini, al quale, dopo preso da Valachi e Bulgari il primo anno del suo imperio in un conflitto, e tenuto molti mesi prigione, fu tagliata la testa e portata a Ioannizza lor re in Ternoviza, il quale, fattala nettare e trattone gl’interiori, adornata in forma di vaso, con molto oro intorno, la facea adoperare per bere in vece d’una tazza. Si leggerà il valor e la morte del principe Dandolo nell’assedio d’Andrinopoli, ove guidava l’esercito dopo la perdita dell’imperatore; il modo con che fu primieramente instituito il podestà che tanti anni tenne questa Republica in Constantinopoli, del qual parla messer Marco previous hit Polo next hit nel principio del suo viaggio, con tutti e’ nomi de’ magistrati veneziani che solevano sedere in quella città e nell’imperio; le gioie, i tesori, le colonne, i marmi che vennero di que’ paesi e della Grecia mentre che signoreggiorno i Veneziani; come furno da Constantinopoli portati que’ quattro bellissimi cavalli di metallo, di mirabil arteficio, che Costantino imperatore, tolti dall’arco di Nerone, ch’egli avea di prima tolti dall’arco d’Augusto, portò da Roma a Constantinopoli, e ch’ora si veggono nel corridore della chiesa di San Marco, sopra la piazza, da tutto ‘l mondo sempre riguardati con somma maraviglia; le molte reliquie d’infiniti uomini santi e beati, di che son piene tutte le chiese e monasteri di questa città, e l’istessa chiesa di San Marco; con le longhe guerre, che parte Bonifacio re de Salonichi fece contro Leon Scrugo, tiranno del Peloponeso, che difendendosi con molte astuzie teneva Coranto e Napoli di Romania, dando di molto travaglio a’ Latini, e parte che ‘l podestà de’ Veneziani insieme con Francesi e l’imperator Enrico, confederati con Teodoro Brana greco (che solo del rimanente de’ Greci teneva lega con Francesi, per aver per moglie Anna, figliuola di Lodovico sesto re di Francia, padre di Filippo il Pietoso, la quale era stata avanti la presa di Constantinopoli nel primo maritaggio moglie d’Alessio, figliuolo di Manoel imperatore), fecero in diversi tempi nella Turchia, prima con Teodoro Lascari, il quale per conto della prima moglie greca pretendeva ragione sull’imperio, e signoreggiava gran parte di quel paese, facendo molti danni a’ Veneziani e a’ Francesi oltra lo stretto, e poi contra Ioannizza, re di Valachia e Bulgaria, nella Tracia; il quale, nemico per ragione ereditaria, insino dal tempo di Pietro e Asane suoi fratelli, del nome greco e latino, avea destrutta Napoli di Tracia, Panedò, Eraclea, Tzurolo, ora Chiorlich, e molt’altre città del loro stato insin a canto Constantinopoli; che finalmente, dopo l’avere molti anni guerreggiato con loro, si morì di mal di punta appresso Salonichi, essendogli paruto una notte in sogno, nel mezo del dormire, vedersi da un soldato passare il costato con una lancia, che fu detto allora esser il significato della qualità della morte che divinamente doveva essergli mandata.

Ma avendo sufficientemente, e forse più che a bastanza, con tanta digressione e così longa diceria dimostrato quello ch’io da prima avevo tolto a narrare del principio del libro di questo scrittore, mettendo qui fine mi volgerò ad esporre alcuni pochi luoghi sparsi ne’ libri de messer Marco previous hit Polo next hit, i quali, per maggior intelligenzia de’ benigni lettori, alcuna dichiarazione richieggono.

DICHIARAZIONE D’ALCUNI LUOGHI NE’ LIBRI DI MESSER MARCO previous hit POLO next hit, CON L’ISTORIA DEL REUBARBARO

La cagione perché messer Marco previous hit Polo next hit, nel primo capitolo del suo primo libro, incominciasse a scrivere il suo viaggio dall’Armenia minore fu questa: che partendosi egli di Acre, ov’era legato Teobaldo de’ Visconti, che fu poi papa Gregorio X, andò per mare al porto della Ghiazzia, ch’è nell’Armenia minore, e fu questo il primo luogo dove smontasse per andare con suo padre e con suo zio al gran Cane. E allora le due Armenie, cioè minore e maggiore, erano sotto un principe cristiano, qual veniva col suo stato fino sopra il mare della Soria ed era tributario de’ Tartari. Però lo descrisse secondo che li fu riferto da persone idiote; né bisogna che qui el lettore ricerchi da questo scrittore quella diligenzia e modo di scrivere che usano Strabone, Tolomeo e altri simili, per ciò che quella età era molto rozza, e non s’era ancora introdotto negli uomini quella politezza di lettere ed eleganza di stile e modo di descrivere la cosmografia che ora s’usa; aggiunto anco che in quelli tempi, per le continue guerre state lungamente de’ Tartari, che occuparono tutto il Levante, sì come fecero i Gotti il Ponente, li termini antichi delle provincie erano tanto confusi, e in maniera cambiati li nomi e mescolata l’una con l’altra provincia, che quantunche egli avesse voluto usare maggiore diligenzia, non ci averebbe per ciò potuto dare miglior cognizione di quella che egli ha fatto. E questa mutazione de’ nomi fu causa che quello che possedeva questo re cristiano d’Armenia, secondo che dice il principe Ismael, si chiamava allora il regno de’ Romei, cioè Greci: e fino sopra il sino Issico, ch’è il golfo della Ghiazzia, giugnevano i suoi confini, de’ quali informandosi messer Marco intese, come nel secondo capitolo scrive, che dalla parte di verso mezodì vi è la Terra Santa; da tramontana i Turcomani, ch’ora si chiaman Caramani; da greco levante Cayssaria e Sevesta; verso ponente il mare Mediterraneo. E come nel terzo capitolo dice, le due città insieme col Cogno erano nella Turcomania, le quali sono poste da Tolomeo nella Cilicia, e le chiama messer Marco Cayssaria e Sevaste, cioè Caesarea e Augusta, e Iconium il Cogno, nella Licaonia.

E dicendo Turcomani, nome moderno posto da’ Tartari, avendo io voluto vedere quello che ne parla Ismael nella sua geografia, m’è parso doverlo qui includere, il quale, descrivendo il lito del mare di Soria e cominciando dalla città di Seleucia, che al suo tempo si chiamava Suidia, dice in questo modo: che ‘l principia a voltar il suo corso verso ponente fino che ‘l passa i confini del regno di musulmani, cioè Turchi (perché al tempo d’Ismael tutta l’Asia minore era de’ cristiani), e tirato un poco di tratto verso tramontana, va alle porte di Scanderona, che son le porte dell’Amano appresso Alessandretta (quivi è il confine fra musulmani e Aramani, cioè della Cilicia), e poi va alle porte della Ghiazza, ove è il porto della regione d’Araman, cioè Cilicia; e voltandosi il lito verso ponente tramontana, scorre fino alla città di Tarso, la qual è in longitudine cinquantotto gradi e in latitudine trentasette e mezo, e tirando pur in ponente passa i confini di Araman fino in Coruch, che si chiama dall’interprete d’Ismael Corycium Antrum; qual passato, vi è la region de’ popoli della Turcomania, che sono discesi da Caraman Turcoman, e in quella regione vi è il monte Caraman che ‘l detto interprete chiama monte Tauro, dove dice Ismael che al suo tempo abitava la moltitudine di Turcomani, il signor de’ quali si chiamava Avad Caraman, e questo monte s’estende dalli confini della città di Tarso fino al regno de Lascari, che vuol dir all’imperio di Constantinopoli. Questo è quel Teodoro Lascari ch’ebbe per moglie Anna, una delle figliuole di quello Alessio che cavò gli occhi al fratello Isaac imperatore e si fece tiranno di Constantinopoli, come è detto di sopra; e per tal ragione, signoreggiando i Veneziani e Francesi la città di Constantinopoli e gran parte dell’imperio della Romania, lui tiranneggiava molte città alla marina e fra terra, in quella parte dell’Asia ch’è verso il mar Maggiore e la Propontide, all’incontro di Constantinopoli, la qual oggidì si chiama la Natolia, overo la Turchia. Da queste parole si vede (come dice messer Marco) che questi tal popoli turcomani abitavano sopra le montagne e luoghi inaccessibili, come è il monte Tauro e il monte Amano.

Darzizi, nel cap. quarto del primo libro, ora è chiamata Bargis; Paipurth, Carpurt.

Del monte altissimo di che nell’istesso capitolo si parla, ove si fermò l’arca di Noè dapoi il diluvio, dicono alcuni scrittori questo essere quello dove sono i monti Gordiei, quali Strabone vuole che siano una parte del monte Tauro.

La provincia della Zorzania, al quinto capitolo, è quella che, appresso Strabone, Plinio e Tolomeo detta Iberia, fu da questo nome chiamata per memoria del valoroso e glorioso martire san Zorzi, che ivi predicò la fede del nostro Signor Iesù Cristo: per il che è anco in grandissima venerazione appresso tutti que’ popoli.

Del mar Abbacù, over Ircano o Caspio, di che si parla in questo istesso capitolo, dirò brevemente quello che ne ho trovato in diversi auttori, sì antichi come moderni, ancor che si comprenda che poco ne sappino, e che messer Marco istesso ne tocchi un poco: e questo è che tutti mettono terra incognita sopra quello alla volta di tramontana, dove dicono essere la regione detta Turquestan da Ismael, e da messer Marco la gran Turchia; di verso mezodì vi sono due città famose per li suoi porti, l’una Derbent, cioè la Porta di Ferro over Porte Caspie, e l’altra Abbacù, che dette il nome al mare; qual al tempo di Augusto Cesare non si sapeva che ‘l fusse serrato di sopra, come al presente si sa ch’è come un lago, ma pensavasi che ‘l fusse un braccio del mare Oceano che dalla parte di tramontana entrasse in quello, come recita Strabone, dicendo che Pompeo, nella guerra contra Mitridate, n’avea scoperto gran parte. Ismael, parlando di quello, dice: “Questo mare è salso, né v’entra in quello l’Oceano, ma è del tutto separato e quasi come rotondo, e s’estende in lunghezza per ottocento miglia e per larghezza seicento, e che la sua rotundità è forma ovale, ancor che altri vogliono che la sia triangulare; e chiamasi con tre nomi, cioè el Cunzar, Giorgian, Terbestan. La sua parte di verso ponente sono gradi 66 di longitudine e 41 di latitudine. Appresso la Porta di Ferro, andando verso mezodì per 153 miglia, vi sono le bocche del fiume Elcur, che si chiama Cyro appresso Tolomeo. Andando verso sirocco si trova la città di Mogan della provincia di Ardiul; ma a l’ultima volta di mezodì, passati 231 miglia, si trova la region del Terbestan, e in quel lito vi sono le provincie d’Elgil e Deilun. Poi, voltatosi verso levante, si viene alla città di Abseron, la qual è in longitudine gradi 79.45, e in latitudine 37.20, e scorre verso levante fino a 80 gradi di longitudine e 40 di latitudine; e andando avanti fino a gradi 50 di latitudine e 79 di longitudine si volta verso tramontana, dove sono le provincie del Turquestan e il monte Sehacuat. E in questo progresso il fiume Elatach, per essere il maggiore di tutti quelli che sono in quelle regioni, scarica in mare le sue acque con molte bocche, e fa grandissimi canneti e paludi; e gli abitanti vicini che ivi navicano referiscono che, come l’acque del detto giungono in mare, l’acque salse e chiare divengono di varii colori, e si navica molti giorni sempre trovando l’acqua dolce”. La qual cosa conferma Plinio dicendo che, essendo Pompeo nella istessa guerra contra Mitridate, li fo affermato che alcune parti del detto mare erano dolci, per la gran moltitudine de’ fiumi che correno in quello. Questo fiume Elatah è quello che Tolomeo chiama Rha, e li volgari Herdil, over Volga.

Del miracolo de’ pesci, che dice nel quinto capitolo messer Marco previous hit Polo next hit che si pigliano per li quaranta giorni della quadragesima nel lago di Geluchalat, dove è il monasterio di San Leonardo, dico che ‘l prefato Abylfada Ismael fa menzione di questo istesso lago e lo chiama Argis, e lo mette nelli confini di tre provincie, cioè Armenia, Assiria e Media, sopra le ripe del quale vi sono queste città: Calat, che si deve credere che li desse il nome, secondo che lo chiama messer Marco, e poi Argis, Van e Vastan. E dice che si pesca per 40 giorni nella primavera una sola sorte di pesce detto tarichio, quale si secca all’aere dal vento e si porta poi per gran mercanzia per tutte le regioni vicine, e dapoi per tutto l’anno più non si vede. In conformità delle quali parole leggesi scritto in alcuni commentari non ancor stampati d’un uomo francese molto dotto, nominato messer Pietro Gyllio d’Alby, che mi fur mostrati alli mesi passati: qual del 1547 si trovò nel campo del gran Turco Solyman ottoman, quando egli andò contra siac Tecmes il Sofì, e vidde questo istesso lago, quale dice credere che sia quello che da Strabone vien detto Martiana Palus; ne’ quali esso messer Pietro scrive che per 40 giorni solamente della primavera pigliano di detto pesce in tanta quantità che seccato ne cargano i carri per mandare nelli paesi circonvicini, per essere bonissimo e molto desiderato da ognuno: passati li detti 40 giorni, più non si vede. Che veramente al tempo di messer Marco previous hit Polo next hit sopra detto lago vi fusse un monastero de’ monachi di San Leonardo è cosa credibile e molto verisimile, perché gli abitatori erano allora tutti armeni, cioè cristiani. Questo lago di Argis, secondo Ismael, è in gradi 67.5 di longitudine, 38.30 di latitudine; secondo altri poi 66.20, 40 e 8 overo 68.5 di longitudine, 40.35 di latitudine.

Dell’andanico, di che parla messer Marco nel capitolo 19 del primo libro, quando dice che nella città di Cobinam, dove si fanno i specchi d’azzale finissimo molto belli e grandi, vi è assai andanico, è da sapere che, avendone io per mezo di messer Michele Mambré, interprete di questa illustrissima Signoria nella lingua turca, dimandato molte volte a molti Persiani venuti qui in Venezia in diversi tempi con loro mercanzie, m’hanno detto tutti in conformità andanico essere una sorte di ferro over azzale, tanto eccellente e precioso e stato sempre di tanta stima in tutte quelle parti che, quando uno alli tempi antichi poteva avere un specchio overo una spada di andanico, li teneva non più come una spada o come un specchio, ma come molto cara gioia.

Nel capitolo 38 del primo libro di messer Marco previous hit Polo next hit, trattandosi del reubarbaro, che nasce nella provincia di Succuir ed è di lì portato in queste nostre parti e per tutto il mondo, parendomi questa cosa fra tutte l’altre degna di cognizione, per l’uso grande in che tutti gli uomini communemente l’adoperano nelle lor malattie oggidì, né sapendo io che fin ora in alcuno libro si legga tanto di quello quanto già intesi da un uomo persiano di molto bello ingegno e giudicio, mi pare qui essere sommamente necessario ch’io particolarmente descriva quel poco che gli anni passati ebbi ventura d’intendere da costui, il quale era chiamato Chaggi Memet, nativo della provincia di Chilan, appresso al mare Caspio, d’una città detta Tabas; ed era personalmente stato fino in Succuir, essendo dipoi in Venezia quelli mesi venuto con molta quantità di detto reubarbaro. Questo adunche, essendo io andato quel giorno che ne ragionammo a desinare a Murano fuori di Venezia (e per uscire della città, per ciò che ero assai libero da’ servigi della Republica, e per goderlo con nostro maggiore contento), avendo per sorte in mia compagnia l’eccellente architetto messer Michele San Michele di Verona e messer Tomaso Giunti, miei carissimi amici, doppo levato il mantile di tavola nel fine del desinare, per il mezo di messer Michele Mambré, uomo dottissimo nella lingua araba, persiana e turca, e persona di molto gentili costumi, il quale è per il suo valore oggidì interprete di questa illustrissima Signoria nella lingua turca, incominciò a dire così, e il Mambré interpretava. Primieramente che egli era stato a Succuir e Campion, cittadi della provincia di Tanguth nel principio del stato del gran Cane, il quale disse che si nominava Daimir Can e mandava suoi rettori al governo di dette cittadi (delle quali parla messer Marco nel libro primo al capitolo 38, 39), le quali son le prime verso il paese de’ musulmani che siano idolatre; e vi andò con la caravana che va con mercanzie del paese della Persia e da quelli vicini al mare Caspio per le regioni del Cataio, la qual caravana non lassano costoro che penetri più avanti di Succuir e Campion, né similmente alcun mercante che sia in quella, eccetto che se non andasse ambasciatore al gran Cane.

Questa città di Succuir è grande e populatissima, con bellissime case fatte di pietre cotte all’italiana, e ha molti tempii grandi con loro idoli di pietra viva; posta in una pianura dove corrono infiniti fiumicelli, la quale è abbondantissima di vettovaglie d’ogni sorte, e dove si fanno sete con gli alberi di more negre in grandissima quantità. Non vi nasce vino, ma fanno la lor bevanda con mele a modo di cervosa; de frutti, per esser il paese freddo, non vi nascono altri che peri, pomi, armellini e persichi, melloni e angurie. Dipoi disse che il reubarbaro nasce da per tutto in quella provincia, ma molto miglior che altrove in alcune montagne ivi vicine, alte e sassose, dove sono molte fontane e boschi di diverse sorti d’altissimi alberi; e la terra è di color rosso, e per le molte pioggie e fontane che da per tutto corrono quasi sempre fangosa. Quanto alla radice e foglie, avendone il predetto mercante per sorte portata seco dal paese una picciola pittura, per quello che si vedeva diligentemente e con molto arteficio dipinta, trattosela di seno ce la mostrò e descrisse, dicendo quella esser la vera e natural figura del reubarbaro: della quale ne presi un ritratto per metterlo qui sotto in disegno, insieme con la sua istoria e dichiarazione, secondo la relazione avuta da lui.

Sono adunche dette foglie lunghe ordinariamente, come disse, due spanne, ma più e meno poi secondo la grandezza della pianta, astrette da basso e larghe di sopra. Hanno nella loro circonferenzia un certo pelo piccolino, o lanugine che vogliamo dire; il tronco che viene sopra la terra, al quale sono attaccate le foglie, è verde e alto quattro dita e anco un palmo da terra, e nascono le foglie similmente verdi, ma come s’invecchiscono divengono gialle, sì come erano in pittura, e si distendono per terra. Produce il detto tronco nel mezo un certo ramicello sottile con alcuni fiori attaccati d’ogn’intorno, simili alle viole mammole nella forma, ma di colore di latte e azzurro e alquanto maggiori delle viole mammole sopradette, l’odor de’ quali è molto acuto e fastidioso, e in modo che dispiace assai a coloro che l’odorano. La radice similmente che sta sotto terra è lunga un palmo o due fino in tre, di color nella scorza tanè, sì come ve ne sono di grosse e sottili secondo la proporzione; de’ quali anco se ne ritrovano fino della grossezza come è la coscia d’un uomo e come è il mezo della gamba. Ha questa radice molte altre radicette piccioline intorno che nascono da lei e sono sparse per la terra, le quali prima si levano via, e poi si taglia la radice grossa per fare in pezzi; la quale di dentro è di color giallo e ha molte vene di bellissimo rosso, ed è piena di molto sugo giallo e rosso, e di modo viscoso che, toccandolo, facilmente s’attacca alle dita e fa la mano gialla. Dipoi tagliata la radice e fatta in pezzi, disse che se la volessero appicar allora allora per seccarla, tutto ‘l sugo giallo viscoso uscirebbe fuori e così diventerebbe leggiera, onde credono che perderebbe assai della sua bontà e perfezione: per ciò mettono detti pezzi tutti sopra alcune lunghe tavole, e ogni giorno tre e quattro volte gli vanno voltando e rivoltando, acciò il sugo s’incorpori dentro e resti nella radice congelato. Nel fine poi di quattro o sei giorni gli bucano e gli appicano con cordicelle all’aria e al vento, dove però non v’aggiunghino i raggi del sole: e in questo modo si ha il reubarbaro in due mesi secco, e si fa molto buono e perfetto. Mi disse ancora che loro osservano ordinariamente di cavare il reubarbaro della terra l’invernata, perché in tal tempo (avanti che cominci a mandare fuora le foglie) il sugo e la virtù è tutta unita e raccolta nella sua radice: il qual tempo è avanti la primavera, la quale nel paese di Campion e Succuir viene alla fine di maggio. E di più mi disse che quelle radici del reubarbaro che si cavano la state, e in quei tempi che le foglie sono fuora, non sono mature né hanno quel sugo giallo ch’hanno quelle che son cavate l’invernata, e di più sono fungose, rare, leggieri e asciutte, né manco hanno quel colore rosso, né sono di quella bontà che quelle che sono cavate l’inverno.

Disse ancora che quelli che vanno a cavare dette radici sopra i detti monti dove le nascono, portate che l’hanno alla pianura così verde e con le foglie in quel modo che l’hanno cavate della terra, le mettono sopr’alcuni lor carri, e ne vendono pieno un carro con le foglie per sedici saggi d’argento; perché quivi non hanno moneta battuta, ma fanno l’argento e l’oro in alcune verghette sottili e le tagliano in pezzetti picciolini del peso d’un saggio, ch’è quasi simile al nostro: quale essendo d’argento, vale venti soldi di Venezia in circa, ed essendo d’oro vale uno scudo e mezo d’oro. Il qual reubarbaro, così frescamente comperato, è dipoi dalli compratori acconcio e secco nel modo che di sopra s’è detto. E mi raccontò cosa di gran maraviglia, cioè che, se non vi andassero in quelle parti del continuo i mercanti a dimandarglielo, non lo ricoglierebbero mai, perché d’esso non ne fanno stima. E coloro che vengono dalla China e India ne levano maggior quantità di tutti gli altri, li quali, quando è condotto in Succuir sopra quei carri over some, se non lo tagliassero e governassero prestamente, in termine di quattro o sei giorni diventerebbe marcio e sobbollirebbe. E mi affermò ancora, di quello ch’egli aveva portato seco in questa città, che ne comperò ben sette some di verde, il qual poi fatto secco e acconcio non venne più che una picciola soma. E mi disse ancora che quando gli è verde è tanto amaro che non si può gustare, e che nelle terre del Cataio non l’adoperano per medicina sì come facciamo noi qua, ma lo pestano e compongono con alcune altre misture molto odorifere e ne fanno profumo agl’idoli; e in alcuni altri luoghi ve n’è tanta copia che l’abbrucciano continuamente secco in cambio di legne; altri, come hanno i lor cavalli ammalati, gli ne danno di continuo a mangiare, tanto è poco stimata questa radice in quelle parti del Cataio. Ma ben apprezzano molto più un’altra picciola radice, la quale nasce nelle montagne di Succuir, dove nasce il reubarbaro, e la chiamano mambroni cini, ed è carissima; e’ l’adoperano ordinariamente nelle lor malattie, e massime in quella degli occhi, perché, se trita sopra una pietra con acqua rosa ungano gl’occhi, sentono un mirabile giovamento; né crede che di quella radice ne sia portata in queste parti, né meno disse di saperla descrivere. E di più, vedendo il piacer grande ch’io sopra gl’altri pigliavo di questi ragionamenti, mi disse che in tutto ‘l paese del Cataio s’adopera anco un’altra erba, cioè le foglie, la quale da que’ popoli si chiama chiai catai: e nasce nella terra del Cataio ch’è detta Cacianfu, la quale è commune e apprezzata per tutti que’ paesi. Fanno detta erba, così secca come fresca, bollire assai nell’acqua, e pigliando di quella decozione uno o doi bichieri a digiuno, leva la febre, il dolor di testa, di stomaco, delle coste e delle giunture, pigliandola però tanto calda quanto si possa soffrire; e di più disse esser buona ad infinite altre malattie, delle quali egli per allora non si ricordava, ma fra l’altre alle gotte; e che se alcuno per sorte si sente lo stomaco grave per troppo cibo, presa un poco di questa decozione, in breve tempo arà digerito. E per ciò è tanto cara e apprezzata ch’ognuno che va in viaggio ne vuol portare seco, e costoro volentieri darebbono, per quello ch’egli diceva, sempre un sacco di reubarbaro per un’oncia di chiai catai; e che quelli popoli cataini dicono che, se nelle nostre parti e nel paese della Persia e Franchia la si conoscesse, i mercanti senza dubio non vorrebbono più comperare ravend cini (che così chiamano loro il reubarbaro).

Quivi fatto un poco di pausa, e fattoli dimandare s’egli mi voleva dire altro del reubarbaro, e rispostomi non aver altro, essendo il giorno molto lungo ancora, e per non perdere quel resto della giornata che avanzava senza qualche altro piacere, come avevamo fatto fin allora, gli domandai che viaggio egli nel suo ritorno da Campion e Succuir avea fatto venendo a Constantinopoli, e se me lo avesse saputo raccontare. Risposemi per il Mambré nostro interprete che mi narrarebbe il tutto volentieri, e incomminciò a dire ch’egli non era già ritornato per quella istessa via che avea prima fatta andando con la carovana, per ciò che, al tempo ch’egli si voleva partire, occorse che que’ signori tartari dalle berrette verdi, chiamati Iescilbas, mandarono per sorte un loro ambasciatore con molta compagnia per la via della Tartaria deserta sopra il mar Caspio al gran Turco a Constantinopoli, per far lega e andare contra il Soffì, lor commune nimico: per la qual occasione di compagnia gli parve bene di venire con loro, avendo, oltra la commodità del viaggio, molto vantaggio anche nel vivere, e così venne con loro fino a Caffa; ma che per ciò non restarebbe di raccontare volentieri il viaggio ch’egli averia fatto se fusse ritornato per la strada che l’era andato. Onde disse che ‘l viaggio sarebbe stato questo: cioè che, partendosi dalla città di Campion, sarebbe venuto a Gauta, ch’è lo spacio di sei giornate lontana, perché ogni giorno fanno tante farsenc (e una farsenc persiana è tre delle nostre miglia), e fanno che una giornata sia 8 farsenc, ma per causa de deserti e monti non ne fanno la metà, ancora che le giornate che fecero per li deserti fossero la metà dell’altre ordinarie. Da Gauta si viene a Succuir in 5 giornate, e da Succuir a Camul in quindici, dove incomminciano ad essere musulmani, essendo fin qui stati idolatri; e da Camul a Turfon in tredeci, e da Turfon si passano tre città: la prima Chialis, che vi sono 10 giornate; poi Chuchi, altre 10; poi Acsù, 20 giornate. Da Acsù a Cascar altre 20 giornate di asprissimo deserto, essendo stato il primo viaggio fin lì per luoghi abitati; da Cascar a Samarcand 25; da Samarcand a Bochara, nel Corassam, cinque; da Bochara ad Eri 20; e quindi si viene a Veremi in 15 giornate, e poi a Casibin in #6, e da Casibin a Soltania in #4, e da Soltania alla gran città di Tauris in sei. Questo è quanto sottrassi da questo mercante persiano, e la relazione di tal viaggio mi fu tanto più grata quanto che riconobbi, con mio molto contento, li medesimi nomi di molte città e alcune provincie essere scritti nel primo libro del viaggio de messer Marco previous hit Polo next hit, per causa del quale mi è parso in parte necessario doverla qui raccontare.

Parmi conveniente qui ancora aggiungere un breve sommario fattomi dal sudetto Chaggi Memet, mercante persiano, avanti il suo partire di questa città, d’alcuni pochi particolari della città de Campion e di quelle genti; li quali sì come da lui brevemente e per capi furono referiti, così io qui nel medesimo modo gli racconterò a beneficio e utile de’ benigni lettori.

La città di Campion è abitata da popoli che sono idolatri, soggetta alla signoria de Daimir Can, grande imperatore de’ Tartari; la qual città è posta in una fertilissima pianura tutta coltivata e abbondante d’ogni sorte di vivere. Vanno vestiti quei popoli di tele di bombagio di color negro, l’inverno fodrate di pelle di lupi e di castroni li poveri, e li ricchi di zibellini e martori di gran prezzo; portano le berrette nere, aguzze come un pane di zucchero. Gl’uomini sono più tosto piccioli che grandi; usano di portare barba come noi, e massime certo tempo dell’anno. Le fabriche delle lor case son fatte al modo nostro, di pietre cotte e di pietre vive, con due e tre solari, quali sono soffittati e dipinti di pittura di varii e diversi colori e di figure; vi sono anco infiniti pittori, e vi è una contrada dove non abita altri che pittori. I signori per pompa e magnificenza fanno fare un solare grande, sopra il quale vi fanno dirizzare duoi padiglioni di seta, riccamati d’oro e d’argento e con molte perle e gioie, dove stanno loro e gli amici suoi, e lo fanno portare da 40 in 50 schiavi, e così vanno per la città a sollazzo; i gentiluomini vanno sopra un solaro scoperto semplicemente portato da 4 over 6 uomini, senza altro ornamento.

I tempii loro sono fatti al modo delle nostre chiese, con le colonne per lungo, e ve ne sono de così grandi che vi sarebbono capaci di quattro o cinquemila persone; e vi sono ancora due statue, cioè d’un uomo e d’una donna, lunghe 40 piedi l’una, distese per terra, tutte dorate, e sono tutte d’un pezzo. E vi sono valenti tagliapietre; fanno condurre pietre vive da due e tre mesi di cammino sopra carri di 40 ruote ferrate, alti di ruote, tirati da 500 e 600 fra cavalli e muli. Sonvi altre statue picciole, che hanno sei e sette capi e dieci mani, che tengono ciascuna diverse cose, come saria dire una un serpe, l’altra un uccello e l’altra un fiore.

Sonvi alcuni monasterii dove stanno molti uomini di santissima vita, e hanno le porte delle lor stanzie murate, sì che non possono mai uscire in vita loro: e gli viene ogni giorno portato il vivere. Sonvi poi infiniti, come nostri frati, che vanno per la città.

Hanno per costume, quando muore alcun lor parente, di vestirsi per molti giorni di bianco, cioè di tele di bombagio; ma le veste sue sono fatte però al modo nostro, lunghe fino in terra e con le maniche assai grandi, simili alle nostre a gomedo che portiamo a Venezia.

Hanno la stampa in quel paese, con la quale stampano i suoi libri. E desiderando io chiarirmi se quel loro modo di stampare è simile al nostro di qua, lo condussi un giorno nella stamparia di messer Tomaso Giunti a San Giuliano per fargliela vedere: il quale, vedute le lettere di stagno e li torcoli con che si stampa, disse parergli che avessero insieme grande similitudine.

Hanno la città fortificata con un muro grosso e di dentro pieno di terra, sì che vi possono andare 4 carra al pari; sonvi li suoi torrioni sulle mura e le artigliarie poste tanto spesse, non altrimente che sono quelle del gran Turco. Usano la fossa larga, asciutta, ma però che vi possono far correre l’acqua ad ogni lor piacere.

Hanno alcuna sorte di buoi molto grandi, che hanno il pelo lungo, sottilissimo e bianchissimo.

E1 vietato alli Cataini e idolatri partirsi del suo nativo paese e andare per mercanzie per il mondo.

Oltra il deserto che è sopra il Corassam, fino a Samarcand e fino alle città idolatre, signoreggiano Iescilbas, cioè le berrette verdi, le quali berrette verdi son alcuni Tartari musulmani che portano le loro berrette di feltro verde acute, e così si fanno chiamare a differenzia de’ Soffiani, suoi capitali nemici, che signoreggiano la Persia, pur anche essi musulmani, i quali portano le berrette rosse. Quali berrette verdi e rosse hanno continuamente avuta fra sé guerra crudelissima, per causa di diversità de opinione nella loro religione e discordia de’ confini. Delle cittadi delle berrette verdi che hanno imperio e signoreggiano sono fra l’altre, al presente, l’una Bochara e l’altra Samarcand, che ciascuna ha signoria da sua posta.

Hanno tre scienzie particolari, che chiamano l’una chimia, ch’è quella che noi chiamiamo alchimia; l’altra limia, per fare innamorare; e l’altra simia, per fare vedere quello che non è. Le monete qui non sono battute, ma ogni gentiluomo e mercante fa fare in verghette sottili l’oro o vero argento, e quello fa dividere in saggi e spende quelli: e così fanno tutti gli abitanti di Campion e Succuir. Si riducono ogni giorno sulla piazza di Campion molti cerrettani, che hanno la scienzia di simia, mediante la quale, circondati da infinita moltitudine di persone, fanno vedere cose maravigliose, come è dire di passare un uomo ch’hanno seco da un canto all’altro con una spada, tagliarli un braccio, fare vedere a tutti il sangue, e simil cose.

Nel capitolo 42 e 53 del primo libro, ove dice messer Marco previous hit Polo next hit che sotto la tramontana v’era un gran signore detto Um Can, che vogliono alcuni questo nome dire Preti Ianni nella nostra lingua, e che la sua prencipale sedia era in due regioni, Og e Magog, è da sapere che in tutte quelle carte da navigare che si veggono oggidì, fatte già 200 e 300 anni, v’è posto questo Prete Ianni sotto la tramontana e sopra l’India fra il Gange e l’Indo, e di quello ch’è nell’Etiopia non v’è fatta menzione alcuna. E Abylfada Ismael istesso, descrivendo li confini della regione delle Cine, dice che ha dalla parte di ponente le Indie, da mezogiorno il mare Indico, e da levante il mare Orientale, e da tramontana le provincie de Gogi Magogi, cioè de’ Tartari. Descrivendo poi il predetto i luoghi della terra abitabile che circuendo il mare Oceano tocca, dice così: “Rivoltasi l’Oceano da levante verso le regione delle Cine e va alla volta di tramontana, e passata finalmente la detta regione se ne giunge a Gogi e Magogi, cioè alli confini degli ultimi Tartari, e di quivi ad alcune terre che sono incognite; e correndo sempre per ponente, passa sopra li confini settentrionali della Rossia e va alla volta di maestro”. Di qui è che, avendo udito messer Marco e veduto in carte da navicare il detto Prete Ianni posto sotto la tramontana con le provincie de Gogi e Magogi, descrisse quello di tramontana e tacque di quello dell’Etiopia. E ancor che metta un signore cristiano nell’Etiopia, non dice però il suo nome, anzi dice nel capitolo 38 del terzo libro che ad un suo vescovo, quale lui avea mandato in Ierusalemme, fu fatto un grandissimo oltraggio dal soldano di Adem, che lo fece per dispregio circoncidere: il che manifestamente dimostra che non ebbe mai notizia di quello d’Etiopia, perché sempre tutti gli Abissini sono stati circoncisi.

Resta ch’io dica ancora in generale alquante cose sopra questo libro, ch’io già essendo giovane udi’ più volte dire dal molto dotto e reverendo don Paolo Orlandino di Firenze, eccellente cosmografo e molto mio amico, che era priore del monasterio di Santo Michele di Murano a canto Venezia, dell’ordine de Camaldoli, che mi narrava averle intese da altri frati vecchi pur del suo monasterio. E questo è come quel bel mappamondo antico miniato in carta pecora, e che oggidì ancor in un grande armaro si vede a canto il lor coro in chiesa, la prima volta fu per uno loro converso del monasterio, quale si dilettava della cognizione di cosmografia, diligentemente tratto e copiato da una belissima e molto vecchia carta marina e da un mappamondo, che già furono portati dal Cataio per il magnifico messer Marco previous hit Polo next hit e suo padre; il quale, così come andava per le provincie d’ordine del gran Can, così aggiugneva e notava sopra le sue carte le città e luoghi che egli ritrovava, come vi è sopra descritto. Ma per ignoranzia d’un altro che dopo lui lo dipinse e fornì, aggiugnendovi la descrizione d’uomini e animali di più sorti e altre sciocchezze, vi furono aggiunte tante cose più moderne e alquanto ridiculose, che appresso gli uomini di giudicio quasi per molti anni perse tutta la sua auttorità. Ma poi che non molti anni sono per le persone giudiciose s’è incominciato a leggere e considerare alquanto più diligentemente questo presente libro di messer Marco previous hit Polo next hit che fin ora non si avea fatto, e confrontare quello ch’egli scrive con la pittura di lui, immediate si è venuto a conoscere che ‘l detto mappamondo fu senza alcuno dubbio cavato da quello di messer Marco previous hit Polo next hit, e incominciato secondo quello con molto giuste misure e bellissimo ordine: onde fin al presente giorno è dapoi continuamente stato in tanta venerazione e precio appresso tutta questa città, e coloro massime che si dilettano delle cose di cosmografia, che non è mai giorno che d’alcuno non sia con molto piacere veduto e considerato, e fra gli altri miracoli di questa divina città, nell’andare de’ forestieri a vedere i lavori di vetro a Murano, non sia per bella e rara cosa mostrato. E ancor che quivi si vegghino molte cose essere fatte alquanto confusamente e senza ordine, grado o misura (il che si deve attribuire a colui che ‘l dipinse e fornì), vi si comprendono per ciò di molto belle e degne particularità, non sapute ancora né conosciute meno dagli antichi: come che verso l’antartico, ove Tolomeo e tutti gli altri cosmografi mettono terra incognita senza mare, in questo di San Michele di Murano già tanti anni fatto si vede che ‘l mare circonda l’Africa e che vi si può navicare verso ponente, il che al tempo di messer Marco si sapeva, ancor che a quel capo non vi sia posto nome alcuno, qual fu per Portughesi poi a’ nostri tempi l’anno 1500 chiamato di Buona Speranza.

Vi si vede appresso l’isola di Magastar, ora detta di San Lorenzo, e quella di Zinzibar, delle quali messer Marco parla ne’ capitoli 35 e 36 del terzo libro, e molte altre particularità nelli nomi dell’isole orientali, che dapoi per Portughesi a’ tempi nostri sono state scoperte. Dalla parte poi di sotto la nostra tramontana, che ciascuno scrittore e cosmografo di questi e de’ passati tempi fin ora vi ha messo e mette mare congelato, e che la terra corra continuatamente fin a 90 gradi verso il previous hit polo next hit, sopra questo mappamondo, all’incontro, si vede che la terra va solamente un poco sopra la Norvega e Svezia, e voltando corre poi greco e levante nel paese della Moscovia e Rossia e va diritto al Cataio. E che ciò sia la verità, le navigazioni che hanno fatte gl’Inglesi con le loro navi volendo andare a scoprire il Cataio al tempo del re Odoardo sesto d’Inghilterra, questi anni passati, ne possono far vera testimonianza: perché nel mezo del loro viaggio, capitate per fortuna ai liti di Moscovia, dove trovarono allora regnare Giovanni Vaschelluich, imperatore della Rossia e granduca di Moscovia, il quale con molto piacere e maraviglia vedutogli fece grandissime carezze, hanno trovato quel mare essere navigabile e non agghiacciato. La qual navigazione (ancor che con l’esito fin ora non sia stata bene intesa), se col spesso frequentarla e col lungo uso e cognizione di que’ mari si continuerà, è per fare grandissima mutazione e rivolgimento nelle cose di questa nostra parte del mondo. E tutte queste particolarità senza dubio alcuno furono cavate dalle carte e mappamondo del Cataio, perché messer Marco non fu mai nel seno Arabico né verso l’isole quivi vicine, e gran parte dell’informazione del terzo libro è da credere che gli fusse data da marinari di quelli mari d’India, li quali grossamente gli dicevano per arbitrio loro quanto era da un’isola all’altra (e mille e duemila miglia a loro non pareva troppo gran cosa); e anche per qual vento vi s’andasse non sapevano così chiaramente come al presente si sa, per le carte sì diligentemente e con tanta misura fatte e con li venti e con li gradi. E vi sono anco de’ nomi di una medesima provincia duplicati, di che il lettore non piglierà ammirazione; e alcuna volta in cambio d’isole dice regni: come nella Zava minore, al capitolo decimo del terzo libro, mette otto regni, li quali a giudicio d’uomini pratichi sono isole, come saria dire che il regno di Samatra (chiamata da lui Samara) è quella grandissima isola di Sumatra, e così di molte altre le quali al presente ci sono incognite, che nell’avenire, col tempo e per la navigazione de’ Portughesi, facilmente si saperanno.

Si conosce ancora come al suo tempo non v’era el bussolo e la calamita a’ nostri tempi ritrovata, cosa tanto maravigliosa e rara, né si sapeva la elevazione del previous hit polo next hit con li gradi come ora si sa, ma grossamente guardandolo dicevano: la stella tramontana può essere tanti cubiti o braccia alta dal mare.

Il fabricare delle navi, nel principio del terzo libro, è simile a quello che usano nell’isole delle Moluche e della China.

Ultimamente nel fine del terzo libro, ove parla della Rossia e del regno delle Tenebre, come quello che in varii mappamondi antichi è posto per fine del nostro abitabile sotto la tramontana non s’inganna punto del sito del detto regno, nelli mesi però ch’egli scrive dell’inverno.

E questo basti per ora per dichiarazione d’alcuni luoghi del libro di messer Marco previous hit Polo next hit.

Di Venezia, a’ sette di luglio MDLIII.

PROEMIO PRIMO SOPRA IL LIBRO DI MESSER MARCO previous hit POLO next hit, GENTILUOMO DI VENEZIA, FATTO PER UN GENOVESE.

Signori, principi, duchi, marchesi, conti, cavallieri e gentiluomini, e ciascuna persona che ha piacere e desidera di conoscer varie generazioni di uomini e diverse regioni e paesi del mondo e saper li costumi e usanze di quelli, leggete questo libro, perché in esso troverete tutte le grandi e maravigliose cose che si contengono nelle Armenie maggiore e minore, Persia, Media, Tartaria e India, e in molte altre provincie dell’Asia, andando verso il vento di greco levante e tramontana; le qual tutte per ordine in questo libro si narrano secondo che ‘l nobil messer Marco previous hit Polo next hit, gentiluomo veneziano, le ha dettate, avendole con gli occhi proprii vedute. E perché ve ne sono alcune le quali non ha vedute, ma udite da persone degne di fede, però nel suo scrivere le cose per lui vedute mette come vedute, e le udite come udite: il che fu fatto acciò che questo nostro libro sia vero e giusto senz’alcuna bugia, e ciascun che ‘l leggerà overo udirà gli dia piena fede, perché il tutto è verissimo. Credo certamente che non sia cristiano né pagano alcuno al mondo che abbia tanto cercato né camminato per quello com’il prefato messer Marco previous hit Polo next hit, perciò che dal principio della sua gioventù sino all’età di quaranta anni ha conversato in dette parti. E ora, ritrovandosi prigione per causa della guerra nella città di Genova, non volendo star ozioso, gli è parso, a consolazion de’ lettori, di voler metter insieme le cose contenute in questo libro, le quali son poche rispetto alle molte e quasi infinite ch’egli averia potuto scrivere, s’egli avesse creduto di poter ritornar in queste nostre parti. Ma pensando esser quasi impossibile di partirsi mai dall’obedienza del gran Can re de’ Tartari, non scrisse sopra i suoi memoriali se non alcune poche cose, le quali ancora gli pareva grande inconveniente che andassero in oblivione, essendo così mirabili, e che mai da alcun altro erano state scritte, acciò che quelli che mai le sono per vedere, al presente col mezo di questo libro le conoschino e intendino qual fu fatto l’anno del MCCXCVIII.

PROEMIO SECONDO SOPRA IL LIBRO DI MESSER MARCO previous hit POLO next hit, FATTO DA FRA FRANCESCO PIPINO BOLOGNESE DELL’ORDINE DE’ FRATI PREDICATORI, QUALE LO TRADUSSE IN LINGUA LATINA E ABBREVIO1, DEL MCCCXX.

Per prieghi di molti reverendi padri miei signori, io tradurrò in lingua latina dalla volgare il libro del nobile, savio e onorato messer Marco previous hit Polo next hit, gentiluomo di Venezia, delle condizioni e usanze delle regioni e paesi dell’Oriente, dilettandosi ora i prefati miei signori più di leggerlo in lingua latina che nella volgare. E acciò che la fatica di questo tradurre non paia vana e inutile, ho considerato che pel leggere di questo libro, che per me sarà fatto latino, i fedel uomini che son fuori d’Italia possino ricever merito da Dio di molte grazie, però ch’essi, vedendo le maravigliose operazioni d’Iddio, si potranno molto maravigliare della sua virtù e sapienza; e considerando che tanti popoli pagani sono pieni di tanta cecità e orbezza e di tante spurcizie, li cristiani ringraziarann’Iddio il qual, illuminando i suoi fedeli di luce di verità, s’ha degnato di voler cavargli da così pericolose tenebre, menandogli nel suo maraviglioso lume di gloria; o che que’ cristiani, avendo compassione e cordoglio dell’ignoranza de’ detti pagani, pregherann’Iddio per l’illuminazione de’ cuori di quelli; o che per questo libro la durezza e ostinazione de’ non devoti cristiani si confonderà, vedendo gl’infedeli popoli più pronti ad adorare gl’idoli falsi che molti cristiani il Dio vero; o forse che alcuni religiosi per amplificare la fede cristiana, vedendo che ‘l nome del nostro Signor dolcissimo è incognito in tanta moltitudine di popoli, si commoveranno ad andare in quei luoghi per illuminar quelle accecate nazioni degl’infedeli: nel qual luogo, secondo che dice l’Evangelio, è molta biada e pochi lavoratori. E acciò che le cose che noi non usiamo né avemo udite, le quali sono scritte in molte parti di questo libro, no paiano incredibili a tutti quelli che le leggeranno, si dinota e fa manifesto che ‘l sopradetto messer Marco, rapportator di queste così maravigliose cose, fu uomo savio, fedele, devoto e adornato d’onesti costumi, avendo buona testimonianza da tutti quelli che lo conoscevano, sì che pel merito di molte sue virtù questo suo rapportamento è degno di fede; e messer Nicolò suo padre, uomo di tanta sapienza, similmente le confermava; e messer Maffio suo barba (del quale questo libro fa menzione), come vecchio devoto e savio, essendo sul ponto della morte, familiarmente parlando affermò al suo confessore sopra la conscienza sua che questo libro in tutte le cose conteneva la verità. Il che avend’io inteso da quelli che gli hanno conosciuti, più sicuramente e più volentieri m’affaticarò a traslatarlo, per consolazione di quelli che lo leggeranno, e a laude del Signor nostro Iesù Cristo, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Qual libro fu scritto per il detto messer Marco del MCCXCVIII, trovandosi prigione nella città di Genova, e si parte in tre libri, i quali si distinguono per proprii capitoli.

[Libro primo]

Capitolo 1

Dovete adunque sapere che nel tempo di Balduino, imperatore di Constantinopoli, dove allora soleva stare un podestà di Venezia per nome di messer lo dose, correndo gli anni del N.S. 1250, messer Nicolò previous hit Polo next hit, padre di messer Marco, e messer Maffio previous hit Polo next hit, fratello del detto messer Nicolò, nobili, onorati e savi di Venezia, trovandosi in Constantinopoli con molte loro grandi mercanzie, ebbero insieme molti ragionamenti, e finalmente deliberorno andar nel mar Maggiore, per vedere se potevan accrescere il loro capitale. E comprate molte bellissime gioie e di gran prezzo, partendosi di Constantinopoli navigorno per il detto mar Maggiore ad un porto detto Soldadia, dal quale poi presero il cammino per terra alla corte d’un gran signor de’ Tartari occidentali detto Barcha, che dimorava nella città di Bolgara e Assara, ed era reputato un de’ più liberali e cortesi signori che mai fosse stato fra’ Tartari. Costui della venuta di questi fratelli ebbe grandissimo piacere e fece loro grande onore; quali avendo mostrate le gioie portate seco, vedendo che gli piacevano, gliele donarono liberamente. La cortesia così grande usata con tant’animo di questi due fratelli fece molto maravigliare detto signore, qual, non volendo essere da loro vinto di liberalità, fece a loro donar il doppio della valuta di quelle, e appresso grandissimi e ricchissimi doni.

Ed essendo stati un anno nel paese del detto signore, volendo ritornar a Venezia, subitamente nacque guerra tra il predetto Barcha e un altro nominato Alaù, signore de’ Tartari orientali. Gli eserciti de’ quali avendo combattuto insieme, Alaù ebbe la vittoria e l’esercito di Barcha n’ebbe grandissima sconfitta; per la qual cagione, non essendo sicure le vie, non poterno ritornar a casa per la strada ch’erano venuti. E avendo dimandato come essi potessero ritornar a Constantinopoli, furno consigliati d’andar tanto alla volta di levante che circondassero il reame di Barcha per vie incognite: e così vennero ad una città detta Ouchacha, qual è nel fin del regno di questo signor de’ Tartari di ponente. E partendosi da quel luogo e andando più oltre, passorno il fiume Tigris, ch’è uno de’ quattro fiumi del paradiso e poi un deserto di 17 giornate, non trovando città, castello overo altra fortezza, se non Tartari che vivono alla campagna in alcune tende, con li loro bestiami. Passato il deserto, giunsero ad una buona città detta Bocara, e la provincia similmente Bocara, nella regione di Persia, la qual signoreggiava un re chiamato Barach: nel qual luogo essi dimororno tre anni, che non poterno ritornar indietro né andar avanti, per la guerra grande ch’era fra li Tartari.

In questo tempo un uomo dotato di molta sapienzia fu mandato per ambasciatore dal sopradetto signor Alaù al gran Can, ch’è il maggior re di tutti i Tartari, qual sta ne’ confini della terra fra greco e levante, detto Cublai Can. Il qual, essendo giunto in Bocara e trovando i sopradetti due fratelli, i quali già pienamente avevano imparato il linguaggio tartaresco, fu allegro smisuratamente, però ch’egli non avea veduto altre volte uomini latini, e desiderava molto di vederli: e avendo con loro per molti giorni parlato e avuto compagnia, vedendo i graziosi e buoni costumi loro, gli confortò che andassino seco insieme al maggior re de’ Tartari, che gli vederia molto volentieri, per non esservi mai stato alcun latino, promettendo loro che riceveriano da lui grandissimo onore e molti beneficii. I quali, vedendo che non poteano ritornar a casa senza grandissimo pericolo, raccomandandosi a Dio, furono contenti d’andarvi, e così cominciarono a camminare col detto ambasciatore alla volta di greco e tramontana, avendo seco molti servitori cristiani ch’avevano menati da Venezia. E un anno intiero stettero ad aggiungere alla corte del prefato maggior re de’ Tartari, e la cagione perché indugiassero e stessero tanto tempo in questo viaggio fu per le nevi e per le acque de’ fiumi ch’erano molto cresciute, sì che, camminando, bisognò che aspettassero fino a tanto che le nevi si disfacessero e che l’acque discrescessero. E trovorno molte cose mirabili e grandi, delle quali al presente non si fa menzione, perché sono scritte per ordine da messer Marco, figliuolo di messer Nicolò, in questo libro seguente.

I quali messer Nicolò e messer Maffio essendo venuti davanti il prefato gran Can, il qual era molto benigno, gli ricevette allegramente e fece grandissimo onore e festa della loro venuta, percioché mai in quelle parti erano stati uomini latini; e cominciolli a dimandare delle parti di ponente e dell’imperatore de’ Romani e degli altri re e principi cristiani, e della grandezza, costumi e possanza loro, e come ne’ suoi reami e signorie osservavano giustizia, e come si portavano nelle cose della guerra; e sopra tutto gli domandò diligentemente del papa de’ cristiani, delle cose della Chiesa e del culto della fede cristiana. E messer Nicolò e messer Maffio, come uomini savi e prudenti, gli esposero la verità, parlandoli sempre bene e ordinatamente d’ogni cosa in lingua tartara, che sapevano benissimo: per il che spesse volte detto gran Can comandava che venissero a lui, ed erano molto grati avanti gli occhi di quello.

Avendo adunque il gran Can inteso tutte le cose de’ latini, come li detti due fratelli gli avevano saviamente esposto, si era molto sodisfatto; e proponendo nell’animo suo di volerli mandar ambasciatori al papa, volse aver prima il consiglio sopra di questo de’ suoi baroni, e dopo, chiamati a sé i detti due fratelli, gli pregò che per amor suo volessero andar al papa de’ Romani, con uno de’ suoi baroni che si domandava Chogatal, a pregarlo che li piacesse di mandargli cento uomini savi e bene instrutti della fede cristiana e di tutte le sette arti, i quali sapessero mostrar a’ suoi savi, con ragioni vere e probabili, che la fede de’ cristiani era la migliore e più vera di tutte l’altre, e che gli dei de’ Tartari e li suoi idoli qual adorano nelle loro case erano demonii, e ch’egli e gli altri d’Oriente erano ingannati nell’adorare de’ suoi dei. E oltre di questo commise alli detti fratelli che nel ritorno li portassero di Ierusalem dell’olio della lampada che arde sopra il sepolcro del nostro Signor messer Iesù Cristo, nel qual aveva grandissima devozione, e teneva quello essere vero Iddio, avendolo in somma venerazione. Messer Nicolò e messer Maffio, udito quanto gli veniva comandato, umilmente inginocchiati dinanzi al gran Can dissero ch’erano pronti e apparecchiati di far tutto ciò che gli piaceva; qual li fece scriver lettere in lingua tartaresca al papa di Roma e gliele diede, e ancora comandò che li fosse data una tavola d’oro, nella qual era scolpito il segno reale, secondo l’usanza della sua grandezza: e qualunche persona che porta detta tavola deve essere menata e condotta di luogo a luogo da tutti i rettori delle terre sottoposte all’imperio, sicura con tutta la compagnia; e per il tempo che vuole dimorar in alcuna città, fortezza o castello o villa, a lei e a tutti i suoi gli vien provisto e fatte le spese e date tutte l’altre cose necessarie.

Ora, essendo essi dispacciati così onoratamente, pigliata licenza dal gran Can, cominciorno a camminare, portando con esso loro le lettere e la tavola d’oro; e avendo cavalcato insieme venti giornate, il barone sopradetto s’ammalò gravemente, per volontà del quale e per consiglio di molti lasciandolo seguitorno il loro viaggio, e per la tavola d’oro ch’aveano erano in ogni parte ricevuti con grandissimo favore, e fattoli le spese e datoli le scorte. E per i gran freddi, nevi e giazze, e per l’acque de’ fiumi che trovorno molto cresciute in molti luoghi, fu necessario di ritardare il lor viaggio, nel quale stettero tre anni avanti che potessero venire ad un porto dell’Armenia minore detto la Giazza; dalla qual dipartendosi per mare vennero in Acre, del mese d’aprile nell’anno 1269. Giunti che furono in Acre, e inteso che Clemente papa quarto nuovamente era morto, si contristorno fortemente. Era in Acre allora legato di quel papa uno nominato messer Tebaldo de’ Vesconti di Piacenza, al qual essi dissero tutto ciò che tenevano d’ordine del gran Can; costui gli consigliò che al tutto aspettassero la elezione del papa, e che poi esequiriano la loro ambasciaria. Li quali fratelli, vedendo che questo era il meglio, dissero che così fariano, e che fra questo mezo volevano andar a Venezia a veder casa sua. E partiti d’Acre con una nave, vennero a Negroponte e di lì a Venezia dove giunti, messer Nicolò trovò che sua moglie era morta, la quale nella sua partita aveva lasciata gravida, e avea partorito un figliuolo al qual avean posto nome Marco, il qual era già di anni 19: questo è quel Marco che ordinò questo libro, il quale manifestarà in esso tutte quelle cose le quali egli vidde.

In questo mezo la elezione del papa si indugiò tanto ch’essi stettero in Venezia due anni continuamente aspettandola; quali essendo passati, messer Nicolò e messer Maffio, temendo che ‘l gran Can non si sdegnasse per la troppo dimoranza loro, overo credesse che non dovessino tornar più da lui, ritornarono in Acre, menando seco Marco sopradetto; e con parola del prefato legato andorno in Ierusalem a visitar il sepolcro di messer Iesù Cristo, dove tolsero dell’oglio della lampada, sì come dal gran Can gli era stato comandato. E pigliando le lettere del detto legato drizzate al gran Can, nelle quali si conteneva come essi avevano fatto l’officio fedelmente, e che ancora non era eletto il papa de’ cristiani, andorno alla volta del porto della Giazza. Nel medesimo tempo che costoro si partirono di Acre, il prefato legato ebbe messi d’Italia dalli cardinali com’egli era stato eletto papa, e si mise nome Gregorio decimo: qual, considerando che al presente che gl’era fatto papa poteva amplamente satisfar alle dimande del gran Can, spacciò immediate sue lettere al re d’Armenia, dandoli nuova della sua elezione e pregandolo che, se gli due ambasciatori che andavano al gran Can non fossero partiti, gli facesse ritornare a lui. Queste lettere gli trovorno ancora in Armenia, li quali con grandissima allegrezza volsero tornar in Acre; e per il detto re gli fu data una galea e uno ambasciatore, che s’allegrasse col sommo pontefice. Alla presenza del quale gionti, furono da quello ricevuti con grande onore, e dapoi espediti con lettere papali; con li quali volse mandar due frati dell’ordine de’ predicatori, ch’erano gran teologi e molto letterati e savii, e allora si trovavano in Acre, de’ quali uno era detto fra Nicolò da Vicenza, l’altro fra Guielmo da Tripoli: e a questi dette lettere e privilegi, e autorità di ordinare preti e vescovi e di far ogni absoluzione, come la sua persona propria; e appresso gli dette presenti di grandissima valuta e molti belli vasi di cristallo per appresentare al gran Can. E con la sua benedizione si partirono e navigorno alla dritta al porto della Giazza, e di lì per terra in Armenia, dove intesero che ‘l soldan di Babilonia, detto Benhochdare, era venuto con grande esercito, e avea scorso e abbruciato gran paese dell’Armenia: della qual cosa impauriti, li due frati, dubitando della vita loro, non volsero andar più avanti, ma, consegnate tutte le lettere e li presenti avuti dal papa alli prefati messer Nicolò e messer Maffio, rimasero col maestro del Tempio, con il quale si tornorno indietro.

Messer Nicolò e messer Maffio e messer Marco, partiti d’Armenia, si misero in viaggio verso il gran Can, non stimando pericolo o travaglio alcuno. E attraversando deserti di lunghezza di molte giornate e molti mali passi, andorno tanto avanti, sempre alla volta di greco e tramontana, che intesero il gran Can essere in una grande e nobil città detta Clemenfu; ad arrivare alla quale stettero anni tre e mezo, però che nell’inverno, per le nevi grandi e per il molto crescere dell’acque e per i grandissimi freddi, poco potevan camminare. Il gran Can, avendo presentita la venuta di costoro, e come erano molto travagliati, per quaranta giornate gli mandò ad incontrare, e fecegli preparare in ogni luogo ciò che gli facea bisogno, di modo che con l’aiuto d’Iddio si condussero alla fine alla sua corte: dove gionti, gli accettò con la presenza di tutti i suoi baroni, con grandissima onorificenzia e carezze. Messer Nicolò, messer Maffio e messer Marco, come viddero il gran Can, s’inginocchiarono distendendosi per terra, ma lui gli comandò che si levassero e stessero in piedi, e che gli narrassero come erano stati in quel viaggio, e tutto ciò ch’avevano fatto con la santità del papa: i quali avendogli detto il tutto, e con grand’ordine ed eloquenza, furono ascoltati con sommo silenzio. Dopo gli diedero le lettere e li presenti di papa Gregorio, quali udite che ebbe il gran Can, laudò molto la fedel solecitudine e diligenza de’ detti ambasciatori, e riverentemente ricevendo l’oglio della lampada del sepolcro del nostro Signor Iesù Cristo, comandò che fosse governato con grandissimo onore e riverenza. Dopo, dimandando il gran Can di Marco chi egli era, e rispondendogli messer Nicolò ch’egli era servo di sua Maestà, ma suo figliuolo, l’ebbe molto a grato, e fecelo scrivere tra gli altri suoi famigliari onorati: per la qual cosa da tutti quelli della corte era tenuto in gran conto ed existimazione; e in poco tempo imparò i costumi de’ Tartari, e quattro linguaggi variati e diversi, ch’egli sapea scrivere e leggere in ciascuno. Dove che ‘l gran Can, volendo provar la sapienza del detto messer Marco, mandollo per una facenda importante del suo reame ad una città detta Carazan, nel cammino alla qual consumò sei mesi: quivi si portò tanto saviamente e prudentemente in tutto ciò che gli era stato commesso, che il gran Can l’ebbe molto accetto. E perché lui si dilettava molto di udir cose nuove, e de’ costumi e delle usanze degli uomini e condizioni delle terre, messer Marco, per ciascuna parte che egli andava, cercava d’esser informato con diligenza, e facendo un memoriale di tutto ciò ch’intendeva e vedeva, per poter compiacere alla voluntà del detto gran Can. E in ventisei anni ch’egli stette suo familiare, fu sì grato a quello che continuamente veniva mandato per tutti i suoi reami e signorie per ambasciatore per fatti del gran Can, e alcune volte per cose particular di esso messer Marco, ma di volontà e ordine del gran Can. Questa adunque è la ragione che ‘l prefato messer Marco imparò e vidde tante cose nuove delle parti d’oriente, le quali diligentemente e ordinatamente si scriveranno qui di sotto.

Messer Nicolò, Maffio e Marco essendo stati molti anni in questa corte, trovandosi molto ricchi di gioie di gran valuta e d’oro, un estremo desiderio di rivedere la sua patria di continuo era lor fisso nell’animo, e ancor che fossero onorati e accarezzati, nondimeno non pensavan mai ad altro che a questo. E vedendo il gran Can esser molto vecchio, dubitavan che se ‘l morisse avanti il loro partire, che per la lunghezza del cammino e infiniti pericoli che li soprastavano mai più potessino tornare a casa, il che, vivendo lui, speravan di poter fare. E per tanto messer Nicolò un giorno, tolta occasione vedendo il gran Can esser molto allegro, inginocchiatosi, per nome di tutti tre gli dimandò licenza di partirsi: alla qual parola si turbò tutto, e gli disse che causa gli moveva a voler mettersi a così lungo e pericoloso cammino, nel qual facilmente potriano morire; e s’era per causa di robba o d’altro, gli voleva dare il doppio di quello che aveano a casa, e accrescerli in quanti onori che loro volessero, e per l’amor grande che li portava li denegò in tutto il partirsi.

In questo tempo accadette che morse una gran regina detta Bolgana, moglie del re Argon, nelle Indie orientali, la quale nel punto della sua morte dimandò di grazia al re, e così fece scriver nel suo testamento, che alcuna donna non sentasse nella sua sedia né fosse moglie di quello se non era della stirpe sua, la qual si trovava al Cataio, dove regnava il gran Can. Per la qual cosa il re Argon elesse tre savii suoi baroni, un de’ quali si domandava Ulatay, l’altro Apusca, il terzo Goza, e li mandò con gran compagnia per ambasciatori al gran Can, dimandandoli una donzella della progenie della regina Bolgana. Il gran Can, ricevutili allegramente e fatta trovare una giovane di anni 17, detta Cogatin, del parentado della detta regina, ch’era molto bella e graziosa, la fece mostrar alli detti ambasciatori: la qual piacque loro sommamente. Ed essendo state preparate tutte le cose necessarie e una gran brigata per accompagnar con onorificenza questa novella sposa al re Argon, gli ambasciatori, dopo tolta grata licenza dal gran Can, si partirono cavalcando per spazio di mesi otto per quella medesima via ch’erano venuti. E nel cammino trovarono che, per guerra nuovamente mossa fra alcuni re de’ Tartari, le strade erano serrate, e non potendo andar avanti, contra ‘l loro volere furono astretti di ritornar di nuovo alla corte del gran Can, al qual raccontorono tutto ciò che era loro intravenuto.

In questo tempo messer Marco, ch’era ritornato dalle parti d’India, dove era stato con alcune navi, disse al gran Can molte nuove di quelli paesi e del viaggio che egli avea fatto, e fra l’altre che molto sicuramente si navigavano que’ mari. Le qual parole essendo venute all’orecchie degli ambasciatori de re Argon, desiderosi di tornarsene a casa, dalla quale erano passati anni tre che si trovavano absenti, andorno a parlar con li detti messer Nicolò, Maffio e Marco, i quali similmente trovorno desiderosissimi di riveder la loro patria: e posto fra loro ordine che detti tre ambasciatori con la regina andassero al gran Can e dicessero che, potendosi andar per mare sicuramente fino al paese del re Argon, manco spesa si faria per mare e il viaggio saria più corto (sì come messer Marco avea detto, che avea navigato in que’ paesi); sua Maestà fosse contenta di farli questa grazia, che andassero per mare, e che questi tre latini, cioè messer Nicolò, Maffio e Marco, che avevano pratica del navigare detti mari, dovessero accompagnarli fino al paese del re Argon. Il gran Can, udendo questa loro dimanda, dimostrava gran dispiacere nel volto, perciò che non voleva che questi tre latini si partissero; nondimeno, non potendo far altrimenti, consentì a quanto li richiesero: e se non era causa così grande e potente che l’astringesse, mai li detti latini si partivano. Per tanto fece venire alla sua presenza messer Nicolò, Maffio e Marco, e gli disse molte graziose parole dell’amor grande che gli portava, e che gli promettessero che, stati che fossero qualche tempo in terra di cristiani e a casa sua, volessero ritornare a lui. E gli fece dar una tavola d’oro, dove era scritto un comandamento, che fossero liberi e sicuri per tutto il suo paese, e che in ogni luogo fossero fatte le spese a loro e alla sua famiglia, e datagli scorta, che sicuramente potessero passare, ordinando che fossero suoi ambasciatori al papa, re di Francia, di Spagna e altri re cristiani. Poi fece preparar quattordici navi, ciascuna delle quali avea quattro arbori, e potevano navigar con nove vele, le quali come fossero fatte si potria dire, ma, per esser materia lunga, si lascia al presente. Fra le dette navi ve ne erano almanco quattro o cinque che avevano da dugentocinquanta in dugentosessanta marinari. Sopra queste navi montorno gli ambasciatori, la regina e messer Nicolò, Maffio e Marco, tolta prima licenza dal gran Can, qual gli fece dare molti rubini e altre gioie finissime e di grandissima valuta, e appresso la spesa che gli bastasse per due anni.

Costoro, avendo navigato circa tre mesi, vennero ad una isola verso mezodì nominata Iava, nella quale sono molte cose mirabili che si diranno nel processo del libro. E partiti dalla detta isola navigorono per il mare d’India mesi deciotto, avanti che potessero arrivare al paese del re Argon, dove andavano; e in questo viaggio viddero diverse e varie cose, che saranno similmente narrate in detto libro. E sappiate che, dal dì che introrno in mare fino al giunger suo, morirono, fra marinari e altri ch’erano in dette navi, da seicento persone; e de’ tre ambasciatori non rimase se non uno, che avea nome Goza, e di tutte le donne e donzelle non morì se non una. Giunti al paese del re Argon, trovorno ch’egli era morto, e ch’uno nominato Chiacato governava il suo reame per nome del figliuolo, che era giovane: al qual parse di mandar a dire come di ordine del re Argon avendo condotta quella regina, quel che gli pareva che si facesse. Costui gli fece rispondere che la dovessero dare a Casan, figliuolo del re Argon, il qual allora si trovava nelle parti dell’Arbore Secco, ne’ confini della Persia, con sessantamila persone, per custodia di certi passi, acciò che non v’intrassero certe genti nemiche a depredare il suo paese: e così loro fecero. Il che fornito, messer Nicolò, Maffio e Marco tornarono a Chiacato, percioché de lì dovea essere il suo camino, e quivi dimorarono nove mesi. Dapoi avendo tolta licenza, Chiacato gli fece dare quattro tavole d’oro, ciascuna delle quali era lunga un cubito e larga cinque dita, ed erano d’oro, di peso di tre o quattro marche l’una: ed era scritto in quelle che, in virtù dell’eterno Iddio, il nome del gran Can fosse onorato e laudato per molti anni, e ciascuno che non obedirà sia fatto morire e confiscati i suoi beni. Dopo si conteneva che quelli tre ambasciatori fossero onorati e serviti per tutte le terre e paesi sì come fosse la propria sua persona, e che gli fosse fatto le spese, dati cavalli e le scorte, come fosse necessario. Il che fu amplamente esequito, perciò che ebbero e spese e cavalli e tutto ciò che gli era di bisogno, e molte volte avevano dugento cavalli, più e manco, secondo che accadeva; né si poteva far altramente, perché questo Chiacato non aveva riputazione, e gli popoli si mettevan a far molti mali e insulti; il che non averian avuto ardire di fare se fossero stati sotto un suo vero e proprio signore.

Faccendo messer Nicolò, Maffio e Marco questo viaggio, intesero come il gran Can era mancato di questa vita, il che gli tolse del tutto la speranza di poter più tornar in quelle parti; e cavalcorno tanto per le sue giornate che vennero in Trabisonda, e di lì a Constantinopoli e poi a Negroponte; e finalmente sani e salvi con molte ricchezze giunsero in Venezia, ringraziando Iddio che gli aveva liberati da tante fatiche e preservati da infiniti pericoli: e questo fu dell’anno 1295.

E le cose di sopra narrate sono state scritte in luogo di proemio, che si suol far a ciascun libro, acciò che chi lo leggerà conosca e sappia che messer Marco previous hit Polo next hit puoté sapere e intendere tutte queste cose in anni ventisei che ‘l dimorò nelle parti d’oriente.

Capitolo 2

Dell’Armenia minore e del porto della Giazza, e delle mercanzie che vi son condotte, e de’ confini di detta provincia.

Per dar principio a narrar delle provincie che messer Marco previous hit Polo next hit ha viste nell’Asia, e delle cose degne di notizia che in quelle ha ritrovate, dico che sono due Armenie, una detta minore e l’altra maggiore. Del reame dell’Armenia minore è signore un re che abita in una città detta Sebastoz, il qual osserva giustizia in tutto il suo paese; e vi sono molte città, fortezze e castelli, e d’ogni cosa è molto abondevole e di solazzo, e molte cacciagioni di bestie e d’uccelli; è ben vero che non vi è troppo buon aere. I gentiluomini di Armenia anticamente solevan essere molto buoni combattitori e valenti con l’arme in mano; ora son divenuti gran bevitori, e spaurosi e vili. Sopra il mare è una città detta la Giazza, terra di gran traffico: al suo porto vengono molti mercanti da Venezia, da Genova e da molt’altre regioni, con molte mercanzie di diverse speciarie, panni di seta e di lana e di altre preziose ricchezze; e anco quelli che vogliono intrare più dentro nelle terre di levante, vanno primieramente al detto porto della Giazza. I confini dell’Armenia minore son questi: verso mezodì è la Terra di Promissione, che vien tenuta dalli saraceni; da tramontana i Turcomani, che si chiamano Caramani; e da greco levante Cayssaria e Sevasta e molte altre città, tutte suddite a’ Tartari; verso ponente vi è il mare, per il qual si naviga alle parti de’ cristiani.

Capitolo 3

Della provincia detta Turcomania, dove sono le città di Cogno, Cayssaria e Sevasta, e delle mercanzie che vi si trovano.

Nella Turcomania sono tre sorti di genti, cioè Turcomani, i quali adorano Macometto e tengono la sua legge: sono genti semplici e di grosso intelletto, abitano nelle montagne e luoghi inaccessibili, dove sanno esser buoni pascoli, perché vivono solamente di animali; e ivi nascono buoni cavalli, detti turcomani, e buoni muli che sono di gran valuta; e l’altre genti sono Armeni e Greci, che stanno nelle città e castelli e vivono di mercanzie e arti: e quivi si lavorano tapedi ottimi e li più belli del mondo, ed eziandio panni di seta cremesina e d’altri colori belli e ricchi. E vi sono fra l’altre città Cogno, Cayssaria e Sevasta, dove il glorioso messer san Biagio patì il martirio. Tutti sono sudditi al gran Can, imperatore de’ Tartari orientali, il quale gli manda rettori.

Poi ch’abbiamo detto di questa provincia, diciamo della grande Armenia.

Capitolo 4

Dell’Armenia maggiore, dove son le città di Arcingan, Argiron, Darzizi; del castel Paipurth, e del monte dell’arca di Noè; de’ confini di detta provincia e del fonte dell’oglio.

L’Armenia maggiore è una gran provincia, che comincia da una città nominata Arcingan, nella quale si lavorano bellissimi bocassini di bambagio, e vi si fanno molte altre arti che a narrarle saria lungo, e hanno li più belli e migliori bagni d’acque calde che scaturiscono che trovar si possano. Sono le genti per la maggior parte Armeni, ma sottoposte a’ Tartari. In questa provincia sono molte città e castelli, e la più nobil città è Arcingan, la quale ha arcivescovo; l’altre sono Argiron e Darziz. E1 molto gran provincia, e in quella nell’estate sta una parte dell’esercito di Tartari di levante, perché vi trovano buoni pascoli per le lor bestie; ma l’inverno non vi stanno per il gran freddo e neve, perché vi nevica oltre modo e le bestie non vi possono vivere: e però li Tartari si partono l’inverno e vanno verso mezodì per il caldo, per causa di pascoli ed erbe per le sue bestie. E in un castello che si chiama Paipurth è una ricchissima minera d’argento, e trovasi questo castello andando da Trebisonda in Tauris. E nel mezo dell’Armenia maggiore è uno grandissimo e altissimo monte, sopra il quale si dice essersi firmata l’arca di Noè: e per questa causa si chiama il monte dell’arca di Noè, ed è così largo e lungo che non si potria circuire in due giorni, e nella sommità di quello vi si truova di continuo tant’alta la neve che niuno vi può ascendere, perché la neve non si liquefa in tutto, ma sempre una casca sopra l’altra e così accresce. Ma nel descendere verso la pianura, per l’umidità della neve la qual liquefatta scorre giù, talmente il monte è grasso e abondante d’erbe che nell’estate tutte le bestie dalla lunga circonstanti si riducono a stanziarvi, né mai vi mancano; e anco per il discorrere della neve si fa gran fango sopra il monte.

Ne’ confini veramente dell’Armenia verso levante sono queste provincie: Mosul, Meridin, delle quali si dirà di sotto, e ve ne sono molte altre che saria lungo a raccontarle. Ma verso la tramontana è Zorzania, ne’ confini della quale è una fonte dalla qual nasce olio in tanta quantità che molti camelli vi si potrebbono cargare, e non è buono da mangiare, ma da ungere gli uomini e gli animali per la rogna e per molte infirmità, e anco per brusciare. Vengono da parti lontane molti a pigliare questo oglio, e le contrate vicine non brusciano di altra sorte.

Avendosi detto dell’Armenia maggiore, ora diciamo di Zorzania

Capitolo 5

Della provincia di Zorzania e de’ suoi confini sopra il mar Maggiore e sopra il mar Ircano, ora detto di Abaccù, dove è quel passo stretto sopra il qual Alessandro fabricò le porte di ferro; e del miracolo della fontana del monasterio di San Lunardo; della città di Tiflis.

In Zorzania è un re che in ogni tempo si chiama David Melich, che in lingua nostra si dice re David; una parte della qual provincia è soggetta al re de’ Tartari, e l’altra parte (per le fortezze che l’ha) al re David. In questa provincia tutti i boschi sono di legni di bosso, e guarda due mari, uno de’ quali si chiama il mar Maggiore, quale è dalla banda di tramontana, l’altro di Abaccù verso l’oriente, che dura nel suo circuito per duomila e ottocento miglia ed è come un lago, perché non si mischia con alcun altro mare. E in quello sono molte isole con belle città e castelli, parte delle quali sono abitate dalle genti che fuggirono dalla faccia del gran Tartaro, quando l’andava cercando pel regno overo per la provincia di Persia qual città e terre si reggevano per commune, per volerle destruggere: e le genti fuggendo si redussero a queste isole e ai monti, dove credevano star più sicuri; ve ne sono anco di deserte di dette isole. Detto mare produce molti pesci, e specialmente storioni, salmoni alle bocche de’ fiumi e altri gran pesci. Mi fu detto che anticamente tutti i re di quella provincia nascevano con certo segno dell’aquila sopra la spalla destra; e sono in quella belle genti e valorose nel mare, e buoni arcieri e franchi combattitori in battaglia; e sono cristiani che osservano la legge de’ Greci, e portano i capelli corti a guisa di chierici di Ponente.

Questa è quella provincia nella qual il re Alessandro non poté mai intrare quando volse andare alle parti di tramontana, perché la via è stretta e difficile, e da una banda batte il mare, dall’altra sono monti alti e boschi che non vi si può passar a cavallo: ed è molto stretta intra il mare e i monti, di lunghezza di quattro miglia, e pochissimi uomini si difenderebbono contra tutto il mondo. E per questo Alessandro appresso a quel passo fece fabricar muri e gran fortezze, acciò che quelli che abitano più oltre non gli potessero venire a far danno: onde il nome di quel passo dipoi si chiamò Porta di Ferro, e per questo vien detto Alessandro aver serrato i Tartari fra due monti. Ma non è vero che siano stati Tartari, perché a quel tempo non erano, anzi fu una gente chiamata Cumani, e di altre generazioni e sorti.

Sono ancora in detta provincia molte città e castelli, le quali abondano di seta e di tutte le cose necessarie; quivi si lavorano panni di seta e di oro, e vi sono astori nobilissimi, che si chiamano avigi. Gli abitatori di questa regione vivono di mercanzie e delle sue fatiche. Per tutta la provincia sono monti e passi forti e stretti, di modo che li Tartari non gli hanno mai potuto dominare del tutto. Qui è un monasterio intitolato di San Lunardo di monachi, dove vien detto esser questo miracolo, che essendo la chiesa sopra un lago salso che circonda da quattro giornate di camino, in quello per tutto l’anno non appareno pesci, salvo dal primo giorno di quaresima fino alla vigilia di Pasqua della resurrezione del Signore, che ve n’è abondanzia grandissima; e fatt’il giorno di Pasqua, più non appariscono. E chiamasi il lago Geluchalat.

In questo mare di Abaccù mettono capo Herdil, Geichon e Cur, Araz e molti altri grandissimi fiumi; è circondato da monti, e novamente i mercatanti genovesi han cominciato a navigare per quello, e di qui si porta la seta detta ghellie. In questa provincia è una bella città detta Tiflis, circa la quale sono molti castelli e borghi, e in quella abitano cristiani, armeni, giorgiani e alcuni saraceni e giudei, ma pochi. Qui si lavorano panni di seta e di molte altre e diverse sorti; gli uomini vivono dell’arte loro, e sono soggetti al gran re de’ Tartari.

Ed è da sapere che noi solamente scriviamo delle principal città delle provincie due o tre, ma ve ne sono di molte altre, che saria lungo scriverle per ordine se non avessero qualche spezial cosa maravigliosa: ma di quelle che abbiam pretermesse, che si ritrovano ne’ luoghi predetti, più pienamente di sotto si dichiarano. Poi che s’ha detto de’ confini dell’Armenia verso tramontana, ora diciamo degli altri che sono verso mezodì e levante.

Capitolo 6

Della provincia di Moxul, e della sorte di abitanti e popoli curdi, e mercanzie che si fanno.

Moxul è una provincia nella qual abitano molte sorti di genti, una delle quali adorano Macometto, e chiamansi Arabi; l’altra osserva la fede cristiana, non però secondo che comanda la Chiesa, perché falla in molte cose, e sono nestorini, iacopiti e armeni; e hanno un patriarca che chiamano iacolit, il qual ordina arcivescovi, vescovi e abbati, mandandoli per tutte le parti dell’India e al Cairo e in Baldach, e per tutte le bande dove abitano cristiani, come fa il papa romano. E tutti i panni d’oro e di seta che si chiamano mossulini si lavorano in Moxul, e quelli gran mercatanti che si chiamano mossulini, che portano di tutte le spezierie in gran quantità, sono di questa provincia. Ne’ monti della qual abitano alcune genti che si chiamano Curdi, che sono in parte cristiani e nestorini e iacopiti, e in parte saraceni, che adorano Macometto: sono uomini cattivi e di mala sorte, e robbano voluntieri a’ mercatanti. Appresso questa provincia ve n’è un’altra che si chiama Mus e Meridin, nella quale nasce infinito bambagio, del qual si fa gran quantità di boccassini e di molti altri lavori. Vi sono artefici e mercatanti, e tutti sono sottoposti al re dei Tartari.

Avendosi detto della provincia di Moxul, ora narraremo della gran città di Baldach.

Capitolo 7

Della gran città di Baldach overo Bagadet, che anticamente si chiamava Babilonia; e come da quella si navica alla Balsara sopra il mare che chiamano d’India, ancor che sia il sino Persico; e del studio che è in quella di diverse scienzie.

Baldach è una città grande, nella quale era il califa, cioè il pontefice di tutti li saraceni, sì come è il papa di tutti i cristiani. E per mezo di quella corre un gran fiume, per il quale li mercadanti vanno e vengono con le lor mercanzie dal mare dell’India: e la sua lunghezza, dalla città di Baldach fino al detto mare, si computa communemente secondo il corso dell’acque 17 giornate. E li mercatanti che vogliono andare alle parti dell’India navigano per detto fiume ad una città detta Chisi, e de lì partendosi entran in mare; e avanti che si pervenga da Baldach a Chisi, si trova una città detta Balsara, intorno la quale nascono per li boschi li miglior dattali che si trovino al mondo. E in Baldach si trovano molti panni d’oro e di seta, e lavoransi quivi damaschi e velluti, con figure di varii e diversi animali; e tutte le perle che dall’India sono portate nella cristianità per la maggior parte si forano in Baldach. In questa città si studia nella legge di Macometto, in negromanzia, fisica, astronomia, geomanzia e fisionomia. Essa è la più nobile e la maggior città che trovar si possa in tutte quelle parti.

Capitolo 8

Come il califa signor di Baldach fu preso e morto, e del miracolo che intravenne del muovere di uno monte.

Dovete sapere che detto califa signor di Baldach si trovava il maggiore tesoro che si sappia avere avuto uomo alcuno, qual perse miseramente in questo modo. Nel tempo che i signori de’ Tartari cominciorono a dominare, erano quattro fratelli, il maggiore de’ quali, nominato Mongù, regnava nella sedia. E avendo a quel tempo, per la gran potenzia loro, sottoposto al suo dominio il Cattayo e altri paesi circonstanti, non contenti di questi, ma desiderando aver molto più, si proposero di soggiogare tutto l’universo mondo; e però lo divisero in quattro parti, cioè che uno andasse alla volta dell’oriente, un altro alla banda del mezodì, per acquistare paesi, e gli altri alle altre due parti. Ad uno di loro, nominato Ulaù, venne per sorte la parte di mezodì. Costui, ragunato un grandissimo esercito, primo di tutti cominciò a conquistar virilmente quelle provincie, e se ne venne alla città di Baldach del 1250 e, sapendo la gran fortezza di quella, per la gran moltitudine del popolo che vi era, pensò con ingegno più tosto che con forze di pigliarla. Avendo egli adunque da centomila cavalli senza i pedoni, acciò che al califa e alle sue genti che eran dentro della città paressino pochi, avanti che s’appressasse alla città pose occultamente da un lato di quella parte delle sue genti, e dall’altro ne’ boschi un’altra parte, e col resto andò correndo fino sopra le porte. Il califa, vedendo quel sforzo essere di poca gente e non ne facendo alcun conto, confidandosi solamente nel segno di Macometto, si pensò del tutto destruggerla, e senza indugio con la sua gente uscì della città. La qual cosa veduta da Ulaù, fingendo di fuggire lo trasse fino oltre gli arbori e chiusure di boschi dove la gente s’era nascosta, e qui serratoli in mezo gli ruppe, e il califa fu preso insieme con la città. Dopo la presa del qual, fu trovata una torre piena d’oro, il che fece molto maravigliare Ulaù. Dove che, fatto venire alla sua presenza il califa, lo riprese grandemente, perciò che, sapendo della gran guerra che gli veniva adosso, non avesse voluto spendere del detto tesoro in soldati che lo difendessero: e però ordinò che ‘l fosse serrato in detta torre senza dargli altro da vivere, e così il misero califa se ne morì fra il detto tesoro.

Io giudico che il nostro Signor messer Iesù Cristo volesse far vendetta de’ suoi fedeli cristiani, dal detto califa tanto odiati, imperoché del 1225, stando in Baldach detto califa, non pensava mai altro ogni giorno se non con che modo e forma potesse far convertire alla sua legge gli cristiani abitanti nel suo paese, o vero, non volendo, di farli morire. E dimandando sopra di ciò il consiglio de’ savii, fu trovato un punto della scrittura nell’Evangelio che dice così: “Se alcuno cristiano avesse tanta fede quanto è un grano di senapa, porgendo i suoi preghi alla divina Maestà faria muover i monti dal suo luogo”. Del qual punto rallegratosi, non credendo per alcun modo questo essere mai possibile, mandò a chiamare tutti i cristiani, nestorini e iacopiti che abitavano in Baldach, ch’erano in gran quantità, e disse loro: “E1 vero tutto quello che ‘l testo del vostro Evangelio dice?” A cui risposero: “E1 vero”. Disse loro il califa: “Ecco che s’egli è vero qui si proverà la vostra fede. Certamente, se tra voi tutti non è almanco uno il qual sia fedele verso il suo Signore in così poco di fede quanto è un grano di senapa, allora vi riputarò iniqui, reprobi e infidelissimi. Per il che vi assegno dieci giorni, fra li quali o che voi per virtù del vostro Dio farete muovere i monti qui astanti, o vero torrete la legge di Macometto nostro profeta e sarete salvi, o vero non volendo farovvi tutti crudelmente morire”. Quando li cristiani udirono tal parole, sapendo la sua crudel natura, che solo faceva questo per spogliarli delle loro sostanze, dubitarono grandemente della morte; nondimeno, confidandosi nel suo Redentore che gli libereria, si congregorono tutti insieme ed ebbero fra loro diligente consiglio, né trovorno rimedio alcuno se non pregare la Maestà divina che gli porgesse l’aiuto della sua misericordia. Per la qual cosa tutti, così piccoli come grandi, giorno e notte prostrati in terra con grandissime lacrime non attendevano ad altro che a far orazioni al Signore, e così perseverando per otto giorni, ad un vescovo di santa vita fu divinamente rivelato in sogno che andassero a trovar un calzolaio il qual avea solamente un occhio, il cui nome non si sa, che lui comandasse al monte che per la divina virtù dovesse muoversi.

Mandato adunque per il calzolaio, narratoli la divina rivelazione, gli rispose che lui non era degno di quest’impresa, perché i meriti suoi non ricercavan il premio di tanta grazia; nondimeno, facendoli di ciò grande instanzia i poveri cristiani, il calzolaio assentì. E sappiate ch’egli era uomo di buona vita e di onesta conversazione, puro e fedele verso il nostro Signor Iddio: frequentando le messe e i divini officii, attendeva con gran fervore alle limosine e a’ digiuni. Al qual intravenne che, essendo andata a lui una bella giovane per comprarsi un paio di scarpe, e mostrand’il piede per provar quelle, si alzò i panni per modo che gli vidde la gamba, per bellezza della quale si commosse in disonesti pensieri; ma subito ritornato in sé, mandò via la donna e, considerata la parola dell’Evangelio che dice: “Se l’occhio tuo ti scandaleza, cavatelo e gettalo via da te, perché è meglio andar con un occhio in paradiso che con due nell’inferno”, immediate con una delle stecche che adoprava in bottega si cavò l’occhio destro; la qual cosa dimostrò manifestamente la grandezza della sua constante fede.

Venuto il giorno determinato, la mattina a buon’ora, celebrati i divini officii, con grandissima devozione andarono alla pianura dove era il monte, portando avanti la croce del nostro Signore. Il califa similmente, credendo essere cosa vana che i cristiani potessero mandar queste cose ad effetto, volse ancor lui esser presente con gran sforzo di gente per distruggerli e mandarli in perdizione. E quivi il calzolaio, levate le mani al cielo, stando avanti la croce in ginocchioni, umilmente pregò il suo Creatore che pietosamente riguardando in terra, a laude ed eccellenza del nome suo e a fermezza e corroborazione della fede cristiana, volesse porgere aiuto al popolo suo circa il comandamento a loro ingiunto, e dimostrasse la sua virtù e potenza ai detrattori della sua fede. E finita l’orazione con voce alta disse: “In nome del Padre e del Figliuolo e del Spirito Santo, comando a te monte che ti debbi muovere”. Per le qual parole il monte si mosse, con mirabil e spauroso tremor della terra. E il califa e tutti i circonstanti con grandissimo spavento rimasero attoniti e stupefatti, e molti di loro si fecero cristiani, e il califa in occulto confessò esser cristiano, e portò sempre la croce nascosa sotto i panni: la qual dopo morto trovatali adosso, fu causa che non fosse sepolto nell’arca de’ suoi predecessori. E per questa singular grazia concessali da Iddio tutti i cristiani, nestorini e iacopiti da quel tempo in qua celebrano solennemente il giorno che tal miracolo intravenne, digiunando la sua vigilia.

Capitolo 9

Della nobil città di Tauris, che è nella provincia di Hirach, e delli mercatanti e abitanti in quella.

Tauris è una città grande, situata in una provincia nominata Hirach, nella quale sono molte altre città e castelli, ma Tauris è la più nobile e più popolata. Gli abitatori vivono delle mercanzie e arti loro, perché vi si lavora di diverse sorti di panni d’oro e di seta di gran valuta, ed è posta questa città in tal parte che dall’India, da Baldach, da Moxul, da Cremessor e dalle parti de’ cristiani i mercatanti vengono per comprare e vender diverse mercanzie. Quivi si trovano eziandio pietre preziose e perle abbondantemente. Quivi li mercatanti forastieri fanno gran guadagno, ma gli abitatori sono generalmente poveri, e mescolati di diverse generazioni, cioè nestorini, armeni, iacopiti, giorgiani e persi, e le genti che adorano Macometto è il popolo della città, che si chiamano Taurisini e hanno il parlar diverso fra loro. La città è circondata di giardini molto dilettevoli, che producono ottimi frutti. E i saraceni di Tauris sono perfidi e mali uomini, e hanno per la legge di Macometto che tutto quello che tolgono e robbano alle genti che non sono della sua legge sia ben tolto, né gli sia imputato ad alcun peccato, e se i cristiani gli ammazzassero o gli facessero qualche male, sono riputati martiri; e per questa causa, se non fossero proibiti e ritenuti per il suo signore che governa, commetterebbono molti mali. E questa legge osservano tutti i saraceni. E in fine della vita loro va a loro il sacerdote, e dimandali se credono che Macometto sia stato vero nunzio di Dio, e se rispondono che lo credono sono salvi: e per questa facilità di assoluzione, che gli concede il campo largo a commettere ogni sceleraggine, hanno convertito una gran parte de’ Tartari alla sua legge, per la quale non gli è proibito alcun peccato. Da Tauris in Persia sono dodici giornate.

Capitolo 10

Del monasterio del beato Barsamo, che è nelli confini di Tauris.

Ne’ confini di Tauris è un monasterio intitolato il beato Barsamo santo, molto devoto: quivi è uno abbate con molti monachi, i quali portano l’abito a guisa di carmelitani. E questi, per non darsi all’ocio, lavorano continuamente cintole di lana, le quali poi mettono sopra l’altare del beato Barsamo quando si celebrano gli officii. E quando vanno per le provincie cercando (come li frati di San Spirito), donano di quelle alli loro amici e agli uomini nobili, perché sono buone a rimuovere il dolore che alcun avesse nel corpo: e per questo ognuno ne vuole avere per devozione.

Capitolo 11

Del nome di otto regni che sono nella provincia di Persia, e della sorte di cavalli e asini che ivi si truovano.

Nella Persia, qual è una provincia molto grande, vi sono molti regni, i nomi de’ quali sono gli sottoscritti: il primo regno, il quale è in principio, si chiama Casibin; il secondo, qual è verso mezodì, si chiama Curdistan; il terzo Lor, verso tramontana; il quarto Suolistan; il quinto Spaan; il sesto Siras; il settimo Soncara; l’ottavo Timocaim, qual è nel fine della Persia. Tutti questi regni nominati sono verso mezodì, eccetto Timocaim, il quale è appresso l’Arbor Secco verso tramontana. In questi regni sono cavalli bellissimi, molti de’ quali si menano a vendere nell’India, e sono di gran valuta, perché se ne vendono per lire dugento di tornesi, e sono per la maggior parte di questo prezio. Sonvi ancora asini, li più belli e li maggiori che siano al mondo, i quali si vendono molto più che i cavalli, e la ragione è perché mangiano poco e portano gran carghi e fanno molta via in un giorno, la qual cosa né cavalli né muli potriano fare, né sostenire tanta fatica quanta sostengono gli asini sopradetti. Imperoché li mercatanti di quelle parti, andando di una provincia nell’altra, passano per gran deserti e luoghi arenosi dove non si truova erba alcuna, e appresso, per la distanza de’ pozzi e di acque dolci, gli bisogna far lunghe giornate: per tanto adoprano più volentieri quegli asini, perché sono più veloci e corrono meglio e si conducono con manco spesa. Usano ancora i camelli, i quali similmente portano gran pesi e fanno poca spesa; nondimeno non sono così veloci come gli asini. E le genti della sopradetta provincia menano i detti cavalli a Chisi e Ormus e a molte altre città che sono sopra la riviera del mare dell’India, perché vengono comprati quivi e condotti in India, dove sono in grandissimo prezio, nella qual essendo gran caldo non possono durare longamente, essendo nasciuti in paese temperato.

E ne’ sopradetti regni sono genti molto crudeli e omicidiali, imperoché ogni giorno l’un l’altro si feriscono e uccidono, e fariano continovamente gran danni a’ mercanti e a’ viandanti, se non fosse per la paura del signore orientale, il quale severamente gli fa castigare, e ha ordinato che in tutti i passi pericolosi, richiedendo i mercanti, debbano gli abitanti di contrata in contrata dar diligenti e buoni conduttori per tutela e sicurtà loro, e per satisfazione delli conduttori li sia dato per ciascuna soma due o tre grossi, secondo la lunghezza del cammino. Tutti osservano la legge di Macometto. Nelle città di questi regni veramente sono mercanti e artefici in grandissima quantità, e lavorano panni d’oro, di seta e di ciascuna sorte; e quivi nasce il bombagio, ed evvi abondanzia di formento, orzo, miglio e d’ogni sorte biava, vini e di tutti i frutti. Ma potria dir alcuno: i saraceni non bevono vino, per essergli proibito dalla sua legge; si risponde che glosano il testo di quella in questo modo, che se ‘l vino solamente bolle al fuoco, e che si consumi in parte e divenghi dolce, lo possono bere senza rompere il comandamento, perché non lo chiamano dopo più vino, conciosiacosaché, avendo mutato il sapore, muta eziandio il nome del vino.

Capitolo 12

Della città di Iasdi, e de’ lavori di seta che si fanno in quella; e di animali e uccelli che si trovano venendo verso Chiermain.

Iasdi è ne’ confini della Persia, città molto nobile e di gran mercanzia, nella quale si lavorano molti panni di seta, che si chiamano iasdi, quali portano li mercanti in diverse parti. Osservano la legge di Macometto. E quando l’uomo si parte da questa città per andar più oltre, cavalca otto giornate per via piana, nelle quali si truovano solamente tre luoghi dove possino alloggiare, e il cammino è pieno di molti boschi che producono dattali, per li quali si può cavalcare; e vi sono molte cacciagioni d’animali salvatichi, e pernici e quaglie in abondanza, e li mercanti che cavalcano per quelle parti, e altri che si dilettano di cacciagioni di bestie e d’uccelli, vi prendono gran sollazzi. Si truovano ancora asini salvatichi. E nel fine delle dette otto giornate, s’arriva ad un regno che si chiama Chiermain.

Capitolo 13

Del regno di Chiermain, che anticamente si diceva Carmania, e delle pietre turchese, azal e andanico, e de’ lavori d’armi e seta, e de’ falconi; e di una gran discesa che si truova partendosi da quello.

Chiermain è un regno ne’ confini della Persia verso levante, il qual anticamente andava d’erede in erede, ma dopo che ‘l Tartaro lo soggiogò al suo dominio non succedettero gli eredi, anzi il Tartaro vi manda signore secondo il voler suo. In detto regno nascono le pietre che si chiamano turchese, quali si cavano nelle vene de’ monti; si truovano ancora in quelli vene di azzaio e andanico in grandissima quantità. Si lavorano molto eccellentemente in questo regno tutti i fornimenti pertinenti alla guerra, cioè selle, freni, sproni, spade, archi, turcassi, e tutte le sorti d’armi secondo i loro costumi. Le donne e tutte le giovani lavorano similmente con l’ago in drappi di seta e d’oro d’ogni colore uccelli e animali e molte altre varie e diverse imagini, e anco cortine, coltre e cussini per letti di grandi uomini, così bene e con tanto artificio che è cosa maravigliosa a vedere. Ne’ monti di questo regno nascono falconi, li migliori che volino al mondo, e sono minori de’ falconi pellegrini, e rossi nel petto e fra le gambe sotto la coda, e sono tanto veloci che niuno uccello gli può scampare. Partendosi da questo regno si cavalca per otto giornate per pianura, cammino molto sollazzoso e dilettevole per l’abondanza delle pernici e molte cacciagioni, trovando continuamente città e castelli e molte altre abitazioni; e alla fine si truova una gran discesa, per la qual si cavalca due giornate trovando arbori fruttiferi in grandissima quantità. Questi luoghi si abitavano anticamente, ma al presente sono disabitati; quivi nondimeno stanno i pastori per pascer le bestie loro. E da questo regno di Chiermain fin alla discesa predetta, nel tempo dell’inverno vi è così gran freddo, che appena l’uomo si può riparare portando continuamente molte vesti e pelli.

Capitolo 14

Della città di Camandu, che si truova dopo una discesa, e della region di Reobarle, e delli uccelli francolini e buoi bianchi con una gobba; e dell’origine delli Caraunas, che vanno depredando.

Dopo la discesa di questo luogo per le dette due giornate si truova una gran pianura, la qual verso mezodì dura per cinque giornate, nel principio della qual è una città chiamata Camandu, che già fu nobile e grande, ma non è così al presente, perché i Tartari più volte l’hanno destrutta. E la regione si chiama Reobarle, e quella pianura è caldissima e produce frumento, orzo e altre biade. Per le coste de’ monti di detta pianura nascono pomi granati, codogni e molti altri frutti, e pomi d’Adamo, i quali nelle nostre parti fredde non nascono. Ivi sono infinite tortore, per le molte pomelle che vi truovano da mangiare, né li saraceni mai le pigliano, perché le hanno in abominazione. Vi si truovano ancora molti fagiani e francolini, li quali non s’assimigliano alli francolini delle altre contrade, perché sono mescolati di color bianco e negro e hanno li piedi e becco rossi. Vi sono eziandio bestie dissimili dalle altre parti, cioè buoi grandi tutti bianchi che hanno il pelo picciolo e piano, il che avviene per il caldo del luogo, le corna corte e grosse e non acute; hanno sopra le spalle una gobba rotonda alta due palmi, sono bellissimi da vedere, portano gran peso perché sono fortissimi, e quando si dieno cargare si posano a guisa di camelli e poi si levano su. Vi sono ancora castroni di grandezza d’asini, che hanno le code grosse e larghe, di sorte che una pesarà libre trenta e più, e sono grassi e buoni da mangiare.

In questa provincia vi sono molti castelli e città che hanno le mura di terra alte e grosse, e questo per potersi difendere dalli Caraunas, che vanno scorrendo per tutti que’ luoghi depredando il tutto. E acciò che si sappi quello che vuol dire questo nome di Caraunas, dico che fu uno Nugodar, nepote di Zagathai, fratello del gran Can, qual Zagathai signoreggiava la Turchia maggiore. Questo Nugodar, stando nella sua corte, si pensò di voler ancor lui signoreggiare, e però, sentendo che nell’India v’era una provincia chiamata Malabar, sotto ad un re nominato Asidin soldano, la quale non era soggiogata al dominio de’ Tartari, sottrasse circa diecimila uomini, di quelli ch’egli pensava esser peggiori e più crudeli, e con questi partendosi da suo barba Zagathai senza fargli intendere cosa alcuna, passò per Balaxan e per certa provincia chiamata Chesmur, dove perse molte delle sue genti e bestie per le vie strette e cattive; e finalmente entrò nella provincia di Malabar e prese per forza una città detta Dely, e tolse molte altre città circonstanti al detto Asidin, perché li sopravenne alla sprovista. E quivi cominciò a regnare, e li Tartari bianchi cominciorno a mescolarsi con le donne indiane, quali erano negre, e di quelle procreorno figliuoli che furono chiamati Caraunas, cioè meschiati nella lingua loro: e questi son quelli che vanno scorrendo per le contrade di Reobarle e per ciascun’altra come meglio possono. E come vennero in Malabar imparorno l’arti magice e diabolice, con le quali sanno far venir tenebre e oscurar il giorno, di modo che, s’uno non è appresso a l’altro, non si veggono; e ogni volta che vogliono far correrie fanno simil arti, acciò le genti non s’avvegghino di loro. E cavalcano il più delle volte verso le parti di Reobarle, perciò che tutti i mercanti che vengono a negociare in Ormus, fin che s’avisano che venghino i mercanti dalle parti d’India, mandan al tempo del verno i muli e camelli, che si son smagrati per la lunghezza del cammino, alla pianura di Reobarle, dove per l’abondanza dell’erbe debbano ingrassarsi: e questi Caraunas, che attendono a questo, vanno depredando ogni cosa, e prendono gli uomini e vendongli; nondimeno se possono riscatarsi li lascian andare. E messer Marco quasi fu preso una fiata da loro per quell’oscurità, ma egli se ne fuggì ad un castello di Consalmi; de’ sui compagni alcuni furono presi e venduti, altri furono morti.

Capitolo 15

Della città di Ormus, che è posta in isola vicina alla terra sopra il mar dell’India, e della condizione e vento che vi soffia così caldo.

Nel fine della pianura che abbiam detto di sopra, che dura verso mezodì per cinque giornate, si perviene ad una discesa che dura ben venti miglia, ed è via pericolosissima per l’abondanza de’ rubatori che di continuo assaltano e rubbano quelli che vi passano. E quando si giugne al fine di questa discesa, si truova un’altra pianura molto bella, che dura di lunghezza per due giornate e chiamasi pianura di Ormus: ivi sono riviere bellissime e dattali infiniti, e trovansi francolini e papagalli e molti altri uccelli che non s’assomigliano alli nostri. Alla fine si giugne al mare Oceano, dove, sopra un’isola vicina, vi è una città chiamata Ormus, al porto della qual arrivano tutti i mercanti di tutte le parti dell’India con speciarie, pietre preziose, perle, panni d’oro e di seta, denti d’elefanti e molte altre mercanzie, e quivi le vendono a diversi altri mercanti che le conducono poi per il mondo. La città nel vero è molto mercantesca, e ha città e castelli sotto di sé, ed è capo del regno Chermain; e il signore della città si chiama Ruchmedin Achomach, il qual signoreggia per tirannide, ma ubbidisce al re di Chiermain. E se vi muore alcun mercante forestiero, il signor della terra gli toglie tutto il lor avere e riponlo nel suo tesoro. L’estate le genti non abitano nella città, per il gran caldo ch’è causa di mal aere, ma vanno fuori a’ loro giardini, appresso le rive dell’acque e fiumi, dove con certe graticcie fanno solari sopra l’acque, e quelli d’una parte fermano con pali fitti nell’acque e dall’altra parte sopra la riva, e di sopra per difendersi dal sole cuoprono con le foglie, e vi stanno un certo tempo. E dall’ora di meza terza fino mezodì ogni giorno vien un vento dall’arena così estremamente caldo che per il troppo calore vieta all’uomo il respirare, e subito lo soffoca e muore: e da detto vento niuno che si truovi su l’arena può scampare, per la qual cosa, subito che sentono il vento, si mettono nell’acque fin alla barba e vi stanno fin che ‘l cessi.

E in testimonio della calidità di detto vento, disse messer Marco che si trovò in quelle parti quando intravenne un caso in questo modo: che, non avend’il signor d’Ormus pagato il tributo al re di Chiermain, pretendendo averl’al tempo che gl’uomini d’Ormus dimoravano fuori della città nella terra ferma, fece apparecchiare mille e seicento cavalli e cinquemila pedoni, i quali mandò per la contrata di Reobarle per prendergli alla sprovista. E così un giorno, per essere mal guidati, non potendo arrivar al luogo designato per la sopravenente notte, si riposarono in un bosco non molto lontano da Ormus; e la mattina, volendosi partire, il detto vento gl’assaltò e soffocò tutti, di modo che non si trovò alcuno che portasse la nuova al lor signore. Questo sapendo gli uomini d’Ormus, acciò che que’ corpi morti non infettassero l’aere, andorno per sepelirgli, e pigliandogli per le braccie per porgli nelle fosse, erano così cotti pel grandissimo calore che le braccia si lasciavano dal busto, per il che fu di bisogno far le fosse appresso alli corpi e gettargli in quelle.

Capitolo 16

Delle sorti delle navi d’Ormus; e della stagione nella qual nascono i frutti loro, e del viver e costumi degli abitanti.

Le navi d’Ormus sono pessime e pericolose, onde li mercanti e altri spesse volte in quelle pericolano: e la causa è questa, perché non si ficcano con chiodi, per esser il legno col quale si fabricano duro e di materia fragile a modo di vaso di terra, e subito che si ficca il chiodo si ribatte in se medesimo e quasi si rompe; ma le tavole si forano con trivelle di ferro più leggiermente che possono nelle estremità, e dopo vi si mettono alcune chiavi di legno con le quali si serrano, dopo le legano overo cuciono con un filo grosso che si cava di sopra il scorzo delle noci d’India. Le quali sono grandi, e sopra vi sono fili come sete di cavalli, li quali, posti in acqua, com’è putrefatta la sostanza rimangono mondi, e se ne fanno corde con le quali legano le navi, e durano longamente in acqua; alle qual navi non si pone pece per difesa della putrefazione, ma s’ungono con olio fatto di grasso di pesci, e calcasi la stoppa. Ciascuna nave ha un arbor solo e un timone e una coperta, e quando è carica si cuopre con cuori, e sopra i cuori pongono i cavalli che si conducono in India. Non hanno ferri da sorzer, ma con altri lor instrumenti sorzeno, e però con ogni leggier fortuna periscono, per esser molto terribile e tempestoso quel mare.

Quelle genti sono negre e osservano la legge di Macometto. Seminano il frumento, orzo e altre biade nel mese di novembre e le raccolgono il mese di marzo, e così hanno tutti i loro frutti degli altri mesi nel detto mese, eccetto i dattoli, che si raccogliono nel mese di maggio, de’ quali si fa vino con molte altre specie mescolatevi, il qual è molto buono: e se gli uomini che non vi sono assuefatti beono di quello, subito patiscono flusso, ma risanati quel vino molto gli giova e ingrassali. Non usano i nostri cibi, perché se mangiassero pan di frumento e carni subito s’infermarebbono, ma mangiano dattoli e pesci salati, cioè pesci tonni, e cipolle e altre simil cose che si confanno alla sanità loro. In quella terra non si truova erba che duri sopra la terra, salvo che ne’ luoghi acquosi, e questo pel troppo caldo che dissecca ogni cosa. Quando gl’uomini grandi muoiono, le moglie loro gli piangono quattro settimane continue una volta al giorno; ivi si truovano donne ammaestrate nel pianto, le quali si conducono a prezzo, che pianghino ogni giorno sopra gl’altrui morti.

Capitolo 17

Della campagna che si truova partendosi d’Ormus e ritornando verso Chiermain, e del pan amaro per causa dell’acque salse.

Avendosi detto d’Ormus, voglio che lasciamo star il parlare dell’India, la qual sarà descritta in un libro particolare, e che retorniamo di nuovo a Chiermain verso tramontana. E però dico che, partendosi da Ormus e andando verso Chiermain per un’altra strada, si truova una pianura bellissima e abondante d’ogni sorte di vettovaglie: ma il pan di frumento che nasce in quella terra non si può mangiare se non da quelli che vi sono usi per longo tempo, per esser amaro per causa dell’acque, le quali son tutte amare e salse. E da ogni canto si veggono scorrere bagni caldi, molto utili a guarire e sanare molte infermità che vengono agli uomini sopra la persona. Vi sono anco molti dattoli e altri frutti.

Capitolo 18

Come partendosi da Chiermain si va per un deserto di sette giornate alla città di Cobinam, e dell’acque amare che si truovano, e alla fine di un fiume d’acqua dolce.

Partendosi di Chiermain e cavalcando per tre giornate s’arriva a un deserto pel quale si va fino a Cobinam, e dura sette giornate, e ne’ primi tre giorni non si trova salvo che un poco d’acqua: e quella è salsa e verde come l’erba d’un prato, ed è tanto amara che niuno ne può bere, e s’alcuno ne bee pur una gocciola va da basso più di dieci volte, e similmente gli avviene se mangiasse un sol grano di sale che si fa di quell’acqua. E però gli uomini che passano per que’ deserti si portano dietro dell’acqua, ma le bestie ne beono per forza constrette dalla sete, e subito patiscono flusso di corpo. In tutte queste tre giornate non si truova pur un’abitazione, ma tutto è deserto e secco; non vi sono bestie, perché non hanno che mangiare. E nella quarta s’arriva ad un fiume d’acqua dolce, il quale scorre sotto terra, e in alcuni luoghi vi sono certe caverne dirotte e fosse pel scorrere del fiume, per le quali si vede passare, qual poi subito entra sotto terra; nondimeno s’ha abondanza d’acqua, appresso la quale i viandanti, stanchi per l’asprezza del deserto precedente, ricreandosi con le loro bestie si riposano. Nell’ultime tre giornate truovasi come nelle tre precedenti, e nella fine si truova la città di Cobinam.

Capitolo 19

Della città di Cobinam, e delli specchi di acciaio, e dell’andanico, e della tucia e spodio che si fa ivi.

Cobinam è una gran città, la cui gente osserva la legge di Macometto, dove si fanno li specchi d’acciaio finissimo molto belli e grandi. Vi è anco assai andanico, e ivi si fa la tucia, la qual è buona all’egritudine degli occhi, e il spodio, in questo modo: tolgono la terra d’una vena ch’è buona a quest’effetto e la mettono in una fornace ardente, e sopra la fornace sono poste graticcie di ferro molto spesse, e il fumo e l’umor che ne viene ascendendo s’attacca alle graticcie, e raffreddato s’indurisce, e questa è tucia; e il resto di quella terra che rimane nel fuoco, cioè il grosso che resta arso, è il spodio.

Capitolo 20

Come da Cobinam si va per un deserto di otto giornate alla provincia di Timochaim, nelle confine della Persia verso tramontana, e dell’Alboro del Sole, che si chiama l’Alboro Secco, e della forma de’ frutti di quello.

Partendosi da Cobinam si va per un deserto d’otto giornate, nel qual è gran siccità, né vi sono frutti né arbori, e l’acqua è anco amara, onde i viandanti portano seco le cose al vivere necessarie; nondimeno le bestie loro per la gran sete le fanno per forza bere di quell’acqua, imperoché meschiano farina con quell’acqua e bellamente le inducono a bere. E in capo delle otto giornate si trova una provincia nominata Timochaim, la qual è posta verso tramontana ne’ confini della Persia, nella quale sono molte città e castelli. Vi è ancora una gran pianura nella quale v’è l’Alboro del Sole, che si chiama per i cristiani l’Albor Secco, la qualità e condizione del quale è questa: è un arbore grande e grosso, le cui foglie da una parte son verdi, dall’altra bianche, il quale produce ricci simili a quei delle castagne, ma niente è in quelli, e il suo legno è saldo e forte, di color giallo a modo di busso; e non v’è appresso arbor alcuno per spazio di cento miglia se non da una banda, dalla qual vi sono arbori quasi per dieci miglia, e dicono gli abitanti in quelle parti che quivi fu la battaglia tra Alessandro e Dario. Le città e castelli abondano di tutte le belle e buone cose, perché quel paese è d’aere non molto caldo né molto freddo, ma temperato. La gente osserva la legge di Macometto; sono in quelle belle genti, e specialmente donne, le qual a mio giudicio sono le più belle del mondo.

Capitolo 21

Del Vecchio della Montagna, e del palagio fatto far per lui, e come fu preso e morto.

Detto di questa contrata, ora dirassi del Vecchio della Montagna. Mulehet è una contrada nella quale anticamente soleva stare il Vecchio detto della Montagna, perché questo nome di Mulehet è come a dire luogo dove stanno li eretici nella lingua saracena; e da detto luogo gli uomini si chiamano mulehetici, cioè eretici della sua legge, sì come, appresso li cristiani, patarini. La condizion di questo Vecchio era tale, secondo che messer Marco affermò aver inteso da molte persone: ch’egli avea nome Aloadin ed era macomettano, e avea fatto far in una bella valle serrata fra due monti altissimi un bellissimo giardino, con tutti i frutti e arbori che aveva saputo ritrovare, e d’intorno a quelli diversi e varii palagi e casamenti, adornati di lavori d’oro e di pitture e fornimenti tutti di seta. Quivi per alcuni piccioli canaletti che rispondevan in diverse parti di questi palagi si vedeva correr vino, latte e melle e acqua chiarissima, e vi avea posto ad abitar donzelle leggiadre e belle, che sapean cantar e sonar d’ogni instrumento e ballar, e sopra tutto ammaestrate a far tutte le carezze e lusinghe agli uomini che si possin imaginare. Queste donzelle, benissimo vestite d’oro e di seta, si vedevan andar sollazzando di continuo per il giardino e per i palagi, perché quelle femine che l’attendevano stavan serrate e non si vedevano mai fuori all’aere.

Or questo Vecchio avea fabricato questo palagio per questa causa, che, avendo detto Macometto che quelli che facevano la sua volontà anderiano nel paradiso, dove troverian tutte le delicie e piaceri del mondo, e donne bellissime, con fiumi di latte e melle, lui voleva dar ad intendere ch’egli fosse profeta e compagno di Macometto, e potesse far andar nel detto paradiso chi egli voleva. Non poteva alcun entrare in questo giardino, perché alla bocca della valle vi era fatto un castello fortissimo e inespugnabile, e per una strada secreta si poteva andare dentro. Nella sua corte detto Vecchio teneva giovani da 12 fino a 20 anni, che li pareva essere disposti alle armi e audaci e valenti degli abitanti in quelle montagne, e ogni giorno gli predicava di questo giardino di Macometto, e come lui poteva fargli andar dentro. E quando li pareva faceva dar una bevanda a dieci o dodici de’ detti giovani, che gli addormentava, e come mezi morti li faceva portar in diverse camere de’ detti palagi; e quivi, come si risvegliavano, vedevan tutte le sopradette cose, e a ciascuno le donzelle eran intorno cantando, sonando e facendo tutte le carezze e solazzi che si sapevan imaginare, dandoli cibi e vini delicatissimi, di sorte che quelli, imbriacati da tanti piaceri e dalli fiumicelli di latte e vino che vedevano, pensavano certissimamente essere in paradiso e non s’averian mai voluto partire.

Passati quattro o cinque giorni, di nuovo li faceva addormentare e portar fuori, e quelli fatti venir alla sua presenza, gli dimandava dove eran stati, quali dicevano: “Per grazia vostra, nel paradiso”, e in presenza di tutti raccontavano tutte le cose che aveano veduto, con estremo desiderio e admirazione di chi gli ascoltavano. E il Vecchio gli rispondeva: “Questo è il comandamento del nostro profeta, che chi difende il signor suo gli fa andar in paradiso, e se tu sarai obediente a me tu averai questa grazia”, e con tal parole gli avea così inanimati che beato si reputava colui a cui il Vecchio comandava ch’andasse a morire per lui. Di sorte che quanti signori overo altri che fossero inimici del detto Vecchio, con questi seguaci e assassini erano uccisi, perché niuno temeva la morte, pur che facessero il comandamento e volontà del detto Vecchio, e s’esponevano ad ogni manifesto pericolo disprezzando la vita presente: e per questa causa era temuto in tutti quei paesi come un tiranno, e avea constituito due suoi vicarii, uno alle parti di Damasco, l’altro in Curdistana, che osservano il medesimo ordine con li giovani che gli mandava; e per grand’uomo che si fosse, essendo inimico del detto Vecchio, non poteva campare che non fosse ucciso.

Era detto Vecchio sottoposto alla signoria di Ulaù, fratello del gran Can, qual, avendo inteso delle sceleratezze di costui (perché oltre le cose sopradette faceva rubbar tutti quelli che passavan per il suo paese), nel 1262 mandò un suo esercito ad assediarlo nel castello, dove stette anni tre che non li poterno far cosa alcuna; al fine, mancandogli le vettovaglie, fu preso e morto, e spianato il castello e il giardino del paradiso.

Capitolo 22

D’una pianura abondante di sei giornate, e poi d’un deserto d’otto, che si passa per arrivare alla città di Sapurgan; e delle buone pepone che vi sono, le qual fatte in coreggie seccano.

Partendosi da questo castello, si cavalca per una bella pianura e per valli e colline, dove sono erbe e pascoli e molti frutti in grande abondanza (e per questo l’esercito d’Ulaù vi dimorò volentieri): e dura questa contrata per spazio ben di sei giornate. Qui sono città e castelli, e li uomini osservano la legge di Macometto. Dipoi s’entra in un deserto che dura quaranta miglia e cinquanta, dove non è acqua, ma bisogna che gli uomini la portino seco, e le bestie mai non beono fino che non son fuori di quello, il quale è necessario di passar con gran prestezza perché poi trovan acqua. E cavalcato che s’è le dette sei giornate, s’arriva ad una città detta Sapurgan, la qual è abondantissima di tutte le cose necessarie al vivere, e sopra tutto delle miglior pepone del mondo, le quali fanno seccare in questo modo: le tagliano tutte a torno a torno a modo di correggie, sì come si fanno delle zucche, e poste al sole le seccano, e poi le portano a vendere alle terre prossime per gran mercanzia, e ognuno ne compra perché son dolci come mele. Sono in quella cacciagioni di bestie e d’uccelli.

Ora lasciasi questa città e dirassi d’un’altra, che si truova passando la sopradetta, chiamata Balach, la quale è città nobile e grande, ma più nobile e più grande fu già, perciò che li Tartari, facendoli molte volte danno, l’hanno malamente trattata e rovinata: e già furono in quella molti palagi di marmo e corti, e sonvi ancora, ma distrutti e guasti. In questa città dicono gli abitanti che Alessandro tolse per moglie la figliuola del re Dario, i quali osservano la legge di Macometto. E fino a questa città durano li confini della Persia fra greco e levante, e partendosi dalla sopradetta città si cavalca per due giornate tra levante e greco, nelle quali non si truova abitazione alcuna, perché le genti se ne fuggono alli monti e alle fortezze, per paura di molte male genti e de’ ladri che vanno scorrendo per quelle contrade facendoli gran danni. Vi sono molte acque e molte cacciagioni di diversi animali, e vi sono anco de’ leoni. Vettovaglie non si truovano in questi monti per dette due giornate, ma bisogna che quelli che passano se le portino seco per loro e per li suoi cavalli.

Capitolo 23

Del castello detto Thaican, e de’ monti del sale, e de’ costumi degli abitanti.

Poi che s’è cavalcato le dette due giornate, si truova un castello detto Thaican, nel quale è un grandissimo mercato di biade, però ch’egli è posto in un bello e grazioso paese. I suoi monti verso mezodì sono grandi e alti, alcuni de’ quali sono d’un sale bianco e durissimo, e li circonstanti per trenta giornate ne vengono a torre, perché egli è il miglior che sia in tutto ‘l mondo; ma è tanto duro che non se ne può torre se non rompendolo con pali di ferro, e ve n’è in tanta copia che tutto ‘l mondo si potria fornire. Gli altri monti sono abondanti di mandole e pistacchi, de’ quali si ha grandissimo mercato. E partendosi dal detto castello, si va per tre giornate fra greco e levante, sempre trovando contrade bellissime, dove sono molte abitazioni abondanti de frutti, biade e vigne. Gli abitatori osservano la legge di Macometto, e sono micidiali, perfidi e maligni, e attendono molto alle crapole e bere, perché hanno buon vino cotto. In capo non portano cosa alcuna, se non una cordella di dieci palmi, con la quale circondano il capo. Sono ancora buoni cacciatori e prendono assai bestie salvatiche, e non portano altre vesti se non delle pelli di quelle che uccideno, delle quali acconcie se ne fanno fare vesti e scarpe.

Capitolo 24

Della città di Scassem, e de’ porci spinosi che ivi si truovano.

Dopo il cammino di tre giornate si truova una città nominata Scassem, qual è d’un conte, e sono altre sue città e castelli ne’ monti. Per mezo di questa città corre un fiume assai ben grande. Ivi sono porci spinosi, contra i quali come il cacciatore instiga i cani, immediate si reducono insieme e con gran furia tirano le spine agli uomini e ai cani, e gli feriscono con le spine che hanno sopra la pelle. Gli abitanti han lingua per sé, e li pastori che hanno bestie abitano in que’ monti, in alcune caverne che da loro medesimi s’hanno fatte; il che possono far facilmente, perché i monti sono di terra e non sassosi.

E quando si parte dalla città sopradetta, si va per tre giornate che non si truova abitazione alcuna né cosa pel viver de’ viandanti, salvo che acqua, ma per li cavalli si truovano erbe sufficientemente: per il che gli viandanti si portano seco le cose necessarie. In capo veramente di tre giornate si truova una provincia detta Balaxiam.

Capitolo 25

Della provincia di Balaxiam, e delle pietre preziose, detti balassi, che ivi si cavano, le qual sono tutte del re; e de’ cavalli e falconi che si truovano, e dell’aer eccellente e sano che è nelle sommità d’alcuni monti; e de’ vestimenti che portano le donne per parer belle.

Balaxiam è una provincia le cui genti osservano la legge macomettana e hanno parlare da sé; e certamente è gran regno, che per longhezza dura ben 12 giornate. Reggesi per successione d’eredità, cioè tutti i re sono d’una progenie, la qual discese dal re Alessandro e dalla figliuola di Dario, re de’ Persiani: e tutti quei re si chiamano Zulcarnen, che vuol dire Alessandro. Quivi si trovano quelle pietre preziose che si chiamano balassi, molto belli e di gran valuta, e nascono ne’ monti grandi. Ma questo però è in un monte solo, il qual si chiama Sicinan, nel qual il re fa far caverne simili a quelle dove si cava l’argento e l’oro, e a questo modo truovano queste pietre; né alcun altro salvo che ‘l re può farne cavare, sotto pena della vita, se di special grazia per il re non viene concesso. E qualche volta ne dona ad alcuni gentiluomini che passano di là, qual non possono comprarne da altri né portarne fuori del suo regno senza sua licenza: e questo fa egli perché vuole che i suoi balassi per onor suo siano di maggior valuta e tenuti più cari, perché, se ciascuno a suo piacere li potesse cavare o comprare e portar fuori, trovandosene in tanta copia verrebbono a vilissimo prezzo. E però il re dona di quelli ad alcuni re e prencipi per amore, ad alcuni ne dà per tributo, e anco ne cambia per oro: e questi si possono trarre per altre contrade. Si trovano similmente monti nelli quali vi è la vena delle pietre delle qual si fa l’azzurro, il migliore che si truovi nel mondo, e vene che producono argento, rame e piombo in grandissima quantità. E1 provincia certamente fredda.

Ivi ancora nascono buoni cavalli, che sono buoni corridori, e hanno l’unghie de’ piedi così dure che non hanno bisogno di portar ferri: e gli uomini corrono con quelli per le discese de’ monti, dove altre bestie non potriano correre né avrebbono ardire di corrervi. E gli fu detto che non era passato molto tempo che si trovavano in questa provincia cavalli ch’erano discesi dalla razza del cavallo d’Alessandro, detto Bucefalo, i quali nascevano tutti con un segno in fronte, e n’era solamente la razza in poter d’un barba del re; qual, non volendo consentir che ‘l re ne avesse, fu fatto morire da quello, e la moglie per dispetto della morte del marito distrusse la detta razza, e così s’è perduta. Oltre di ciò, ne’ monti di quella provincia nascono falconi sacri, che sono molto buoni e volano bene, e similmente falconi laneri, astori perfetti e sparavieri. Sono gli abitanti cacciatori di bestie e uccellatori; hanno buon frumento, e vi nasce l’orzo senza scorza. Non hanno olio di olivo, ma lo fanno di noci e di susimano, il quale è simile alle semenze di lino, ma quelle del susiman sono bianche, e l’olio è migliore e più saporito di qualunque altro olio, e l’usano i Tartari e altri abitanti in quelle parti.

In questo regno sono passi molto stretti e luoghi molto forti, di modo che non temono d’alcuna persona che possa entrar nelle loro terre per far lor danno. Gli uomini sono buoni arcieri e ottimi cacciatori, e quasi tutti si vestono di cuori di bestie, perché hanno carestia dell’altre veste. In quei monti abondano montoni infiniti, e vanno alle volte in un gregge quattrocento, cinquecento e seicento, e tutti sono salvatichi, e se ne prendono molti né mai mancano. La proprietà di quei monti è tale che sono altissimi, di modo che un uomo ha che fare dalla mattina insino alla sera a poter ascendere in quelle sommità, nelle quali vi sono grandissime pianure e grande abondanza d’erbe, e arbori, e fonti grandi di purissime acque, che discorrono a basso per quei sassi e rotture. In detti fonti si trovano temali e molti altri pesci delicati, e l’aere è così puro in quelle sommità e l’abitarvi così sano, che gli uomini che stanno nella città e nel piano e valli, come si sentono assaltar dalla febre di ciascuna sorte o d’altra infirmità accidentale, immediate ascendono il monte e stanvi due o tre giorni e si ritrovano sani, per causa dell’eccellenza dell’aere: e messer Marco affermò averlo provato, perciò che ritrovandosi in quelle parti stette ammalato circa un anno, e subito che fu consigliato d’andar sopra detto monte si risanò.

Le donne di questo luogo grande e onorevole si fanno dalla cintura in giù veste a modo di braghesse, e mettono in quelle secondo le sue facoltà chi cento, chi ottanta, chi sessanta braccia di bambasina, e le fanno increspate: e questo acciò che paiano più grosse nelle parti dalla cinta in giù, però che i suoi mariti si dilettano di donne che abbino quelle parti grosse, e quelle che l’han maggiori vengono riputate più belle.

Capitolo 26

Della provincia di Bascià, che è verso mezodì, e come gli abitanti portano molti lavori d’oro all’orecchie, e costumi loro.

Partendosi da Balaxiam e cavalcando verso mezodì per dieci giornate, si truova una provincia detta Bascià, gli uomini della qual hanno il parlar da per sé e adorano gl’idoli, e sono genti brune, e molto esperti nell’arte magica, e di continuo attendono a quella. Portano all’orecchie circoli d’oro e d’argento pendenti, con perle e pietre preziose, lavorati con grande artificio. Sono genti perfide e crudeli e astute secondo i costumi loro. La provincia è in luogo molto caldo. Il viver loro sono carne e risi.

Capitolo 27

Della provincia di Chesmur, che è verso sirocco, e degli abitanti, che sanno l’arte magica; e come sono vicini al mare dell’India, e della sorte di eremiti che son ivi, e vita loro di grand’astinenzia.

Chesmur è una provincia ch’è distante da Bascià per sette giornate, la cui gente ha il parlar da sua posta; e sanno l’arte magica sopra tutti gli altri, di sorte che constringono gl’idoli, che sono muti e sordi, a parlare, fann’oscurar il giorno e molte altre cose maravigliose, e sono il capo di tutti quelli ch’adorano gl’idoli, e da loro discesero gl’idoli. Da questa contrata si può andar al mare degl’Indiani. Gli uomini di questa provincia sono bruni e non del tutto negri, e le donne, ancor che siano brune, sono però bellissime. Il viver loro è carne, riso e altre cose simili; nondimeno sono magri. La terra è calda temperatamente, e in quella provincia sono di molte altre città e castelli. Sonvi ancora boschi e luoghi deserti e passi fortissimi, di modo che gli uomini di quella contrada non hanno paura di persona alcuna che li vada ad offendere; il re loro non è tributario d’alcuno. Hanno eremiti secondo la loro consuetudine, i quali stanno ne’ suoi monasterii, e sono molto astinenti nel mangiare e bere e osservano grandissima castità, e guardansi grandemente dalli peccati, per non offender li lor idoli ch’adorano, e vivono longo tempo. Di questa tal sorte di uomini vi sono abbazie e molti monasterii, e da tutt’il popolo gli viene portata gran riverenzia e onore. E gli uomini di quella provincia non uccidono animali né fanno sangue, e se vogliono mangiare carne è necessario che li saraceni, che sono mescolati tra loro, uccidano gli animali. Il corallo che si porta dalla patria nostra in quelle parti si spende per maggior prezzo che in alcun’altra parte.

Se io volessi andar seguendo alla dritta via intrarei nell’India, ma ho deliberato di scriverla nel terzo libro, e per tanto ritornarò alla provincia Balaxiam, per la quale si drizza il camino verso il Cataio tra levante e greco, trattando come s’è cominciato delle provincie e contrate che sono nel viaggio, e dell’altre che vi sono a torno a destra e a sinistra confinanti con quelle.

Capitolo 28

Della provincia di Vochan, dove si va ascendendo per tre giornate fino sopra un grandissimo monte, e de’ montoni che son ivi; e come il fuoco che si fa in quell’altezza non ha la forza che ha nel piano; e degli abitanti, che sono come salvatichi.

Partendosi dalla provincia di Balaxiam e caminando per greco e levante, si truovano sopra la ripa d’un fiume molti castelli e abitazioni, che sono del fratello del re di Balaxiam; e passate tre giornate s’entra in una provincia che si chiama Vochan, la qual tien per longhezza e larghezza tre giornate: e le genti di quella osservano la legge di Macometto, e hanno parlar da per sé, e sono uomini d’approbata vita e valenti nell’arme. Il loro signore è un conte che è soggetto al signore di Balaxiam. Hanno bestie e uccellatori d’ogni maniera.

E partendosi da questa contrata si va per tre giornate tra levante e greco sempre ascendendo per monti, e tanto s’ascende che la sommità di quei monti si dice esser il più alto luogo del mondo. E quando l’uomo è in quel luogo truova fra due monti un gran lago, dal qual per una pianura corre un bellissimo fiume: e in quella sono i migliori e i più grassi pascoli che si possino trovare, dove in termine di dieci giorni le bestie (siano quanto si voglian magre) diventano grasse. Ivi è grandissima moltitudine d’animali salvatichi, e specialmente montoni grandissimi, che hanno le corna alla misura di sei palmi e almanco quattro o tre, delle qual li pastori fanno scodelle e vasi grandi dove mangiano, e con quelli serrano anco i luoghi dove tengono le lor bestie; e gli fu detto che vi sono lupi infiniti che uccidono molti di quei becchi, e che si trova tanta moltitudine di corna e ossa, che di quelli atorno le vie si fanno gran monti per mostrar alli viandanti la strada che passano al tempo della neve. E si cammina per dodici giornate per questa pianura, la qual si chiama Pamer, e in tutto questo cammino non si truova alcuna abitazione, per il che bisogna che i viandanti portino seco le vettovaglie. Ivi non appare sorte alcuna d’uccelli, per l’altezza de’ monti, e gli fu affermato per miracolo che per l’asprezza del freddo il fuoco non è così chiaro come negli altri luoghi, né si può ben con quello cuocere cosa alcuna.

Poi che si ha cavalcato le dette dodici giornate, bisogna cavalcare circa quaranta giornate pur verso levante e greco, continuamente per monti, coste e valli, passando molti fiumi e luoghi deserti, ne’ quali non si truova abitazione né erba alcuna, ma bisogna che li viandanti portino seco da vivere: e questa contrada si chiama Beloro. Nelle sommità di quei monti altissimi vi abitano uomini che sono idolatri e come salvatichi, quali non vivono d’altro che di cacciagioni di bestie, si vestono di cuori e sono genti inique.

Capitolo 29

Della città di Cascar, e delle mercanzie che fanno gli abitanti.

Dopo si perviene a Cascar, che (come si dice) già fu reame, ma ora è sottoposto al dominio del gran Can, le cui genti osservano la legge di Macometto. La provincia è grande, e in quella sono molte città e castella, delle quali Caschar è la più nobile e maggiore; sono tra levante e greco. Gli abitanti di questa provincia hanno parlar da per sé, vivono di mercanzie e arti, e specialmente de’ lavorieri di bambagio. Hanno belli giardini e molte possessioni fruttifere e vigne; vi nasce bambagio in grandissima quantità, lino e canevo. La terra è fertile e abondante di tutte le cose necessarie. Da questa contrata si partono molti mercanti che vanno pel mondo, e nel vero sono genti avare e misere, perché mangiano male e peggio bevono. Oltre li macomettani vi abitan alcuni cristiani nestorini, che hanno la loro legge e chiese. E la sopradetta provincia è di longhezza di cinque giornate.

Capitolo 30

Della città di Samarchan, e del miracolo della colonna nella chiesa di San Giovan Battista.

Samarchan è una città nobile, dove sono bellissimi giardini e una pianura piena di tutti i frutti che l’uomo può desiderare. Gli abitanti parte son cristiani e parte saraceni, e sono sottoposti al dominio d’un nepote del gran Can, del qual non è però amico, anzi è di continuo fra loro inimicizia e guerra. Ed è posta la detta città verso il vento maestro. E in questa città gli fu detto esser accaduto un miracolo, in questo modo: che già anni cento e venticinque uno nominato Zagathai, fratello germano del gran Can, si fece cristiano, con grand’allegrezza de’ cristiani abitanti, quali col favor del signore fecero fabricar una chiesa in nome di s. Giovan Battista: e fu fatta con tal artificio che tutt’il tetto di quella (ch’era ritonda) si fermava sopra una colonna ch’era in mezzo, e di sotto di quella vi metterono una pietra quadra, la quale tolsero col favor del signore d’un edificio de’ saraceni, li quali non ebbero ardimento di contradirgli per paura. Ma, venuto a morte Zagathai, gli successe un suo figliuolo qual non volse esser cristiano, e allora i saraceni impetrorno da lui che li cristiani li restituissero la lor pietra; la qual ancor che i cristiani s’offerissero di pagarla, non volsero, percioché pensavano che, levandola via, la chiesa dovesse rovinare: per la qual cosa li cristiani dolenti ricorsero a raccomandarsi al glorioso S. Giovanni, con grande lacrime e umiltà. E venuto il giorno nel quale doveano restituire la detta pietra, per intercession del santo, la colonna si levò alta dalla base della detta pietra per palmi tre in aere, che facilmente si poteva levar via la pietra de’ saraceni senza che gli fosse posto sostentamento alcuno, e così fin al presente si vede detta colonna senz’alcuna cosa sotto.

Si è detto a bastanza di questo, dirassi della provincia di Carchan.

Capitolo 31

Della città di Carchan, dove gli uomini hanno le gambe grosse e il gosso nella gola.

Di qui partendosi si vien nella provincia di Carchan, la cui longhezza dura cinque giornate. Le genti osservano la legge di Macometto, e vi sono alcuni cristiani nestorini, e sono soggetti al dominio del sopradetto nepote del gran Can. Sono copiosi delle cose necessarie, e massimamente di bambagio. Gli abitanti sono grandi artifici, e hanno per la maggior parte le gambe grosse e un gran gosso nella gola, il che avviene per la proprietà dell’acque che bevono. E in questa provincia altro non v’è degno di memoria.

Capitolo 32

Della città di Cotam, e abondanza d’ogni cosa necessaria al vivere.

Dopo si perviene alla provincia di Cotam, fra greco e levante, la cui longhezza è otto giornate, ed è subdita al gran Can, e quelle genti osservano la legge di Macometto. Sono in essa molte città e castelli, e la più nobil città, e dalla quale il regno ha tolto il nome, è Cotam, la quale è abondantissima di tutte le cose necessarie al vivere umano. Vi nasce bambagio, lino e canevo, biada e vino e altro. Gli abitanti hanno vigne, possessioni e molti giardini; vivono di mercanzie e d’arti, e non sono uomini da guerra.

Si è detto di questa provincia, dirassi d’un’altra detta Peym.

Capitolo 33

Della provincia di Peym, e delle pietre calcedonie e diaspri che si truovano in un fiume; e della consuetudine che hanno di maritarsi di nuovo ogni fiata che vogliono.

Peym è una provincia la cui longhezza è di cinque giornate tra levante e greco, le cui genti sono macomettane e soggette al gran Can. Vi son molte città e castella, ma la più nobile si chiama Peym; per quella discorre un fiume, nel qual si truovano molte pietre di calcedonii e diaspri. Sono in questa provincia tutte le cose necessarie; ivi ancor nasce il bambagio. Gli uomini vivono d’arti e di mercanzie, e hanno questo brutto costume, che se la donna ha marito al qual accada andar ad altro luogo dove abbia a stare per venti giorni, la donna, secondo la loro consuetudine, subito può torre un altro marito, s’ella vuole; e gli omini ovunque vadano similmente si maritano.

E tutte le provincie sopradette, cioè Caschar, Cotam, Peym, fino alla città di Lop, sono comprese nelli termini della gran Turchia. Seguita della provincia Ciarcian.

Capitolo 34

Della provincia di Ciarcian, e delle pietre di diaspri e calcedonii che si trovano ne’ fiumi e sono portati in Aucata; e come gli abitanti fuggono ne’ deserti quando passa l’esercito de’ Tartari.

Ciarcian è una provincia della gran Turchia, tra greco e levante; già fu nobile e abondante, ma da’ Tartari è stata destrutta. Le sue genti osservano la legge di Macometto. Sono in detta provincia molte città e castelli, ma la città maestra del regno è Ciarcian. Vi sono molti fiumi grossi, ne’ quali si trovano molti diaspri e calcedonei che si portano fino ad Ouchah a vendere, e di quelli ne fanno gran mercanzia, per esservene gran copia. Da Peym fino a questa provincia e anco per essa è tutta arena, e sonvi molte acque triste e amare, e in pochi luoghi ve n’è di dolci e buone. E quando avviene che qualche esercito de’ Tartari, così d’amici come di nemici, passa per quelle parti, se sono nemici depredano tutti i suoi beni, e se sono amici uccidono e mangiano tutte le loro bestie: e però, quando sentono che deono passare, subitamente con le mogli, co’ figliuoli e bestie fuggon nell’arena per due giornate, a qualche luogo dove siano buone acque e che possono vivere. E sappiate che, quando raccogliono le lor biade, le ripongono lontano dalle abitazioni in quelle arene, in alcune caverne, per paura degli eserciti, e d’indi riportano le cose necessarie a casa di mese in mese; né altri ch’essi conoscono que’ luoghi, né mai alcuno può sapere dove vadano, perché soffiando il vento subito cuopre le loro pedate con l’arena.

E poi, partendosi da Ciarcian, si va per cinque giornate per l’arena, dove sono cattiv’acque e amare, e in alcuni luoghi sono buone e dolci, ma non vi sono altre cose che siano da dire. E al fine delle cinque giornate si trova una città detta Lop, la quale confina col gran deserto.

Capitolo 35

Della città di Lop e del deserto ch’è vicino; delle cose mirabili che sentono passando per quello.

Lop è una città dalla qual partendosi s’entra in un gran deserto, il qual similmente si chiama Lop, posto fra greco e levante; e la città è del gran Can, le cui genti osservano la legge di Macometto. E quelli che vogliono passar il deserto riposano in questa città per molti giorni, per preparar le cose necessarie per il cammino, e cargati molti asini forti e camelli di vettovaglie e mercanzie, se le consumano avanti che possino passarlo, ammazzano gli asini e camelli e li mangiano; ma menano per il più li camelli, perché portano gran cariche e sono di poco cibo. E le vettovaglie deono essere per un mese, perché tanto stanno a passarlo per il traverso, perché alla lunga saria quasi impossibile a poterlo passare, non potendosi portare vittuaria a sofficienza, per la longhezza del cammino, che dureria quasi un anno. E in queste trenta giornate sempre si va per pianura d’arena e per montagne sterili, e sempre in capo di ciascuna giornata si truova acqua, non già a bastanza per molta gente, ma per cinquanta overo cento uomini con le loro bestie: e in tre overo quattro luoghi si truova acqua salsa e amara, e tutte l’altre acque sono buone e dolci, che sono circa ventotto. In questo deserto non abitano bestie né uccelli, perché non vi truovano da vivere.

Dicono per cosa manifesta che nel detto deserto v’abitano molti spiriti, che fanno a’ viandanti grandi e maravigliose illusioni per fargli perire, perché a tempo di giorno, s’alcuno rimane adietro o per dormire o per altri suoi necessarii bisogni, e che la compagnia passi alcun colle che non lo possino più vedere, subito si sentono chiamar per nome e parlare a similitudine della voce de’ compagni, e credendo che siano alcun di quelli vanno fuor del camino, e non sapendo dove andare periscono. Alcune fiate di notte sentiranno a modo d’impeto di qualche gran cavalcata di gente fuor di strada, e credendo che siano della sua compagnia se ne vanno dove senton il romore, e fatt’il giorno si truovan ingannati e capitano male. Similmente di giorno, s’alcun rimane adietro, gli spiriti appariscono in forma di compagni e lo chiaman per nome e lo fann’andar fuor di strada. E ne son stati di quelli che, passando per questo deserto, hanno veduto un esercito di gente che gli veniva incontro, e dubitando che vogliano rubbarli s’hanno messo a fuggire, e lasciata la strada maestra, non sapendo più in quella ritornare, miseramente sono mancati dalla fame. E veramente sono cose maravigliose e fuor d’ogni credenza quelle che vengono narrate che fanno questi spiriti in detto deserto, che alle fiate per aere fanno sentire suoni di varii e diversi instrumenti di musica e similmente tamburi e strepiti d’arme: e però costumano d’andar molto stretti in compagnia, e avanti che comincino a dormire mettono un segnale verso che parte hanno da camminare, e a tutti li loro animali legano al collo una campanella, qual sentendosi non li lascia uscire di strada; e con grandi travagli e pericoli è di bisogno di passar per detto deserto.

Capitolo 36

Della provincia di Tanguth e della città di Sachion, e de’ costumi quando nasce loro un figliuolo, e del modo come abbruciano li corpi de’ morti.

Quando s’è cavalcato queste trenta giornate pel deserto, si truova una città detta Sachion, la qual è del gran Can, e la provincia si chiama Tanguth. E adorano gl’idoli, e vi sono turchi e alcuni pochi cristiani nestorini e anco saraceni, ma quelli che adorano gli idoli hanno linguaggio da per sé. La città è tra levante e greco. Non sono genti che vivino di mercanzie, ma delle biade e frutti che raccogliono delle lor terre. Oltre di ciò hanno molti monasterii e abbazie, che sono piene d’idoli di diverse maniere, alli quali sacrificano e onorano con grandissima riverenza. E come nasce lor un figliuolo maschio, lo raccomandan ad alcun de’ detti idoli, ad onor del quale nutriscono un montone in casa quell’anno, in capo del quale, quando vien la festa del detto idolo, lo conducono avanti di quello insieme col figliuolo: dove sacrificano il montone, e cotte le carni gliele lasciano per tanto spazio fino che compino le lor orazioni, nelle quali pregano gl’idoli che conservino il lor figliuolo in sanità, e dicono ch’essi idoli fra questo spazio hanno succiato tutta la sostanza overo sapore delle carni. Fatto questo portano quelle carni a casa, e congregati i parenti e amici con grand’allegrezza e riverenza le mangiano, e salvano tutte l’ossa in alcuni belli vasi; e li sacerdoti degl’idoli hanno il capo, li piedi, gl’interiori e la pelle e qualche parte della lor carne.

Similmente questi idolatri nella lor morte osservano questo costume, che quando manca alcun di loro che sia di condizione, che gli vogliono abbruciar il corpo, li parenti mandan a chiamare gli astrologhi e li dicono l’anno, il giorno e l’ora che ‘l morto nacque; quali, poi ch’hanno veduto sotto che constellazione, pianeta e segno egli era nato, dicono in tal giorno die’ esser abbruciato. E s’allora quel pianeta non regna, fanno ritener il corpo tal volta una settimana morto e anco sei mesi avanti che l’abbrucino, aspettando che ‘l pianeta gli sia propizio e non contrario, né mai gl’abbruciarebbono fino che gli astrologhi non dicono: ora è il tempo. Di sorte che, bisognando tenerlo in casa longamente, per schiffar la puzza fanno far una cassa di tavole grosse un palmo, molto ben congionte e dipinte, dove posto il corpo con molte gomme odorifere, canfora e altre speciarie, gli stroppano le congiunture con pece e calcina, coprendola di panni di seta. E in questo tempo che lo tengono in casa, ogni giorno gli fanno preparar la tavola con pane, vino e altre vivande, lasciandogliela per tanto spazio quanto uno potria mangiare commodamente, perché dicono che ‘l spirito, ch’è ivi presente, si sazia dell’odore di quelle vivande.

Alcune fiate detti astrologhi dicon alli parenti che ‘l non è buon che ‘l corpo sia portato per la porta maestra, perché truovano cause delle stelle o altra cosa che gli è in opposito alla detta porta, e lo fanno portar fuori per un’altra parte della casa, e alle volte fanno rompere i muri li quali guardano a drittura verso il pianeta che gli è secondo e prospero, e per quell’apritura fanno portar fuori il corpo: e se fosse fatto altramente, dicono che gli spirti de’ morti offenderebbono quelli di casa e gli farian danno. E s’accade che ad alcuno di casa gl’intravenghi qualche male o disgrazia overo muora, subito gli astrologi dicono che ‘l spirito del morto ha fatto questo per non esser stato portato fuori essendo in esaltazion il pianeta sotto il qual nacque, overo che gli era contrario, overo che non è stato per quella debita parte della casa che si dovea. E dovendosi abbruciar fuori della città, li fanno fare per le strade dov’egli ha da passar alcune casette di legname col suo portico, coperte di seta; e quando vi giugne il corpo lo mettono in quelle, ponendogli avanti pane, vino, carne e altre vivande, e così fanno fin che giungono al luogo determinato, avendo per opinione che ‘l spirito del morto si restauri alquanto e pigli vigore, dovendo esser presente a veder abbruciare il corpo. Usano anco un’altra cerimonia, che pigliano molte carte fatte di scorzi d’arbori, e sopra quelle dipingono uomini, donne, cavalli, camelli, denari e veste, e quelle abbruciano insieme col corpo, perché dicono che nell’altro mondo l’averà servitori, cavalli e tutte le altre cose che son state dipinte sopra le carte. E a tutto quest’officio vi sono presenti tutti li stromenti della città, di continuo sonando.

Avendo detto di questa, dirassi delle altre città che sono verso maestro, appresso al capo del deserto.

Capitolo 37

Della provincia di Chamul, e del costume che hanno di lasciar che le lor mogli e figliuole dormino con li forestieri che passano per il paese.

Chamul è una provincia posta fra la gran provincia di Tanguth soggetta al gran Can, e sono in quella molte città e castella, delle quali la città maestra è detta similmente Chamul; e la provincia è in mezzo di due deserti, cioè del gran deserto che di sopra s’è detto e d’un altro picciol forse di tre giornate. Tutte quelle genti adorano gl’idoli e hanno linguaggio da per sé; vivono di frutti della terra, perché ne hanno grande abondanza, e di quelli vendono a’ viandanti. Gli uomini di questa provincia sono sollazzosi, e non attendono ad altro che a sonare instrumenti, cantare, ballare, e a scrivere e leggere secondo la loro consuetudine, e darsi piacere e diletto. E s’alcun forestiero va ad alloggiar alle loro case molto si rallegrano, e comandano strettamente alle loro mogli, figliuole, sorelle e altre parenti che debbano integramente adempire tutto quello che li piace; e loro, partendosi di casa, se ne vanno alle ville e di lì mandano tutte le cose necessarie al lor oste, nondimeno col pagamento di quelli, né mai ritornano a casa fin che ‘l forestiero vi sta. Giaceno con le lor moglie, figliuole e altre, pigliandosi ogni piacere come se fossero proprie sue mogli: e questi popoli reputano questa cosa essergli di grand’onore e ornamento, e molto grata alli loro idoli, facendo così buon ricetto a’ viandanti bisognosi di ricreazione, e che per questo siano moltiplicati tutti li loro beni, figliuoli e facoltà, e guardati da tutti i pericoli, e che tutte le cose gli succedino con grandissima felicità. Le donne veramente sono molto belle e molto sollazzose, e obedientissime a quanto li mariti comandano.

Ma avvenne al tempo che Manghù gran Can regnava in questa provincia, avendo inteso i costumi e consuetudine così vergognosi, comandò strettamente agli uomini di Chamul che per lo innanzi dovessero lasciare questa così disonesta opinione, non permettendo che alcun di quella provincia alloggiasse forestieri, ma che li provedessero di case communi dove potessero stare. Costoro, dolenti e mesti, per tre anni in circa osservarono i comandamenti del re; ma finalmente, vedendo che le terre loro non rendevano i soliti frutti, e nelle case loro succedevano molte adversità, ordinarono ambasciatori al gran Can, pregandolo che quello che dalli lor antichi padri e avi a loro era stato lasciato con tanta solennità fosse contento che potessero osservare, perciò che, dapoi che mancavano di far questi piaceri ed elemosine verso i forestieri, le loro case andavano di mal in peggio e in rovina. Il gran Can, intesa questa domanda, disse: “Poi che tanto desiderate il vituperio e ignominia vostra, siavi concesso: andate e vivete secondo i vostri costumi, e fate che le donne vostre siano limosinarie verso i viandanti”. E con questa risposta tornarono a casa, con grandissima allegrezza di tutt’il popolo, e così fin al presente osservano la prima consuetudine.

Capitolo 38

Della provincia di Succuir, dove si trova il reubarbaro, che vien condotto per il mondo.

Partendosi dalla provincia predetta si va per dieci giornate fra greco e levante, e in quel cammino vi sono poche abitazioni, né cose degne di raccontarle; e in capo di dieci giornate si truova una provincia chiamata Succuir, nella qual sono molte città e castella, e la principal città è ancor lei nominata Succuir, le cui genti adorano gl’idoli, e sono ancora in quella alcuni cristiani. Sono sottoposti alla signoria del gran Can, e la gran provincia generale nella qual si contiene questa provincia, e altre due provincie subsequenti, si chiama Tanguth. E per tutti li suoi monti si truova reubarbaro perfettissimo in grandissima quantità, e i mercanti che ivi lo cargano lo portano per tutt’il mondo. Vero è che li viandanti che passano di lì non ardiscono andar a quei monti con altre bestie che di quella contrata, perché vi nasce un’erba venenosa, di sorte che se le bestie ne mangiano perdono l’unghie: ma quelle di detta contrata conoscono l’erba e la schifano di mangiare. Gli uomini di Succuir vivono de’ frutti della terra e delle lor bestie, e non usano mercanzie. La provincia è tutta sana, e le genti sono brune.

Capitolo 39

Della città di Campion, capo della provincia di Tanguth, e della sorte de’ lor idoli, e della vita de’ religiosi idolatri, e il lunario che hanno; e de’ costumi degli altri abitanti nel maritarsi.

Campion è una città che è capo della provincia di Tanguth: la città è molto grande e nobile e signoreggia a tutta la provincia. Le sue genti adorano gl’idoli, alcuni osservano la legge di Macometto, e altri sono cristiani, i quali hanno tre belle e grandi chiese in detta città. Quelli che adorano gl’idoli hanno secondo la loro consuetudine molti monasterii e abbazie, e in quelle gran moltitudine d’idoli, de’ quali alcuni sono di legno, alcuni di terra e alcuni di pietra, coperti d’oro e molto maestrevolmente fatti. Di questi ne sono di grandi e piccioli: quelli che sono grandi sono ben passa dieci di longhezza e giaceno distesi, e li piccioli gli stanno adietro, quasi che paiono come discepoli a fargli riverenza. Vi sono idole grande e picciole, che similmente hanno in gran venerazione. I religiosi idolatri vivono, secondo che par a loro, più onestamente degli altri idolatri, perché s’astengono da certe cose, cioè dalla lussuria e altre cose disoneste; quantunque reputino la lussuria non essere gran peccato, perché questa è la loro conscienza, che se la donna ricerca l’uomo d’amore possino usare con quella senza peccato, ma s’essi sono primi a ricercar la donna allora lo reputano a peccato. Item che hanno un lunario di mesi quasi come abbiamo noi, secondo la cui ragione quelli che adorano gl’idoli per cinque o quattro overo tre giorni al mese non fanno sangue, né mangiano uccelli né bestie, come è usanza appresso di noi ne’ giorni di venere, di sabbato e vigilie de’ Santi. E i secolari togliono fino a trenta mogli, e più e manco secondo che le loro facoltà ricercano, e non hanno dote da quelle, ma loro danno alle donne dote di bestie, schiavi e denari. E la prima moglie tiene sempre il luogo della maggiore, e se veggono ch’alcuna di loro non si porti bene con l’altre, overo non li piace, la possono scacciare. Pigliano anco le parenti e congiunte di sangue per mogli, e le matrigne. E molti peccati mortali appresso loro non si reputano peccati, perché vivono quasi a modo di bestie. In questa città messer Marco previous hit Polo next hit dimorò con suo padre e barba per sue facende circa un anno.

Capitolo 40

Della città di Ezina, e degli animali e uccelli che ivi si trovano, e del deserto che è di quaranta giornate verso tramontana.

Partendosi da questa città di Campion e cavalcando per dodici giornate, si truova una città nominata Ezina, in capo del deserto dell’arena verso tramontana: e contiensi sotto la provincia di Tanguth. Le sue genti adorano idoli; hanno camelli e molte bestie di molte sorti. In quella si truovano falconi laneri, e molti sacri molto buoni. Gli uomini vivono di frutti della terra e di bestie, e non usano mercanzie. I viandanti che passano per questa città togliono vettovaglia per quaranta giornate, però che, partendosi da quella verso tramontana, si cavalca per un deserto quaranta giornate, dove non si trova abitazion alcuna, né stanno le genti se non l’estate ne’ monti e in alcune valli. Ivi si truovan acque e boschi di pini, asini salvatichi e molt’altre bestie similmente salvatiche. E quando s’è cavalcato per questo deserto quaranta giornate, si truova una città verso tramontana detta Carachoran. E tutte le provincie sopradette e città, cioè Sachion, Chamul, Chinchitalas, Succuir, Campion ed Ezina, sono pertinenti alla gran provincia di Tanguth.

Capitolo 41

Della città di Carchoran, che è il primo luogo dove li Tartari si ridussero ad abitare.

Carchoran è una città il cui circuito dura tre miglia, e fu il primo luogo appresso al quale ne’ tempi antichi si ridussero i Tartari. E la città ha d’intorno un forte terraglio, perché non hanno copia di pietre; appresso la quale di fuori è un castello molto grande, e in quello è un palagio bellissimo dove abita il rettore di quella.

Capitolo 42

Del principio del regno di Tartari, e di che luogo vennero, e come erano sottoposti ad Umcan, che chiamano un Prete Gianni, che è sotto la tramontana.

Il modo adunque pel quale i Tartari cominciarono primamente a dominare si dichiarerà al presente. Essi abitavano nelle parti di tramontana, cioè in Giorza e Bargu, dove sono molte pianure grandi e senza abitazione alcuna, cioè di città e castella, ma vi sono buoni pascoli e gran fiumi e molte acque. Fra loro non aveano alcun signore, ma davano tributo ad un gran signore che, come intesi, nella lingua loro si chiama Umcan, qual è opinion d’alcuni che vogli dire nella nostra Prete Gianni: a costui i Tartari davano ogni anno la decima di tutte le lor bestie. Procedendo il tempo, questi Tartari crebbero in tanta moltitudine che Umcan, cioè Prete Gianni, temendo di loro si propose separarli per il mondo in diverse parti; onde, qualunque volta gli veniva occasione che qualche signoria si ribellasse, eleggeva tre e quattro per centinaio di questi Tartari e mandavali a quelle parti: e così la loro potenza si diminuiva; e similmente faceva nell’altre sue facende, e deputò alcuni de’ suoi principali ad esequir quest’effetto. Allora, vedendosi i Tartari a tanta servitù così indegnamente soggiogati, non volendo separarsi l’un dall’altro, e conoscendo che non si cercava altro che la sua ruina, si partirono da’ luoghi dove abitavano e andarono tanto per un lungo deserto verso tramontana che per la lontananza parse a loro esser sicuri, e allora denegorno di dare ad Umcan il solito tributo.

Capitolo 43

Come Cingis Can fu il primo imperator di Tartari, e come combatté con Umcan e lo ruppe e prese tutt’il suo paese.

Avvenne che, circa l’anno del nostro Signore 1162, essendo stati i Tartari per certo tempo in quelle parti, elessero in loro re uno che si chiamava Cingis Can, uomo integerrimo, di molta sapienza, eloquente e valoroso nell’armi, qual cominciò a reggere con tanta giustizia e modestia, che non come signore ma come dio era da tutti amato e riverito; di modo che, spargendosi pel mondo la fama del valor e virtù sua, tutti i Tartari che erano in diverse parti del mondo si ridussero all’obedienza sua. Costui, vedendosi signore di tanti valorosi uomini, essendo di gran cuore, volse uscire di que’ deserti e luoghi salvatichi, e avendo ordinato che si preparassero con gli archi e altre armi, perché con gli archi erano valenti e ben ammaestrati, avendosi con quelli esercitati mentre erano pastori, cominciò a soggiogar città e provincie. E tanta era la fama della giustizia e bontà sua, che dove egli andava ciascuno veniva a rendersi, e beato era colui che poteva essere nella grazia sua, di modo ch’egli acquistò circa nove provincie. E questo puoté ragionevolmente avvenire, perché allora in quelle parti le terre e provincie o si reggevano a commune, overo ciascuna avea il suo re e signore, fra li quali non v’essendo unione, da se stessi non potean resistere a tanta moltitudine. E acquistate e prese che avea le provincie e città, metteva in quelle governatori di tal sorte giusti che li popoli non erano offesi né in la persona né in la robba, e tutti li principali menava seco in altre provincie, con gran provisione e doni.

Vedendo Cingis Can che la fortuna così prosperamente li succedea, si propose di tentar maggior cose. Mandò adunque suoi ambasciatori al Prete Gianni simulatamente, conciosiach’egli veramente sapeva che ‘l detto non prestarebbe audienza alle lor parole, e gli fece domandare la figliuola per moglie. Il che udito dal Prete Gianni, tutto adirato disse: “Onde è tanta prosonzione in Cingis Can, che sapendo che è mio servo mi domandi mia figliuola? Partitevi dal mio cospetto immediate, e diteli che se mai più mi farà simil domande lo farò morire miseramente”. La qual cosa avendo udito Cingis Can, si turbò fuor di modo e, congregato un grandissimo esercito, andò con quello a mettersi nel paese del Prete Gianni, in una gran pianura che si chiama Tenduch, e mandò a dire al re che si difendesse: qual similmente con grand’esercito se ne venne nella detta pianura, ed erano lontani un dall’altro circa dieci miglia. E quivi Cingis comandò alli suoi astrologhi e incantatori che dovessero dire qual esercito dovea aver vittoria: costoro, presa una canna verde, la divisero in due parti per longo, le qual posero in terra lontane una dall’altra, e scrissero sopra una il nome di Cingis e sopra l’altra quello d’Umcan, e dissero al re che, come loro leggeranno le loro scongiure, per potenza degl’idoli queste canne veniranno una contra l’altra, e quel re averà la vittoria la cui canna monterà sopra l’altra. Ed essendo concorso tutto l’esercito a vedere questa cosa, mentre che gli astrologhi leggevano i libri de’ suoi incanti, questi due pezzi di canne si mossero, e pareva che uno si levasse contra l’altro: alla fine, dopo alquanto di spazio, quella di Cingis montò sopra di quella d’Umcan. Il che veduto da’ Tartari e da Cingis, con grand’allegrezza andorno ad affrontar l’esercito d’Umcan, e quello ruppero e fracassarono, e fu morto Umcan e tolto il regno, e Cingis prese per moglie la figliuola di quello. Dopo questa battaglia, Cingis andò anni sei continuamente acquistando regni e cittade; alla fine, essendo sotto un castello detto Thaigin, fu ferito con una saetta in un ginocchio e morse, e fu sepolto nel monte Altay.

Capitolo 44

Della successione di sei imperatori di Tartari, e solennità che gli fanno quando li sepeliscono nel monte Altay.

Doppo Cingis Can fu secondo signore Cyn Can; il terzo Bathyn Can; il quarto Esu Can; il quinto Mongù Can; il sesto Cublai Can, il quale fu più grande e più potente di tutti gli altri, perch’egli ereditò quel che ebbero gli altri, e dopo acquistò quasi il resto del mondo, perché lui visse circa anni sessanta nel suo reggimento. E questo nome Can in lingua nostra vuol dir imperatore. E dovete sapere che tutti i gran Can e signori che descendono dalla progenie di Cingis Can si portano a sepelire ad un gran monte nominato Altay, e in qualunque luogo muoiono, se ben fossero cento giornate lontani da quel monte, bisogna che vi sian portati. E quando si portano i corpi di questi gran Cani, tutti quelli che conducono il corpo ammazzano tutti quelli che riscontrano pel cammino, e li dicono: “Andate all’altro mondo a servire al vostro signore”, perché credono che tutti quelli ch’uccidono debbano servire al suo signore nell’altro mondo; il simile fassi de’ cavalli, e uccidono tutti li migliori, acciò che li possa aver nell’altro mondo. Quando il corpo di Mongù fu portato a quel monte, li cavallieri che ‘l portavano, avendo questa scelerata e ostinata persuasione, uccisero più di diecimila uomini che incontrarono.

Capitolo 45

Della vita de’ Tartari, e come non stanno mai fermi, ma vanno sempre camminando; e delle lor case sopra carrette, costumi e vivere; e dell’onestà delle lor mogli, delle quali ne cavano grandissima utilità.

I Tartari non stanno mai fermi, ma conversano al tempo del verno ne’ luoghi piani e caldi, dove trovino erbe a bastanza e pascoli per le lor bestie, e l’estate ne’ luoghi freddi, cioè ne’ monti, dove siano acque e buoni pascoli: e anco per questa causa, perché dove è il luogo freddo non si truovano mosche né tafani e simili animali, che molestano loro e le bestie. E vanno per due o tre mesi ascendendo di continuo e pascolando, perché non averebbono erbe sofficienti, per la moltitudine delle lor bestie, pascendo sempre in un luogo. Hanno le case coperte di bacchette e feltroni e rotonde, così ordinatamente e con tale artificio fatte che le verghe si raccolgono in un fascio, e si ponno piegare e acconciar a modo d’una soma: quali case portano seco sopra carri di quattro ruote ovunque vadano, e sempre quando le drizzano pongono le porte verso mezzodì. Hanno oltre ciò carrette bellissime di due ruote solamente, coperte di feltro, e così bene che se piovesse tutt’il giorno non si potria bagnar cosa che fosse in quelle, qual menano con buoi e camelli. Sopra quelle conducono li loro figliuoli e mogli, e tutte le massarie e vettovaglie che li bisognano. Le donne fanno mercanzie, comprano e vendono e revendono di tutte quelle cose che sono necessarie ai loro mariti e famiglia, perché gli uomini non s’intromettono in cosa alcuna, salvo che in cacciare, uccellare e nelle cose pertinenti all’armi. Hanno falconi li miglior del mondo, e similmente cani. Vivono solamente di carne e latte e di ciò che pigliano alla caccia, e mangiano alcuni animaletti ch’assimigliano a conigli, che appresso noi si chiamano sorzi di faraone, de’ quali si truova gran copia per le pianure nell’estate e in ogni parte, e carne d’ogni sorte, e cavalli e camelli e cani, pur che sian grassi; bevono latte di cavalle, qual acconciano di sorte che par vin bianco e saporito, e lo chiamano nella loro lingua chemurs.

Le donne loro sono le più caste e oneste del mondo, e che più amano e reveriscano i loro mariti, e si guardano sopra ogn’altra cosa di commettere adulterio, qual vien riputato in grandissimo disonore e vituperio. Ed è cosa maravigliosa la lealtà de’ mariti verso le mogli, le quali se sono dieci o venti, fra loro è una pace e un’unione inestimabile, né mai si sente che dican una mala parola; ma tutte sono (com’è detto) intente e sollecite alle mercanzie, cioè al vendere e comprare, e cose pertinenti agli esercizii loro, al viver di casa e cura della famiglia e de’ figliuoli, che sono fra loro communi. E tanto più son degne di admirazione di questa virtù della pudicizia e onestà, quanto che agli omini è concesso di pigliare quante mogli vogliono, le qual sono alli mariti di poca spesa, anzi di gran guadagno e utile, per li traffichi ed esercizii che di continuo fanno. E per questo, quando le pigliano, loro danno le dote alle madri per aver quelle, e la prima ha questo privilegio, d’essere tenuta la più cara e la più legitima, e similmente i figliuoli che di quella nascono; e perché possono pigliare quante mogli a lor piace, perciò hanno più numero di figliuoli di tutte l’altre genti. Se ‘l padre muore, il figliuolo può pigliar per mogli tutte quelle che son state lasciate dal padre, eccettuando la madre e le sorelle, e pigliano anco le cognate, se sono morti i fratelli, e celebrano ogni fiata le nozze con gran solennità.

Capitolo 46

Del Dio de’ Tartari celeste e sublime, e d’un altro detto Natigay, e come l’adorano; e della sorte delli loro vestimenti e armi, e della ferocità loro nel combattere; e come sono pazientissimi in ogni disagio e bisogno, e obedientissimi al loro signore.

La legge e fede de’ Tartari è tale: dicono esservi il Dio alto, sublime e celeste, al qual ogni giorno col turribolo e incenso non domandan altro se non buon intelletto e sanità; ne hanno poi un altro che chiamano Natigay, ch’è a modo di una statua coperta di feltre overo d’altro, e ciascuno ne tien uno in casa sua. Fanno a questo dio la moglie e figliuoli, e pongongli la moglie dalla parte sinistra e i figliuoli avanti di lui, quali pare che li facciano riverenza. Questo dio lo chiamano dio delle cose terrene, il qual custodisce e guarda i loro figliuoli e conserva le bestie e le biade, al quale fanno grande riverenza e onore; e sempre quando mangiano togliono della parte delle carni grasse, e con quelle ungono la bocca del dio, della moglie e de’ figliuoli; dopo gettano del brodo delle carni fuor della porta agli altri spiriti. Fatto questo, dicono che ‘l loro dio con la sua famiglia ha avuto la parte sua, e poscia mangiano e bevono a lor piacere.

I ricchi si vestono di drappi d’oro e di seta e di pelle di zibellini, armellini e vari, e tutti i loro fornimenti sono di gran prezzo e valore. L’arme loro sono archi, spade e mazze ferrate, e alcune lancette, ma con gli archi meglio s’esercitano che con l’altre arme, perché sono ottimi arcieri ed esercitati da picciolini; e indosso portan arme di cuori di buffali e altri animali, molto grossi, cotti, e per questo sono molto duri e forti. Sono uomini fortissimi in battaglia e quasi furibondi e che poco stimano la lor vita, la qual mettono ad ogni pericolo senz’alcun rispetto. Sono crudelissimi e sofferenti d’ogni disagio, e bisognando viveranno un mese solamente con latte di cavalle e d’animali che pigliano. Li lor cavalli si pascono di erbe, né hanno bisogno d’orzo né d’altra biada; e stann’armati a cavallo due giorni e due notte che mai smontano, e similmente vi dormono, e i lor cavalli in tanto vanno pascendo. Non è gente al mondo che più di loro duri affanno e più pazienti in ogni necessità, obedientissimi alli lor signori e di poca spesa: e per queste parti così eccellenti nell’esercizio delle armi, sono atti a soggiogare il mondo, come hanno fatto d’una gran parte.

Capitolo 47

Dell’esercito de’ Tartari, in quante parti è diviso; e del modo col quale cavalcano, e di ciò che portano per loro vivere, e del latte secco; e modo del loro combattere.

Quando alcun signor di Tartari va ad alcuna espedizione, mena seco l’esercito di centomila cavalli, e ordina le sue genti in questa maniera: egli statuisce un capo a ciascuna decina e a ciascun centenaio e a ciascun migliaio e a ogni diecimila, e così ogni dieci capi di decina rispondono alli capi di centinaia, e ogni dieci capi di centenaia rispondono alli capi di migliaia, e ogni dieci capi di migliaia rispondono alli capi di dieci migliaia, e in questo modo ciascun uomo overo capo, senz’altro consiglio overo fastidio, non ha da cercare altri se non dieci. Per il che, quando il signore di questi centomila vuol mandarne alcuna parte a qualche espedizione, comanda al capo di diecimila che li dia mille uomini, e il capo di diecimila comanda al capo di mille, e il capo di mille al capo di cento, e il capo di cento al capo di dieci, e allora tutti i capi delle decine sanno le parti che li toccano, e subito danno quelle a’ suoi capi: cento capi a’ cento di mille, e mille capi ai capi di diecimila, e così subito si discernono; e tutti sono obedientissimi a’ suoi capi. Item ciascun centinaio si chiama un tuc, dieci un toman, per migliaio, centinaio e decina. E quando si muove l’esercito per andar a far qualche impresa, essi mandano avanti gli altri uomini per la loro custodia per due giornate, e mettono genti da dietro e da’ lati, cioè da quattro parti, a questo effetto, acciò che qualche esercito non possi assaltargli all’improviso.

E quando vanno con l’esercito lontani, non portano seco cosa alcuna, di quelle massimamente che sono necessarie pel dormire. Vivono il più delle volte di latte (come s’è detto), e fra cavalli e cavalle sono per ciascun uomo circa diciotto: e quando alcun cavallo è stracco pel cammino si cambia un altro; nondimeno portano seco vasi per cuocer la carne. Portano anco seco le sue picciole casette di feltro alla guerra, dentro alle quali stanno al tempo della pioggia. E alle volte, quando ricerca il bisogno e pressa di qualche impresa che si facci presta, cavalcano ben dieci giornate senza vettovaglie cotte, e vivono del sangue de’ suoi cavalli, però che ciascuno punge la vena del suo e beve il sangue. Hanno ancora latte secco a modo di pasta, e seccasi in questo modo: fanno bollire il latte, e allora la grassezza che nuota di sopra si mette in un altro vaso, e di quella si fa il butiro, perché fin che stesse nel latte non si potria seccare; si mette poi il latte al sole, e così si secca. E quando vanno in esercito portano di questo latte circa dieci libre, e la mattina ciascuno ne piglia mezza libra e la mette in un fiasco picciolo di cuoio, fatto a modo d’un utre, con tant’acqua quanto li piace; e mentre cavalca, il latte nel fiasco si va sbattendo e fassi come sugo, il qual bevono: e questo è il suo desinare. Oltre di ciò, quando i Tartari combattono co’ nemici, mai si meschiano totalmente con loro, anzi continuamente cavalcano a torno qua e là saettando, e alle volte fingono di fuggire, e fuggendo saettano da dietro li nemici che seguitano, sempre uccidendo cavalli e uomini come se combattessero a faccia a faccia: e a questo modo i nemici, credendo aver avuto vittoria, si trovano aver perso, e allora i Tartari, vedendo avergli fatto danno, ritornano di nuovo contra di loro, e quelli virilmente combattendo conquistano e prendono. E hanno li lor cavalli così ammaestrati a voltarsi che ad un signo si voltan in ogni parte che vogliono, e in questo modo hanno vinto molte battaglie.

Tutto quello che v’abbiam narrato è nella vita e costumi de’ rettori dei Tartari. Ma al presente sono molto bastardati, perché quelli che conversano in Ouchacha osservano la vita e costumi di quelli ch’adorano gl’idoli e hanno lasciata la sua legge; quelli che conversano in Oriente osservano i costumi de’ saraceni.

Capitolo 48

Della giustizia che osservano, e della vanità de’ matrimonii che fanno de’ figliuoli morti.

Mantengono la giustizia come vi narraremo al presente. Quando alcuno ha rubbato alcuna picciola cosa, per la qual non meriti la morte, lo battono sette volte con un bastone, o vero dicesette volte, o ventisette o trentasette o quarantasette, fino a cento sempre crescendo, secondo la quantità del furto e qualità del delitto: e molti muoiono per queste battiture. Se uno rubba un cavallo o altre cose per le quali debba morire, con una spada si taglia per mezo; ma se quel che ha rubbato può pagare, e dare nove volte più di quello che ha rubbato, scapola. Item qualunque signore o altr’uomo che ha molti animali li fa bollare del suo segno, cioè cavalli e cavalle, camelli e buoi, vacche e altre bestie grosse, poi li lascia andar a pascere per le pianure e monti in qualunque luogo senza custodia di uomo; e se una bestia si mischia con qualche altra, ciascuno ritorna la sua a colui del quale si truova il segno. I castrati e becchi li fanno custodire dagli uomini, e le loro bestie sono tutte grasse e grandi e belle oltra modo.

Quando ancora sono due uomini, de’ quali uno abbia avuto un figliuol maschio, e quello sia mancato di tre anni o altramente, e l’altro abbia avuto una figliuola, ed ella parimenti sia mancata, fanno insieme le nozze, perché danno la fanciulla morta al fanciullo morto: e allora fanno dipingere in carte uomini in luogo di servi, e cavalli e altri animali, e drappi d’ogni maniera, denari e ciascuna sorte di massarizie, e fanno far gl’instrumenti a corroborazione della dote e matrimonio predetti; le qual cose fanno tutte abbruciare, e del fumo che indi viene dicono che tutte queste cose son portate ai loro figliuoli nell’altro mondo, dove si pigliano per marito e moglie; e li padri e madri de’ morti si hanno per parenti, come se veramente le nozze fossero state celebrate e che vivessero.

Ora abbiamo dichiarato li costumi e consuetudini de’ Tartari; non però che abbiamo detto i grandissimi fatti e imprese del gran Can, signor di tutti i Tartari. Ma vogliamo ritornare al nostro proposito, cioè alla gran pianura nella quale eravamo quando cominciammo de’ fatti di Tartari.

Capitolo 49

Come, partendosi da Carachoran, si trova la pianura di Bargu, e de’ costumi degli abitanti in quella; e come doppo quaranta giornate si trova il mare Oceano; e delli falconi e girifalchi che vi nascono; e come la Tramontana a chi la guarda appar verso mezodì.

Partendosi da Carachoran e dal monte Altay, dove si sepeliscono i corpi degl’imperatori de’ Tartari, come abbiam detto di sopra, si va per una contrata verso tramontana, che si chiama la pianura di Bargu e dura ben circa sessanta giornate; le cui genti si chiamano Mecriti, e sono genti salvatiche, perché vivono di carne di bestie, la maggior delle quali sono a modo di cervi, li qual anco cavalcano. Vivono similmente d’uccelli, perché vi sono molti laghi, stagni e paludi, e detta pianura confina verso tramontana col mare Oceano, e quelli uccelli che si spogliano delle piume vecchie conversano il più dell’estate circa quell’acque, e quando sono del tutto ignudi, che non possono volare, quelli prendono al loro buon piacere; e vivon ancora de pesci. Queste genti osservano le consuetudini e costumi de’ Tartari, e sono sudditi al gran Can. Non hanno né biade né vino, e nell’estate hanno cacciagioni e prendono gran quantità d’uccelli; ma il verno, pel grandissimo freddo, non vi possono stare bestie né uccelli.

E quando s’è cavalcato (come è detto) quaranta giornate, si truova il mare Oceano, presso al quale è un monte nel quale fanno nido astori e falconi pellegrini, e nella pianura. Ivi non sono uomini, né vi abitano bestie né uccelli, salvo ch’una maniera d’uccelli che si chiamano bargelach, e i falconi si pascono di quelli: sono della grandezza delle pernici, e nella coda son simili alle rondini, e ne’ piedi alli papagalli; volano velocemente. E quando il gran Can vuol avere un nido di falconi pellegrini, manda fino a detto luogo per quelli; e nell’isola, che è circondata dal mare, nascono molti girifalchi. Ed è quel luogo tanto verso la tramontana che la stella di tramontana pare alquanto rimaner dipoi verso mezodì. E i girifalchi che nascono nell’isola predetta sono in tanta copia che ‘l gran Can ne puol avere quanti ne vuole a suo piacere. Né crediate che i girifalchi che delle terre de’ cristiani si portano a’ Tartari siano portati al gran Can, ma portansi in Levante solamente, cioè a qualche signore tartaro e altri nobili di Levante che sono a’ confini de’ Cumani e Armeni.

Ora, avendo detto delle provincie che sono verso la tramontana fino al mare Oceano, diremo delle provincie verso il gran Can, e ritorniamo alla provincia detta Campion, la qual di sopra è descritta.

Capitolo 50

Come, partendosi da Campion, si vien al regno di Erginul; e della città di Singui; e de’ buoi, che hanno un pelo sottilissimo; e della forma dell’animal che fa il muschio, e come lo prendono; e de’ costumi degli abitanti, e bellezza delle lor donne.

Partendosi dalla provincia di Campion si va per cinque giornate, nelle quali s’odono più volte la notte parlar molti spiriti, con gran paura de’ viandanti; e in capo di quelle, verso levante, si truova un regno nominato Erginul, qual è sottoposto al gran Can, e contiensi sotto la provincia di Tanguth. In detto regno sono molti altri regni, le cui genti adorano gl’idoli; vi sono alcuni cristiani nestorini e turchi, e molte città e castella, de’ quali la maestra città è Erginul. Dalla qual partendosi poi verso scirocco si può andare alle parti del Cataio, e andando per scirocco verso ‘l Cataio si truova una città nominata Singui, e ancor la provincia si chiama Singui, nelle quali sono molte città e castella: e contengonsi in detta provincia di Tanguth e sotto il dominio del gran Can. Le genti di questa provincia adorano gl’idoli; alcuni osservano la legge di Macometto, e alcuni sono cristiani. Ivi si trovano molti buoi salvatichi, i quali sono della grandezza quasi degl’elefanti e bellissimi da vedere, però che sono bianchi e neri. I loro peli sono in ciascuna parte del corpo bassi, eccetto che sopra le spalle, che sono lunghi tre palmi; qual pelo overo lana è sottilissima e bianca, e più sottile e bianca che non è la seta: e messer Marco ne portò a Venezia come cosa mirabile, e così da tutti che la viddero fu reputata per tale. Di questi buoi molti si sono dimesticati, che furon presi salvatichi. E fanno coprire le vacche dimestiche, e i buoi che nascono di quelle sono maravigliosi animali, e atti a fatiche più che niun altro animale: e gli uomini gli fanno portare gran carichi, e lavorano con quelli la terra il doppio più di quello che lavorano gli altri, e sono molto forti e gagliardi.

In questa contrata si truova il più nobile e fino muschio che sia nel mondo, ed è una bestia picciola come una gazella, cioè della grandezza d’una capra, ma la sua forma è tale: ha i peli a similitudine di cervo, molto grossi, li piedi e la coda a modo d’una gazella; non ha corne come la gazella. Ha quattro denti, cioè due dalla parte di sopra e due dalla parte di sotto, lunghi ben tre dita e sottili, bianchi come avolio, e due ascendono in su e due descendono in giù, ed è bello animale da vedere. Nasce a questa bestia, quando la luna è piena, nell’umbilico sotto il ventre un’apostema di sangue, e i cacciatori nel tondo della luna escono fuori a prender de’ detti animali, e tagliano questa apostema come la pelle e la seccano al sole: e questo è il più fin muschio che si sappi. E la carne del detto animal è molto buona da mangiare, e pigliasene in gran quantità, e messer Marco ne portò a Venezia la testa e i piedi di detto animale secchi.

Gli uomini veramente vivono di mercanzie e d’arti; hanno abondanza di biade. Il transito della provincia è di venticinque giornate, nella quale si truovano fagiani il doppio maggiori de’ nostri, ma sono alquanto minori de’ pavoni, e hanno le penne della coda lunghe otto o dieci palmi. Ne sono anco della grandezza e statura come sono li nostri, e vi sono ancora altri uccelli di molte altre maniere, che hanno bellissime penne di diversi colori. Quelle genti adorano gli idoli, e sono grassi e hanno il naso picciolo; i loro capelli sono neri, e non hanno barba, salvo che quattro peli nel mento. Le donne onorate non hanno similmente pelo alcuno eccetto i capelli, e sono bianche, di belle carne e ben formate in tutti i membri, ma molto lussuriose. Gli uomini molto si dilettano di star con quelle, perché, secondo le lor consuetudini e leggi, possono aver quante mogli vogliono, pur che possino sostentarle. E se alcuna donna povera è bella, li ricchi per la sua bellezza la pigliano per moglie, e danno alla madre e parenti molti doni per averle, perché non apprezzano altro che la bellezza.

Ora si partiremo di qui, e diremo d’una provincia verso levante.

Capitolo 51

Della provincia di Egrigaia e della città di Calacia, e de’ costumi degli abitanti, e zambellotti che vi si lavorano.

Partendosi da Erginul, andando verso levante per otto giornate, si truova una provincia nominata Egrigaia, nella quale sono molte città e castella, pur nella gran provincia di Tanguth. La maestra città si chiama Calacia, le cui genti adorano gl’idoli; vi sono ancora tre chiese de’ cristiani nestorini, e sono sotto il dominio del gran Can. In questa città si lavorano zambellotti di peli di camelli, li più belli e migliori che si truovin al mondo, e similmente di lana bianca in grandissima quantità, i quali i mercatanti, partendosi de lì, portano per molte contrade, e specialmente al Cataio.

Or lasciamo di questa provincia, e diremo d’un’altra verso levante nominata Tenduc, e così entraremo nelle terre del Prete Gianni.

Capitolo 52

Della provincia di Tenduc, dove regnano quelli della stirpe del Prete Gianni, e la maggior parte sono cristiani; e come ordinano li loro preti; e d’una sorte d’uomini detti Argon, che son più belli e savi di quel paese.

Tenduc del Prete Gianni è una provincia verso levante, nella quale sono molte città e castella, e sono sottoposti al dominio del gran Can, perché tutti i Preti Gianni che vi regnano sono sudditi al gran Can, dopo che Cingis, primo imperatore, la sottomesse. La maestra città è chiamata Tenduc, e in questa provincia è re uno della progenie del Prete Gianni, nominato Georgio, ed è prete e cristiano, e la maggior parte degli abitanti sono cristiani. E questo re Georgio mantien la terra per il gran Can, non però tutta quella ch’avea il Prete Gianni, ma certa parte; e li gran Cani danno sempre in matrimonio delle sue figliuole e altre che discendono dalla sua stirpe ai re che siano discesi dalla progenie delli Preti Gianni. In questa provincia si truovano pietre delle quali si fa l’azzurro; ve ne sono molte e buone. Quivi fanno i zambellotti molto buoni di peli di camelli. Gli uomini vivono di frutti della terra e di mercanzie e arti. E il dominio è de’ cristiani, perché ‘l re è cristiano (come s’è detto), quantunque sia soggetto al gran Can; ma vi sono molti che adorano gl’idoli, e osservano la legge macomettana. Vi è anco una sorte di genti che si chiamano Argon, perché sono nati di due generazioni, cioè da quelli di Tenduc, che adorano gl’idoli, e da quelli che osservano la legge di Macometto: e questi sono i più belli uomini che si truovino in quel paese, e più savi e più accorti nella mercanzia.

Capitolo 53

Del luogo dove regnano quelli del Prete Gianni, detto Og e Magog, e de’ costumi degli abitanti e lavori di seta di quelli, e della minera d’argento.

Nella sopradetta provincia era la principal sedia del Prete Gianni di tramontana quando el dominava li Tartari, e a tutte l’altre provincie e regni circonstanti, e fino al presente ritiene nella sua sedia i successori. E questo Georgio sopradetto dopo il Prete Gianni è il quarto di quella progenie, ed è tenuto il maggior signore. E vi sono due regioni dove questi regnano, che nelle nostre parti chiamano Og e Magog, ma quelli che ivi abitano lo chiamano Ung e Mongul, in ciascuno de’ quali è una generazione di gente: in Ung sono Gog, e in Mongul sono Tartari.

E cavalcandosi per questa provincia sette giornate, andando per levante verso ‘l Cataio, si truovano molte città e castella, nelle quali le genti adorano gl’idoli, e alcune osservano la legge di Macometto, e altri sono cristiani nestorini. Vivono di mercanzie e arti, perché si fanno panni d’oro nasiti fin e nach, e panni di seta di diverse sorti e colori come abbiamo noi, e panni di lana di diverse maniere. Quelle genti sono suddite al gran Can, e vi è una città nominata Sindicin, nella quale s’esercitano l’arti di tutte le cose e fornimenti che s’appartengono all’armi e ad un esercito. E ne’ monti di questa provincia è un luogo nominato Idifa, nel quale è un’ottima minera d’argento, dalla qual se ne cava grandissima quantità; e oltre di ciò hanno molte cacciagioni.

Capitolo 54

Della provincia di Cianganor, e della sorte di grue che si trovano, e della quantità di pernici e quaglie che ‘l gran Can fa allevare.

Partendosi dalla sopradetta provincia e città e andando per tre giornate, si truova la città nominata Cianganor, che vuol dire stagno bianco, nella qual è un palagio del gran Can, nel quale vi suol abitare molto volentieri, perché vi sono intorno laghi e riviere dove abitano molti cigni, e in molte pianure grue, fagiani, pernici e uccelli d’altra sorte in gran quantità. Il gran Can piglia grandissimo piacere andando ad uccellare con girifalchi e falconi e prendendo uccelli infiniti. Vi sono cinque sorti di grue: la prima sono tutte nere come corvi, con l’ale grandi; la seconda ha l’ali maggiori dell’altre, bianche e belle, e le penne dell’ali son piene d’occhi rotondi come quelli de’ pavoni, ma gli occhi sono di color d’oro molto risplendenti, il capo rosso e nero molto ben fatto, il collo nero e bianco, e sono bellissime da vedere; la terza sorte sono grue della statura delle nostre d’Italia; la quarta sono grue picciole, ch’hanno le penne rosse e azzurre divisate molto belle; la quinta sorte sono grue grise, col capo rosso e nero, e sono grandi.

Presso a questa città è una valle, nella quale è grandissima abondanza di pernici e quaglie, e pel nutrimento delle quali sempre il gran Can fa seminar l’estate sopra quelle coste miglio e panizzo e altre semenze che tali uccelli appetiscono, comandando che niente si raccolga, acciò abondevolmente si possano nudrire; e vi stanno molti uomini per custodia di questi uccelli, acciò non siano presi, ed eziandio li buttano il miglio al tempo del verno, e sono tanto assuefatti al pasto che se li getta per terra che, subito che l’uomo sibila, ovunque si siano vengono a quello. E ha fatto fare il gran Can molte casette dove stanno la notte, e quando ‘l vien a questa contrada ha di questi uccelli abondantemente, e l’inverno, quando sono ben grasse (perché ivi pel gran freddo non sta a quel tempo), ovunque egli si sia, se ne fa portare carghi i camelli.

Ma si partiremo di qui, e andaremo tre giornate verso tramontana e greco.

Capitolo 55

Del bellissimo palagio del gran Can nella città di Xandù; e della mandria di cavalli e cavalle bianche, del latte de’ quali fanno ogn’anno sacrificio; e delle cose maravigliose che li loro astrologhi fanno far quando vien mal tempo, e anco della sala del gran Can, e delli sacrificii che li detti fanno; e di due sorti di religiosi, cioè poveri, e de’ costumi e vita loro.

Quando si parte da questa città di sopra nominata, andando tre giornate per greco si truova una città nominata Xandù, la qual edificò il gran Can che al presente regna, detto Cublai Can; e quivi fece fare un palagio di maravigliosa bellezza e artificio, fabricato di pietre di marmo e d’altre belle pietre, qual con un capo confina in mezo della città e con l’altro col muro di quella. Dalla qual parte, a riscontro del palagio, un altro muro ferma un capo da una parte del palagio nel muro della città, e l’altro dall’altra parte circuisce, e include ben sedici miglia di pianura, talmente ch’entrare in quel circuito non si può se non partendosi dal palagio. In questo circuito e serraglia sono prati bellissimi e fonti e molti fiumi, e ivi sono animali d’ogni sorte, come cervi, daini, caprioli, quali vi fece portar il gran Can per pascere i suoi falconi e girifalchi, ch’egli tiene in muda in questo luogo, i quali girifalchi sono più di dugento: ed esso medesimo va sempre a vederli in muda, al manco una volta la settimana. E molte volte, cavalcando per questi prati circondati di mura, fa portar un leopardo, overo più, sopra le groppe de’ cavalli, e quando vuole lo lascia andare, e subito prende un cervo o vero capriolo o daini, li quali fa dare ai suoi falconi e girifalchi: e questo fa egli per suo solazzo e piacere.

In mezo di quei prati, ov’è un bellissimo bosco, ha fatto fare una casa regal, sopra belle colonne dorate e invernicate, e a ciascuna è un dragone tutto dorato che rivolge la coda alla colonna, e col capo sostiene il soffittato, e stende le branche, cioè una alla parte destra a sostentamento del soffittato e l’altra medesimamente alla sinistra. Il coperchio similmente è di canne dorate, e vernicate così bene che niun’acqua li potria nuocere, le quali sono grosse più di tre palmi e lunghe da dieci braccia, e tagliate per ciascun groppo si parteno in due pezzi per mezo e si riducono in forma di coppi: e con queste è coperta la detta casa, ma ciascun coppo di canna per defensione de’ venti è ficcato con chiodi. E detta casa a torno a torno è sostentata da più di dugento corde di seta fortissime, perché dal vento (per la leggierezza delle canne) saria rivoltata a terra. Questa casa è fatta con tanta industria e arte che tutta si può levar e metter giù e poi di nuovo reedificarla a suo piacere; e fecela far il gran Can per sua dilettazione, per esservi l’aere molto temperato e buono, e vi abita tre mesi dell’anno, cioè giugno, luglio e agosto, e ogn’anno, alli ventotto della luna del detto mese d’agosto, si suol partire e andare ad altro luogo, per far certi sacrificii in questo modo. Ha una mandria di cavalli bianchi e cavalle come neve, e possono essere da diecimila, del latte delle quali niuno ha ardimento bere s’egli non è descendente della progenie di Cingis Can. Nondimeno Cingis Can concesse l’onore di bere di questo latte ad un’altra progenie, la quale al tempo suo una fiata si portò molto valorosamente seco in battaglia, ed è nominata Boriat. E quando queste bestie vanno pascolando per li prati e per le foreste se gli porta gran riverenza, né ardiria alcun andargli davanti overo impedirli la strada. E avendo gli astrologhi suoi, che sanno l’arte magica e diabolica, detto al gran Can che ogn’anno, al vigesimo ottavo dì della luna d’agosto, debbia far spandere del latte di queste cavalle per l’aria e per terra per dar da bere a tutti i spiriti e idoli che adorano, acciò che conservino gli uomini e le femine, le bestie, gli uccelli, le biade e l’altre cose che nascono sopra la terra, però per questa causa il gran Can in tal giorno si parte dal sopradetto luogo e va a far di sua mano quel sacrificio del latte.

Fanno ancora questi astrologhi, o vogliam dire negromanti, una cosa maravigliosa a questo modo: che come appar che ‘l tempo sia turbato e vogli piovere, vanno sopra il tetto del palagio ove abita il gran Can, e per virtù dell’arte loro lo difendono dalla pioggia e dalla tempesta, talmente che a torno a torno descendono pioggie, tempeste e baleni, e il palagio non vien tocco da cosa alcuna. E costoro che fanno tal cose si chiamano tebeth e chesmir, che sono due sorti d’idolatri quali sono i più dotti nell’arte magica e diabolica di tutte l’altre genti, e danno ad intendere al vulgo che queste operazioni siano fatte per la santità e bontà loro, e per questo vanno sporchi e immondi, non curandosi dell’onor loro né delle persone che li veggono; sostengono il fango nella lor faccia, né mai si lavano né si pettinano, ma sempre vanno lordamente. Hanno costoro un bestiale e orribil costume, che quand’alcuno per il dominio è giudicato a morte, lo tolgono e cuocono e mangianselo; ma se muore di propria morte non lo mangiano. Oltre il nome sopradetto si chiamano anco bachsi, cioè di tal religione overo ordine come si direbbono frati predicatori overo minori, e sono tanto ammaestrati ed esperti in quest’arte magica o diabolica che fanno quasi ciò che vogliono, e fra l’altre se ne dirà una fuor di ogni credenza.

Quando il gran Can nella sua sala siede a tavola, la quale, come si dirà nel libro di sotto, è d’altezza più d’otto braccia, e in mezo della sala, lontano da detta tavola, è apparecchiata una credenziera grande, sopra la quale si tengono i vasi da bere, essi operano con l’arti sue che le caraffe piene di vino overo latte o altre diverse bevande da se stesse empiono le tazze loro senza ch’alcuno con le mani le tocchino, e vanno ben per dieci passa per aere in mano del gran Can; e poi ch’ha bevuto, le dette tazze ritornano al luogo d’onde erano partite: e questo fanno in presenza di coloro i quali il signore vuol che veggano. Questi bachsi similmente, quando sono per venire le feste delli suoi idoli, vanno al gran Can e li dicono: “Signore, sappiate che, se li nostri idoli non sono onorati con gli olocausti, faranno venire mal tempo e pestilenze alle nostre biade, bestie e altre cose: per il che vi supplichiamo che vi piaccia di darne tanti castrati con li capi neri e tante libre d’incenso e legno di aloè, che possiamo fare il debito sacrificio e onore”. Ma queste parole non dicono personalmente al gran Can, ma a certi principi che sono deputati a parlar al signore per gli altri, ed essi dopo lo dicono al gran Can, qual li dona integramente ciò che domandano. E venuto il giorno della festa, fanno i sacrificii de’ detti castrati, e spargono il brodo avanti gl’idoli, e a questo modo gli onorano.

Hanno questi popoli grandi monasterii e abbazie, e così grandi che pareno una picciola città, in alcuna delle quali potriano essere quasi duemila monachi, i quali secondo i costumi loro servono agl’idoli, e si vestono più onestamente degli altri uomini, e portano il capo raso e la barba, e fanno festa agl’idoli con più solenni canti e lumi che sia possibile; e di questi alcuni possono pigliar moglie. Vi è poi un altro ordine di religiosi, nominati sensim, quali sono uomini di grand’astinenza, e fanno la loro vita molto aspra, però che tutt’il tempo della vita sua non mangiano altro che semole, le quali mettono in acqua calda e lasciano stare alquanto, fin che si levi via tutto il bianco della farina: e allora le mangiano così lavate, senz’alcuna sostanza di sapore. Questi adorano il fuoco e dicono gli uomini dell’altre regole che questi che vivono in tant’astinenza sono eretici della sua legge, perché non adorano gl’idoli come loro; ma è gran differenza tra loro, cioè tra l’una regola e l’altra, e questi tali non tolgono moglie per qualsivoglia causa del mondo. Portano il capo raso e la barba, e le lor vesti sono di canapo, nere e biave, e se fossero anco di seta, le portarebbero di tal colore. Dormono sopra stuore grosse, e fanno la più aspra vita di tutti gli uomini del mondo.

Or lasciamo di questi, e diremo de’ grandi e maravigliosi fatti del gran signore e imperator Cublai Can.

[Libro secondo]

Capitolo 1

De’ maravigliosi fatti di Cublai Can, che al presente regna, e della battaglia ch’egli ebbe con Naiam suo barba, e come vinse.

Ora nel libro presente vogliamo cominciar a trattar di tutti i grandi e mirabili fatti del gran Can che al presente regna, detto Cublai Can, che vuol dir in nostra lingua “signor de’ signori”. E ben è vero il suo nome, perché egli è più potente di genti, di terre e di tesoro di qualunque signor che sia mai stato al mondo né che vi sia al presente, e sotto il quale tutti i popoli sono stati con tanta obedienza quanto che abbino mai fatto sotto alcun altro re passato; la qual cosa si dimostrerà chiaramente nel processo del parlar nostro, di modo che ciascuno potrà comprendere che questa è la verità.

Dovete adunque sapere che Cublai Can è della retta e imperial progenie di Cingis Can primo imperator, e di quella dee esser il vero signor de’ Tartari. Questo Cublai Can è il sesto gran Can, che cominciò a regnar nel 1256 essendo d’anni 27, e acquistò la signoria per la sua gran prodezza, bontà e prudenzia, contra la volontà de’ fratelli e di molti altri suoi baroni e parenti che non volevano: ma a lui la succession del regno apparteneva giustamente. Avanti che ‘l fosse signor andava volentier nell’esercito e voleva trovarsi in ogni impresa, perciò che, oltre ch’egli era valente e ardito con l’armi in mano, veniva riputato di consiglio e astuzie militari il più savio e aventurato capitano che mai avessero i Tartari; e dopo ch’ei fu signore non v’andò se non una sol fiata, ma nelle imprese vi mandava i suoi figliuoli e capitani. E la causa perché vi andasse fu questa. Nel 1286 si trovava uno nominato Naiam, giovane d’anni trenta, qual era barba di Cublai e signor di molte terre e provincie, di modo che poteva facilmente metter insieme da quattrocentomila cavalli, e i suoi predecessori erano soggetti al dominio del gran Can. Costui, commosso da leggierezza giovenile, veggendosi signor di tante genti, si pose in animo di non voler esser sottoposto al gran Can, anzi di volergli torre il regno, e mandò suoi nonzii secreti a Caidu, qual era grande e potente signor nelle parti verso la gran Turchia, e nepote del gran Can, ma suo ribello, e portavagli grand’odio, percioché ognora dubitava che ‘l gran Can non lo castigasse. Caidu, uditi i messi di Naiam, fu molto contento e allegro e promisegli di venir in suo aiuto con centomila cavalli, e così ambedue cominciorno a congregar le lor genti, ma non poterno fare così secretamente che non ne venisse la fama all’orecchie di Cublai; qual, intesa questa preparazione, subito fece metter guardie a tutti i passi ch’andavan verso i paesi di Naiam e Caidu, acciò che non sapessero quel che lui volesse fare, e poi immediate ordinò che le genti ch’erano d’intorno alla città di Cambalù per il spazio di dieci giornate si mettessero insieme con grandissima celerità. E furono da trecentosessantamila cavalli e centomila pedoni, che sono li deputati alla persona sua, e la maggior parte falconieri e uomini della sua famiglia, e in venti giorni furono insieme; perché, se egli avesse fatto venir gli eserciti che ‘l tien di continuo per la custodia delle provincie del Cataio, sarebbe stato necessario il tempo di trenta o quaranta giornate, e l’apparecchio s’averia inteso, e Caidu e Naiam si sarian congiunti insieme e ridotti in luoghi forti e al loro proposito; ma lui volse con la celerità (la qual è compagna della vittoria) prevenir alle preparazioni di Naiam e trovarlo solo, che meglio lo poteva vincer che accompagnato.

E perché nel presente luogo è a proposito di parlar d’alcuna cosa delli eserciti del gran Can, è da sapere che in tutte le provincie del Cataio, di Mangi e in tutt’il resto del dominio suo vi si truovano assai genti infideli e disleali, che se potessero si ribellerian al lor signore: e però è necessario, in ogni provincia ove sono città grandi e molti popoli, tenervi eserciti che stanno alla campagna 4 o 5 miglia lontani dalla città, quali non possono avere porte né muri, di sorte che non se gli possa entrar dentro a ogni suo piacere. E questi eserciti il gran Can gli fa mutar ogni due anni, e il simil fa de’ capitani che governano quelli, e con questo freno li popoli stanno quieti e non si possono movere né far novità alcuna. Questi eserciti, oltre il denaro che li dà di continuo il gran Can delle intrate delle provincie, vivono d’un infinito numero di bestie che hanno, e del latte qual mandano alla città a vendere, e si comprano delle cose che gli bisognano, e sono sparsi per 30, 40 e 60 giornate in diversi luoghi; la mità de’ quali eserciti se avesse voluto congregar Cublai, sarebbe stato un numero maraviglioso e da non credere.

Fatto il sopradetto esercito, Cublai Can s’aviò con quello verso il paese di Naiam, cavalcando dì e notte, e in termine di 25 giornate vi aggionse; e fu così cautamente fatto questo viaggio che Naiam né alcun de’ suoi lo presentì, perch’erano state occupate tutte le strade, che niuno poteva passare che non fosse preso. Giunto appresso un colle oltre il quale si vedea la pianura dove Naiam era accampato, Cublai fece riposare le sue genti per due giorni e, chiamati li astrologhi, volse che con le loro arti in presenza di tutto l’esercito vedessero chi dovea aver la vittoria, li quali dissero dover esser di Cublai: questo effetto di divinazione sogliono sempre far li gran Cani per far innanimar li loro eserciti. Con questa adunque ferma speranza, una mattina a buon’ora l’esercito di Cublai, asceso il colle, si dimostrò a quello di Naiam, qual stava molto negligentemente, non tenendo in alcuna parte spie né persona alcuna per guardia, ed era in un padiglione dormendo con una sua moglie; pur risvegliato si mise ad ordinar meglio che poté il suo esercito, dolendosi di non aversi congionto con Caidu. Cublai era sopra un castel grande di legno pieno di balestrieri e arcieri, e nella sommità v’era alzata la real bandiera con l’imagine del sole e della luna; e questo castello era portato da quattro elefanti tutti coperti di cuori cotti fortissimi, e di sopra v’erano panni di seta e d’oro. Cublai ordinò il suo esercito in questo modo: di 30 schiere di cavalli, ch’ognuna avea 10 mila tutti arcieri, ne fece tre parti, e quelle dalla man sinistra e destra fece prolongare molto atorno l’esercito di Naiam; avanti ogni schiera di cavalli erano 500 uomini a piedi con lancie corte e spade, ammaestrati che, ogni fiata che mostravano di voler fuggire, costoro saltavan in groppa e fuggivan con loro, e fermati smontavano e ammazzavano con le lancie i cavalli de’ nemici.

Preparati gli eserciti, si cominciò a udire il suon d’infiniti corni e altri varii instrumenti, e poi molti canti, che così è la consuetudine de’ Tartari avanti che cominciano a combattere, e quando le nacchere e tamburi suonano vengono allora alle mani. Il gran Can fece prima cominciar a sonar le nacchere dalle parti destra e sinistra, e si cominciò una crudele e aspra battaglia, e l’aere fu immediate tutto pieno di saette che piovean da ogni canto, e vedevansi uomini e cavalli in terra cader morti in gran numero; e tanto era orribil il grido degli uomini e strepito dell’armi e cavalli, che rappresentava un estremo spavento a chi l’udiva. Tirate che ebbero le saette, vennero alle mani con le lancie e spade e con le mazze ferrate, e fu tanta la moltitudine degli uomini, e sopra tutto di cavalli, che restorno morti uno sopra l’altro, che una parte non poteva trapassare ov’era l’altra, e la fortuna stette indeterminata per longhissimo spazio di tempo dove l’avesse a dar la vittoria di questo conflitto, qual durò dalla mattina sino a mezogiorno, perché la benevolenza delle genti di Naiam verso il lor signore, ch’era liberalissimo, ne fu causa, conciosiacosaché ostinatamente per amor suo volevano più tosto morire che voltar le spalle. Pur alla fine, vedendosi Naiam circondato dall’esercito nemico, si mise in fuga, ma subito fu preso e condotto alla presenzia di Cublai, qual ordinò ch’ei fosse fatto morire cucito fra due tapeti, che fossino tanto alzati su e giù che ‘l spirito gli uscisse del corpo: e la causa di tal sorte di morte fu accioché il sole e l’aria non vedesse sparger il sangue imperiale. Le genti di Naiam che restorno vive vennero a dar obedienza e giurar fedeltà a Cublai, che furono di quattro nobil provincie, cioè Ciorza, Carli, Barscol e Sitingui.

Naiam, occultamente avendosi fatto battezzar, non volle però mai far l’opera di cristiano, ma in questa battaglia gli parve di voler portar il segno della croce sopra le sue bandiere, e avea nel suo esercito infiniti cristiani, li quali tutti furono morti. E vedendo dopo li giudei e saraceni che le bandiere della croce erano state vinte, si facevano beffe de’ cristiani, dicendoli: “Vedete come le vostre bandiere e quelli che le hanno seguite sono stati trattati”. E per questa derisione furono astretti i cristiani di farlo intender al gran Cane, qual, chiamati a sé li giudei e li saraceni, gli riprese aspramente dicendoli: “Se la croce di Cristo non ha giovato a Naiam, ragionevolmente e giustamente ha fatto, perché lui era perfido e ribello al suo signore, e la croce non ha voluto aiutar simili uomini tristi e malvagi: e però guardatevi di mai più aver ardimento di dire che ‘l Dio de’ cristiani sia ingiusto, perché quello è somma bontà e somma giustizia”.

Capitolo 2

Come, dopo ottenuta tal vittoria, il gran Can ritornò in Cambalù; e dell’onore ch’egli fa alle feste de’ cristiani, giudei, macomettani e idolatri; e la ragione perché dice che non si fa cristiano.

Dopo ottenuta tal vittoria, il gran Can ritornò con gran pompa e trionfo nella città principal, detta Cambalù, e fu del mese di novembre, e quivi stette fin al mese di febraio e marzo, quando è la nostra Pasqua; dove, sapendo che questa era una delle nostre feste principali, fece venir a sé tutti i cristiani e volse che li portassero il libro dove sono li quattro Evangelii, al quale fattogli dar l’incenso molte volte con gran cerimonie, devotamente lo basciò, e il medesimo volse che facessero tutti i suoi baroni e signori ch’erano presenti. E questo modo sempre serva nelle feste principali de’ cristiani, com’è la Pasqua e il Natale; il simil fa nelle principal feste di saraceni, giudei e idolatri. Ed essendo egli domandato della causa, disse: “Sono quattro profeti che son adorati e a’ quali fa riverenza tutt’il mondo: li cristiani dicono il loro Dio essere stato Iesù Cristo, i saraceni Macometto, i giudei Moysè, gl’idolatri Sogomombar Can, qual fu il primo iddio degl’idoli; e io faccio onor e riverenza a tutti quattro, cioè a quello ch’è il maggior in cielo e più vero, e quello prego che m’aiuti”. Ma, per quello che dimostrava il gran Can, egli tien per la più vera e miglior la fede cristiana, perché dice ch’ella non comanda cosa che non sia piena d’ogni bontà e santità. E per niun modo vuol sopportare che li cristiani portino la croce avanti di loro, e questo perché in quella fu flagellato e morto un tanto e così grand’uomo come fu Cristo.

Potrebbe dir alcuno: “Poi ch’egli tiene la fede di Cristo per la migliore, perché non s’accosta a lei e fassi cristiano?” La causa è questa, secondo ch’egli disse a messer Nicolò e Maffio, quando li mandò ambasciatori al papa, i quali alle volte movevano qualche parola circa la fede di Cristo. Diceva egli: “In che modo volete voi che mi faccia cristiano? Voi vedete che li cristiani che sono in queste parti sono talmente ignoranti che non sanno cosa alcuna e niente possono, e vedete che questi idolatri fanno ciò che vogliono, e quando io seggo a mensa vengono a me le tazze che sono in mezo la sala, piene di vino o bevande e d’altre cose, senza ch’alcuno le tocchi, e bevo con quelle. Constringono andar il mal tempo verso qual parte vogliono e fanno molte cose maravigliose, e come sapete gl’idoli loro parlano e gli predicono tutto quello che vogliono. Ma se io mi converto alla fede di Cristo e mi faccia cristiano, allora i miei baroni e altre genti, quali non s’accostano alla fede di Cristo, mi direbbono: “Che causa v’ha mosso al battesimo e a tener la fede di Cristo? Che virtuti o che miracoli avete veduto di lui?” E dicono questi idolatri che quel che fanno lo fanno per santità e virtù degl’idoli; allora non saprei che rispondergli, tal che saria grandissimo errore tra loro e questi idolatri, che con l’arti e scienzie loro operano tali cose, mi potriano facilmente far morire. Ma voi andrete dal vostro pontefice, e da parte nostra lo pregherete che mi mandi cento uomini savii della vostra legge, che avanti questi idolatri abbino a riprovare quel che fanno, e dichinli che loro sanno e possono far tal cose ma non vogliono, perché si fanno per arte diabolica e di cattivi spiriti, e talmente li constringano che non abbino potestà di far tal cose avanti di loro. Allora, quando vedremo questo, riprovaremo loro e la loro legge, e così mi battezzerò, e quando sarò battezzato tutti li miei baroni e grand’uomini si battezzeranno, e poi li subditi loro torranno il battesimo, e così saranno più cristiani qui che non sono nelle parti vostre”. E se dal papa, come è stato detto nel principio, fossero stati mandati uomini atti a predicarli la fede nostra, il detto gran Can s’avria fatto cristiano, perché si sa di certo che n’avea grandissimo desiderio. Ma, ritornando al proposito nostro, diremo del merito e onore che egli dà a coloro che si portano valorosamente in battaglia.

Capitolo 3

Della sorte de’ premii ch’egli dà a quelli che si portano bene in battaglia, e delle tavole d’oro ch’egli dona.

Dovete adunque sapere che ‘l gran Can ha dodici baroni savii, ch’hanno carico d’intendere e informarsi delle operazioni che fanno li capitani e soldati, particolarmente nelle imprese e battaglie ove si ritruovano, e quelle poi riferir al gran Can, qual, conoscendoli benemeriti, se sono capo di cent’uomini gli fa di mille, e dona molti vasi d’argento e tavole di commandamento e signoria. Imperoché quello che è capo di cento ha la tavola d’argento, e quello che è capo di mille ha la tavola d’oro overo d’argento indorato, e quello che è capo di diecimila ha la tavola d’oro con un capo di leone; e il peso di queste tavole è tale: di quelli che hanno il dominio di mille, sono ciascuna di peso di saggi cento e venti; e quella che ha il capo di leone è di peso di saggi dugento e venti. Sopra tal tavola è scritto un commandamento che dice così: AEPer le forze e virtù del magno Iddio, e per la grazia che ha dato al nostro imperio, il nome del Can sia benedetto, e tutti quelli che non l’obediranno morino e siano destrutti”. Tutti quelli ch’hanno queste tavole hanno ancora privilegii in scrittura di tutte quelle cose che far debbono e possono nel suo dominio. E quello che ha il dominio di centomila, overo sia capitano generale di qualche grand’esercito, ha una tavola d’oro di peso di saggi trecento con le parole sopradette, e sotto la tavola è scolpito un lione con le imagini del sole e della luna, e oltre di ciò ha il privilegio del gran comandamento che appare in questa nobil tavola. Ogni volta che cavalcano in publico gli viene portato un pallio sopra la testa, per mostrar la grand’auttorità e potere che hanno, e quando seggono deono sempre sedere sopra una catedra d’argento. E il gran Can dona ad alcuni baroni una tavola dove è scolpita la imagine del girifalco, e questi possono menare seco tutto l’esercito d’ogni gran principe per sua guardia; e può pigliar il cavallo del gran Can, volendolo, e il medesimo può pigliare i cavalli degli altri che siano di minor dignità.

Capitolo 4

Della forma e statura del gran Can, e delle quattro mogli principali ch’egli ha, e delle giovani che ogni anno fa eleggere nella provincia di Ungut, e del modo che le eleggono.

Chiamasi Cublai gran Can signor de’ signori, il qual è di comune statura, cioè non è troppo grande né troppo picciolo, e ha le membra ben formate, che proporzionatamente si corrispondono. La faccia sua è bianca e alquanto rossa, risplendentemente a modo di rosa colorita, che ‘l fa parer molto grazioso; gli occhi sono neri e belli, il naso ben fatto e profilato. Ha eziandio quattro donne signore, quali tiene di continuo per mogli legitime, e il primo figliuolo che nasce di quelle è successor dell’imperio dopo la morte del gran Can, e si chiamano imperatrici, e tengono corte regale da per sé. Né alcuna è di loro che non abbia trecento donzelle molto belle e molti donzelli e altri uomini castrati e donne, talmente che ciascuna di queste ha nella sua corte diecimila persone; e quando il gran Can vuol esser con una di queste tali, la fa venir alla sua corte, overo egli va alla corte di lei.

E ha oltre di ciò molte concubine; e dirovvi come è una provincia nella qual abitano Tartari che si chiaman Ungut, e la città similmente, le genti della qual sono bellissime e bianchissime, e il gran Can ogni due anni, secondo che lui vuole, manda alla detta provincia suoi ambasciatori, che li truovino delle più belle donzelle, secondo la stima della bellezza che lui li commette, quattrocento, cinquecento, più e manco secondo che li pare, le quali donzelle si stimano in questo modo. Giunti che sono gli ambasciatori, fanno venir a sé tutte le donzelle della provincia, e vi sono li stimatori a questo deputati, i quali, vedendo e considerando tutte le membra di ciascuna a parte a parte, cioè i capelli, il volto e le ciglia, la bocca, le labra e l’altre membra, che siano condecenti e conformi alla persona, e stimano alcune in caratti sedici, altre dicessette, diciotto, venti e più e manco, secondo che sono più e manco belle. E se ‘l gran Can ha commesso che le conduchino della stima di caratti venti o ventuno, secondo il numero a loro ordinatoli quelle conducono. E giunte alla sua presenza le fa stimare di nuovo per altri stimatori, e di tutte ne fa eleggere per la sua camera trenta o quaranta che siano stimate più caratti, e ne fa dare una a ciascuna delle moglie de’ baroni, che nelle sue camere le debbano la notte diligentemente vedere, che non siano brutte sotto panni o difettose in alcun membro, e se dormono soavemente e non roncheggino, e se rendono buon fiato e soave, e che in alcuna parte non abbino cattivo odore. E quando sono state diligentemente esaminate si dividono a cinque a cinque, secondo che sono, e ciascuna parte dimora tre dì e tre notti nella camera del signore, per far ciascuna cosa che li sia necessaria; quali compiuti si cambiano e l’altra parte fa il simile, e così fanno fin che compino il numero di quante sono, e dopo ricominciano un’altra volta. Vero è che, mentre una parte dimora nella camera del signore, l’altre stanno in un’altra camera ivi propinqua, di modo che se il signore ha bisogno di qualche cosa estrinseca, come è bere e mangiare e altre cose, le donzelle che sono nella camera del signore comandano a quelle dell’altra camera che debbano apparecchiare, e quelle subito apparechiano, e così non si serve al signor per altre persone che per le donzelle. E l’altre donzelle che furono stimate manco caratti dimorano con l’altre del signore nel palagio, e gl’insegnano a cucire e tagliar guanti e far altri nobili lavori; e quando alcun gentiluomo ricerca moglie, il gran Can li dà una di quelle con grandissima dote, e a questo modo le marita tutte nobilmente.

E potrebbesi dire: non s’aggravano gli uomini della detta provincia che il gran Can li toglia le lor figliuole? Certamente no, anzi si reputano a gran grazia e onore e molto si rallegrano color che hanno belle figliuole che si degni d’accettarle, perché dicono: “Se la mia figliuola è nata sotto buon pianeto e con buona ventura, il signor potrà meglio sodisfarla, e la mariterà nobilmente, la qual cosa io non sarei sufficiente a sodisfare”. E se la figliuola non si porta bene overo non gl’intraviene bene, allora dice il padre: “Questo gli è intravenuto perché il suo pianeto non era buono”.

Capitolo 5

Del numero de’ figliuoli del gran Can che ha delle quattro mogli, e di Cingis, ch’era il primogenito; de’ quali ne fa re di diverse provincie, e li figliuoli delle concubine li fa signori.

Sappiate che ‘l gran Can avea ventidue figliuoli maschi delle sue quattro mogli leggittime, il maggior de’ quali era nominato Cingis, qual dovea essere gran Can e aver la signoria dell’imperio, e già vivendo il padre era stato confermato signore. Avvenne che egli mancò della presente vita, e di lui rimase un figliuolo nominato Themur, il qual dovea succeder nel dominio ed esser gran Can, perché egli è figliuolo del primo figliuolo del gran Can, cioè di Cingis: e questo Themur è uomo pieno di bontà, savio e ardito, e ha riportato di molte vittorie in battaglia. Item il gran Can ancora ha dalle sue concubine venticinque figliuoli, i quali sono valenti nell’arme, perché di continuo li fa esercitar nelle cose pertinenti alla guerra, e sono gran signori. E de’ figliuoli ch’egli ha dalle quattro mogli sette sono re di gran provincie e regni, e tutti mantengono bene il suo regno, perché sono savii e prudenti: e non può esser altrimenti, essendo nasciuti di tal padre, che è opinione firmissima che uomo di maggior valore non fosse mai in tutta la generazion de’ Tartari.

Capitolo 6

Del grande e maraviglioso palagio del gran Can, appresso la città di Cambalù.

Ordinariamente il gran Can abita tre mesi dell’anno, cioè dicembre, gennaio e febraio, nella gran città detta Cambalù, qual è in capo della provincia del Cataio verso greco; e quivi è situato il suo gran palagio, appresso la città nuova nella parte verso mezodì, in questa forma. Prima è un circuito di muro quadro, e ciascuna facciata è longa miglia otto, attorno alle quali vi è una fossa profonda, e nel mezo di ciascuna facciata v’è una porta, per la quale intrano tutte le genti che da ogni parte quivi concorrono. Poi si truova il spazio d’un miglio a torno a torno, dove stanno i soldati, dopo il qual spazio si truova un altro circuito di muro di miglia sei per quadro, il qual ha tre porte nella facciata di mezogiorno e altre tre nella parte di tramontana; delle quali quella di mezo è maggiore, e sta sempre serrata e mai non s’apre, se non quando il gran Can vuol entrare o uscire, e l’altre due minori, che vi sono una da una banda e l’altra dall’altra, stanno sempre aperte, e per quelle entrano tutte le genti. E in ciascun cantone di questo muro e nel mezo di ciascuna delle facciate v’è un palagio bello e spacioso, talmente che atorno atorno il muro sono otto palagi, ne’ quali si tengono le munizioni del gran Cane, cioè in ciascuno una sorte di fornimenti, come freni, selle, staffe e altre cose che s’appartengono all’apparecchio di cavalli; e in un altro archi, corde, turcassi, frezze e altre cose appartenenti al saettare; in un altro corazze, corsaletti e simili cose di cuoro cotto; e così degli altri. Intra questo circuito di muro è un altro circuito di muro, il qual è grossissimo, e la sua altezza è ben dieci passa, e tutti i merli sono bianchi; il muro è quadro e circuisce ben quattro miglia, cioè un miglio per ciascun quadro, e in questo terzo circuito sono sei porte, similmente ordinate come nel secondo circuito. Sonvi ancora otto palagi grandissimi, ordinati come nel secondo circuito predetto, ne’ quali similmente si tengono i paramenti del gran Can. Fra l’uno e l’altro muro son arbori molto belli e prati ne’ quali sono molte sorti di bestie, come cervi e bestie che fanno il muschio, caprioli, daini, vari e molte altre simili, di modo che fra le mura, in qualunque luogo dove si truova vacuo, vi conversano bestie. I prati hanno erba abondantemente, perché tutte le strade sono saleggiate e sollevate più alte della terra ben due cubiti, talmente che sopra quelle mai non si raguna fango né vi si ferma acqua di pioggia, ma discorrendo per i prati ingrassa la terra e fa crescer l’erba in abondanza.

E dentro a questo muro, che circuisce quattro miglia, è il palagio del gran Can, il qual è il più gran palagio che fosse veduto giamai. Esso adunque confina con il predetto muro verso tramontana e verso mezodì, ed è vacuo, dove i baroni e i soldati vanno passeggiando. Il palagio adunque non ha solaro, ma ha il tetto overo coperchio altissimo; il pavimento dove è fondato è più alto della terra dieci palmi, e a torno a torno vi è un muro di marmo ugual al pavimento, largo per due passa, e tra il muro è fondato il palagio, di sorte che tutto il muro fuor del palagio è quasi come un preambulo, pel quale si va a torno a torno passeggiando, dove possono gli uomini veder per le parti esteriori. E nell’estremità del muro di fuori è un bellissimo poggiolo con colonne, al quale si possono accostar gli uomini. Nelle mura delle sale e camere vi sono dragoni di scoltura indorati, soldati, uccelli e diverse maniere di bestie e istorie di guerre; la copritura è fatta in tal modo ch’altro non si vede ch’oro e pittura. In ciascun quadro del palagio è una gran scala di marmo, ch’ascende da terra sopra il detto muro di marmo che circonda il palagio, per la qual scala s’ascende nel palagio. La sala è tanto grande e larga che vi potria mangiar gran moltitudine d’uomini. Sono in esso palagio molte camere, che mirabil cosa è a vederle; esso è tanto ben ordinato e disposto, che si pensa che non si potria trovar uomo che lo sapesse meglio ordinare. La copertura di sopra è rossa, verde, azurra e pavonazza e di tutti i colori; vi sono vitreate nelle fenestre così ben fatte e così sottilmente che risplendono come cristallo, e sono quelle coperture così forti e salde che durano molti anni. Dalla parte di dietro del palagio sono case grandi, camere e sale, nelle quali sono le cose private del signore, cioè tutto il suo tesoro, oro, argento, pietre preziose e perle, e i suoi vasi d’oro e d’argento, dove stanno le sue donne e concubine, e dove egli fa fare le cose sue commode e opportune, a’ quali luoghi altre genti non v’entrano. E dall’altra parte del circuito del palagio, a riscontro del palagio del gran Can, vi è fatto un altro simile in tutto a quel del gran Can, nel quale dimora Cingis, primo figliuolo del gran Can, e tien corte, osservando i modi e costumi e tutte le maniere del padre: e questo percioché dopo la morte di quello è per aver il dominio.

Item appresso al palagio del gran Can, verso tramontana per un tiro di balestra, intra i circuiti delle mura è un monte di terra fatto a mano, la cui altezza è ben cento passa, e a torno a torno cinge ben per un miglio, il qual è tutto pieno e piantato di bellissimi arbori, che per tempo alcuno mai perdono le foglie e sono sempre verdi. E il signore, quand’alcuno li riferisse in qualche luogo essere qualche bell’arbore, lo fa cavare con tutte le radici e terra, e fosse quanto si volesse grande e grosso, che con gli elefanti lo fa portare a quel monte: e in questo modo vi sono bellissimi arbori sempre tutti verdi, e per questa causa si chiama Monte Verde, nella sommità del qual è un bellissimo palagio, ed è verde tutto, onde, riguardando il monte, il palagio e gli arbori, è una bellissima e stupenda cosa, percioché rende una vista bella, allegra e dilettevole.

Item verso tramontana similmente nella città è una gran cava larga e profonda molto, ben ordinata, della cui terra fu fatto il detto monte; e un fiume non molto grande empie detta cava e fa a modo d’una peschiera, e quivi si vanno ad acquare le bestie. E dopo si parte il detto fiume, passando per un acquedutto appresso il monte predetto, ed empie un’altra cava molto grande e profonda, tra il palagio del gran Can e quello di Cingis suo figliuolo, della terra della quale fu similmente inalzato il detto monte. In queste cave overo peschiere sono molte sorti di pesci, de’ qual il gran Can ha grand’abondanza quando vuole. E il fiume si parte dall’altra parte della cava e scorre fuori, ma è talmente ordinato e fabricato che nell’entrare e uscire vi sono poste alcune reti di rame e di ferro, che d’alcuna parte non può uscire il pesce. Vi sono ancora cigni e altri uccelli d’acqua, e da un palagio all’altro si passa per un ponte fatto sopra quell’acqua.

Detto è adunque del palagio del gran Can; ora si dirà della disposizione e condizione della città di Taidu.

Capitolo 7

Della nuova città di Taidu, fabricata appresso la città di Cambalù; degli ordini che s’osservano così nell’alloggiare gli ambasciatori come nell’andar di notte.

La città di Cambalù è posta sopra un gran fiume nella provincia del Cataio, e fu per il tempo passato molto nobile e regale; e questo nome di Cambalù vuol dire città del signore. E trovando il gran Can, per opinione degli astrologhi ch’ella dovea ribellarsi dal suo dominio, ne fece ivi appresso edificar un’altra, oltre il fiume, ove sono li detti palagi, di modo che niuna cosa è che la divida salvo che ‘l fiume che indi discorre. La città adunque nuovamente edificata si chiama Taidu, e tutti li Cataini, cioè quelli che aveano origine dalla provincia del Cataio, li fece il gran Can uscir della vecchia città e venir ad abitar nella nuova, e quelli di che egli non si dubitava che avessero ad essere ribelli lasciò nella vecchia, perché la nuova non era capace di tanta gente quanto abitava nella vecchia, la qual era molto grande; e nondimeno la nuova era della grandezza come al presente potrete intendere.

Questa nuova città ha di circuito ventiquattro miglia ed è quadra, di sorte che niun lato del quadro è maggiore o più lungo dell’altro e ciascun è di sei miglia, ed è murata di mura di terra che sono grosse dalla parte di sotto circa dieci passa, ma dalli fondamenti in su si vanno minuendo, talmente che nella parte di sopra non sono più di grossezza di tre passa, e a torno a torno sono merli bianchi. Tutta la città adunque è tirata per linea, imperoché le strade generali dall’una parte all’altra sono così dritte per linea che, s’alcuno montasse sopra il muro d’una porta e guardasse a drittura, può vedere la porta dall’altra banda a riscontro di quella. E per tutto, dai lati di ciascuna strada generale, sono stanze e botteghe di qualunque maniera, e tutti i terreni sopra li quali sono fatte le abitazioni per la città sono quadri e tirati per linea, e in ciascun terreno vi sono spaziosi e gran palagi, con sufficienti corti e giardini. E questi tali terreni sono dati a ciascun capo di casa, cioè il tale di tal progenie ebbe questo terreno, e il tale della tale ebbe quell’altro, e così di mano in mano. E circa ciascun terreno così quadro sono belle vie per le quali si cammina, e in questo modo tutta la città di dentro è disposta per quadro, com’è un tavoliero da scacchi, ed è così bella e maestrevolmente disposta che non saria possibile in alcun modo raccontarlo. Il muro della città ha dodici porte, cioè tre per ciascun quadro, e sopra ciascuna porta e cantone di quadro è un gran palagio molto bello, talmente che in ciascun quadro di muro sono cinque palagi, i quali hanno grandi e larghe sale, dove stanno l’armi di quelli che custodiscono la città, perché ciascuna porta è custodita per mille uomini. Né credasi che tal cosa si faccia per paura di gente alcuna, ma solamente per onore ed eccellenza del signore; nondimeno, per il detto degli astrologhi, si ha non so che di sospetto della gente del Cataio. E in mezo della città è una gran campana, sopra un grande e alto palagio, la quale si suona di notte, acciò che dopo il terzo suono niun ardisca andare per la città, se non in caso di necessità per donna che partorisca o d’uomo infermo; e quelli che vanno per giusta causa deono portar lumi con esso loro.

Item fuor della città per ciascuna porta sono grandissimi borghi overo contrade, di modo che ‘l borgo di ciascuna porta si tocca con li borghi delle porte dell’uno e l’altro lato, e durano per longhezza tre e quattro miglia, a tal che sono più quelli che abitano ne’ borghi che quelli che abitano nella città. E in ciascun borgo overo contrada, forse per un miglio lontano dalla città, sono molti fondachi e belli, ne’ quali alloggiano i mercanti che vengono di qualunque luogo; e a ciascuna sorte di gente è diputato un fondaco, come si direbbe a’ Lombardi uno, a’ Tedeschi un altro e a’ Francesi un altro. E vi sono femine da partito venticinquemila, computate quelle della città nuova e quelle de’ borghi della città vecchia, le quali servono de’ suoi corpi agli uomini per denari. E hanno un capitano generale, e per ciascun centenaio e ciascun migliaio vi è un capo, e tutti rispondono al generale; e la causa perché queste femine hanno capitano è perché, ogni volta che vengono ambasciatori al gran Can per cose e facende di esso signore, e che stanno alle spese di quello, le quali lor vengono fatte onoratissime, questo capitano è obligato di dare ogni notte a detti ambasciatori e a ciascuno della famiglia una femina da partito, e ogni notte si cambiano, e non hanno alcun prezzo, imperoché questo è il tributo che pagano al gran Can. Oltre di ciò, le guardie cavalcano sempre la notte per la città a trenta e a quaranta, cercando e investigando s’alcuna persona ad ora straordinaria, cioè dopo il terzo suono della campana, vada per la città: e trovandosi alcuno si prende e subito si pone in prigione, e la mattina gli officiali a ciò deputati l’esaminano, e trovandolo colpevole di qualche mensfatto li danno, secondo la qualità di quello, più e manco battiture con un bastone, per le quali alcune volte ne periscono. E a questo modo sono puniti gli uomini de’ loro delitti, e non vogliono tra loro sparger sangue, però che i loro bachsi, cioè sapienti astrologhi, dicono esser male a spargere il sangue umano.

Detto è adunque delle continenzie della città di Taidu; ora diremo come nella città i Cataini si volsero ribellare.

Capitolo 8

Del tradimento ordinato di far ribellar la città di Cambalù, e come gli auttori furono presi e morti.

Vera cosa è, come di sotto si dirà, che sono deputati dodici uomini, i quali hanno a disporre delle terre e reggimenti e di tutte l’altre cose come meglio lor pare. Tra’ quali v’era un saraceno nominato Achmac, uomo sagace e valente, il qual oltre gli altri avea gran potere e auttorità appresso il gran Can, e il signore tanto l’amava ch’egli avea ogni libertà, imperoché, come fu trovato dopo la sua morte, esso Achmac talmente incantava il signor con suoi veneficii che ‘l signore dava grandissima credenza e udienza a tutti i detti suoi, e così facea tutto quello che volea fare. Egli dava tutti i reggimenti e officii e puniva tutti i malfattori, e ogni volta ch’egli volea far morir alcuno ch’egli avesse in odio, o giustamente o ingiustamente, egli andava dal signore e dicevagli: “Il tale è degno di morte, perché così ha offeso vostra Maestà”. Allora diceva il signore: “Fa’ quel che ti piace”, ed egli subito lo facea morire. Per il che, vedendo gli uomini la piena libertà ch’egli avea, e che ‘l signore al detto di costui dava sì piena fede che non ardivano di contradirli in cosa alcuna, non v’era alcuno così grande e di tant’auttorità che non lo temesse. E s’alcuno fosse per lui accusato a morte al signore e volesse scusarsi, non potea riprovare e usar le sue ragioni, perché non avea con chi, conciosiaché niun ardiva di contradire ad esso Achmach: e a questo modo molti ne fece morire ingiustamente.

Oltre di questo non era alcuna bella donna che, volendola, egli non l’avesse alle sue voglie, togliendola per moglie s’ella non era maritata, overo altramente facendola consentire. E quando sapeva ch’alcuno aveva qualche bella figliuola, esso aveva i suoi ruffiani ch’andavano al padre della fanciulla dicendogli: “Che vuoi tu fare? Tu hai questa tua figliuola: dàlla per moglie al bailo, – cioè ad Achmach, perché si diceva bailo come si diria vicario, – e faremo ch’egli ti darà il tal reggimento overo tal officio per tre anni”. E così quello li dava la sua figliuola, e allora Achmach diceva al signore: “El vacua tal reggimento, overo si finisce il tal giorno; tal uomo è sufficiente a reggerlo”; e il signor li rispondeva: “Fa’ quello che ti pare”, onde l’investiva subito di tal reggimento. Per il che, parte per ambizione di reggimenti e officii, parte per esser temuto questo Achmach, tutte le belle donne o le toglieva per mogli o le avea a’ suoi piaceri. Avea ancora figliuoli circa venticinque, i quali erano ne’ maggiori officii, e alcuni di loro, sotto nome e coperta del padre, commettevano adulterio come il padre e facevano molt’altre cose nefande e scelerate. Questo Achmach avea ragunato molto tesoro, perché ciascuno che volea qualche reggimento overo officio li mandava qualche gran presente.

Regnò adunque costui anni ventidue in questo dominio; finalmente gli uomini della terra, cioè i Cataini, vedendo le infinite ingiurie e nefande sceleratezze ch’egli fuor di misura commetteva, così nelle lor mogli come nelle lor proprie persone, non potendo per modo alcuno più sostenere, deliberorno d’ammazzarlo e ribellare al dominio della città. E tra gli altri era un Cataino nominato Cenchu, che avea sotto di sé mille uomini, al qual il detto Achmach avea sforzata la madre, la figliuola e la moglie; dove che pien di sdegno parlò sopra la destruzione di costui con un altro Cataino nominato Vanchu, il qual era signore di diecimila, che dovessero far questo quando il gran Can sarà stato tre mesi in Cambalù, e poi si parte e va alla città di Xandù, dove sta similmente tre mesi, e similmente Cingis suo figliuolo si parte e va alli luoghi soliti, e questo Achmach rimane per custodia e guardia della città; e quando intraviene qualche caso esso manda a Xandù al gran Can, ed egli li manda la risposta della sua volontà. Questi Vanchu e Cenchu, avendo fatto questo consiglio insieme, volsero communicarlo con li Cataini maggiori della terra, e di comun consenso lo fecero intender in molte altre città e alli suoi amici, cioè che avendo deliberato in tal giorno far il tal effetto, che subito che vedranno i segni del fuoco debbino ammazzar tutti quelli che hanno barba, e far segno con il fuoco alle altre città che faccino il simile: e la cagion per la qual si dice che li barbuti sian ammazzati, è perché i Cataini sono senza barba naturalmente, e li Tartari e saraceni e cristiani la portavano. E dovete sapere che tutti i Cataini odiavano il dominio del gran Can, perché metteva sopra di loro rettori tartari e per lo più saraceni, e loro non li potevano patire, parendoli d’essere come servi. E poi il gran Can non avea giuridicamente il dominio della provincia del Cataio, anzi l’avea acquistato per forza, e non confidandosi di loro dava a regger le terre a Tartari, saraceni e cristiani ch’erano della sua famiglia, a lui fideli, e non erano della provincia del Cataio.

Or li sopradetti Vanchu e Cenchu, stabilito il termine, entrarono nel palagio di notte, e Vanchu sentò sopra una sedia e fece accendere molte luminarie avanti di sé, e mandò un suo nuncio ad Achmach bailo, che abitava nella città vecchia, che da parte di Cingis figliuolo del gran Can, il quale or ora era gionto di notte, dovesse di subito venire a lui. Il che inteso, Achmach molto maravigliandosi andò subitamente, perché molto lo temeva, ed entrando nella porta della città incontrò un Tartaro nominato Cogatai, il qual era capitano di docimila uomini co’ quali continuamente custodiva la città, qual gli disse: “Dove andate così tardi?” “A Cingis, il qual or ora è venuto”. Disse Cogatai: “Come è possibile che lui sia venuto così nascosamente ch’io non l’abbia saputo?”, e seguitollo con certa quantità delle sue genti. Ora questi Cataini dicevano: “Pur che possiamo ammazzare Achmach, non abbiamo da dubitare d’altro”. E subito che Achmach entrò nel palagio, vedendo tante luminarie accese, s’inginocchiò avanti Vanchu, credendo che ‘l fosse Cingis, e Cenchu che era ivi apparecchiato con una spada li tagliò il capo. Il che vedendo Cogatai, che s’era fermato nell’entrata del palagio, disse: “Ci è tradimento”, e subito saettando Vanchu che sedeva sopra la sedia l’ammazzò, e chiamando la sua gente prese Cenchu e mandò per la città un bando che, s’alcuno fosse trovato fuori di casa, fosse di subito morto.

I Cataini, vedendo che i Tartari aveano scoperta la cosa, e che non aveano capo alcuno, essendo questi due l’un morto l’altro preso, si riposero in casa, né poterono far alcun segno all’altre città che si ribellassero com’era stato ordinato. E Cogatai subito mandò i suoi nunzii al gran Can, dichiarandoli per ordine tutte le cose ch’erano intravenute, il quale li rimandò dicendo che lui dovesse diligentemente esaminarli, e secondo che loro meritassero per i loro mensfatti li dovesse punire. Venuta la mattina, Cogatai esaminò tutti i Cataini, e molti di loro distrusse e uccise che trovò esser de’ principali nella congiura; e così fu fatto nell’altre città, poi che si seppe ch’erano partecipi di tal delitto. Poi che fu ritornato il gran Can a Cambalù, volse sapere la causa per la quale ciò era intravenuto, e trovò come questo maledetto Achmach, così lui come i suoi figliuoli, aveano commessi tanti mali e tanto enormi come di sopra s’è detto. E fu trovato che tra lui e sette suoi figliuoli (perché tutti non erano cattivi) aveano prese infinite donne per mogli, eccettuando quelle ch’aveano avute per forza. Poi il gran Can fece condurre nella nuova città tutto il tesoro che Achmach avea ragunato nella città vecchia, e quello ripose con il suo tesoro: e fu trovato ch’era infinito. E volse che fosse cavato di sepoltura il corpo di Achmach e posto nella strada, acciò che fosse stracciato da’ cani, e i figliuoli di quello che aveano seguitato il padre nelle male opere li fece scorticare vivi. E venendogli in memoria della maledetta setta di saraceni, per la qual ogni peccato gli vien fatto lecito e che possono uccidere qualunque non sia della sua legge, e che il maledetto Achmach con i suoi figliuoli non pensando per tal causa di far alcun peccato, la disprezzò molto ed ebbe in abominazione; chiamati a sé li saraceni gli vietò molte cose che la lor legge li comandava, imperoché li diede un comandamento ch’ei dovessero pigliar le mogli secondo la legge de’ Tartari, e che non dovessero scannare le bestie come facevano per mangiar la carne, ma quelle dovessero tagliare pel ventre. E nel tempo ch’intravenne questa cosa messer Marco si trovava in quel luogo. Detto si è di questo; ora diremo come il gran Can mantiene e regge la sua corte.

Capitolo 9

Della guardia della persona del gran Can, ch’è di dodicimila persone.

Il gran Can, come a ciascun è manifesto, si fa custodire da dodicimila cavallieri, i quali si chiamano casitan, cioè soldati fideli del signore: e questo non fa per paura ch’egli abbia d’alcuna persona, ma per eccellenza. Questi dodicimila uomini hanno quattro capitani, ciascuno de’ quali è capitano di tremila, e ciascun capitano con li suoi tremila dimora continuamente nel palagio tre dì e tre notti, e compiuto il suo termine si cambia un altro, e quando ciascun di loro ha custodito la sua volta ricominciano di nuovo la guardia. Il giorno certamente gli altri novemila non si partono di palagio, s’alcuno non andasse per facende del gran Can overo per cose a loro necessarie, mentre però che fossero lecite, e sempre con parola del loro capitano. E se fosse qualche caso grave, come se il padre o il fratello o qualche suo parente fosse in articulo di morte, overo li soprastesse qualche gran danno per il qual non potesse ritornar presto, bisogna dimandar licenza al signore. Ma la notte li novemila ben vanno a casa.

Capitolo 10

Del modo che ‘l gran Can tien corte solenne e generale, e come siede a tavola con tutti i suoi baroni; e della credenza che è in mezo della sala, con li vasi d’oro da bere e altri pieni di latte di cavalle e camelle, e cerimonie che si fanno quando beve.

E quando il gran Can tiene una corte solenne, gli uomini seggono con tal ordine: la tavola del signor è posta avanti la sua sedia molto alta, e siede dalla banda di tramontana, talmente che volta la faccia verso mezodì; e appo lui siede la sua moglie dalla banda sinistra, e dalla banda destra, alquanto più basso, seggono i suoi figliuoli e nepoti e parenti, e altri che sono congiunti di sangue, cioè quelli che discendono dalla progenie imperiale. Nondimeno Cingis, suo primo figliuolo, siede alquanto più alto degli altri figliuoli. E i capi di questi stanno quasi uguali alli piedi del gran Can, e altri baroni e principi seggono ad altre tavole più basse, e similmente è delle donne, imperoché tutte le mogli de’ figliuoli del gran Can e parenti e nepoti seggono dalla banda sinistra più a basso; dopo le mogli de’ baroni e soldati ancora più basse, di modo che ciascuna siede secondo il suo grado e dignità nel luogo a lui deputato e conveniente. E le tavole sono talmente ordinate che ‘l gran Can, sedendo nella sua sedia, può veder tutti. Né crediate che tutti segghino a tavola, anzi la maggior parte de’ soldati e baroni mangia in sala sopra tapedi, perché non hanno tavole; e fuor della sala sta gran moltitudine d’uomini che vengono da diverse parti, con varii doni di cose strane e non solite a vedersi, e sonvi alcuni che hanno avuto qualche dominio e desiderano di riaverlo, e questi sogliono sempre venire in tali giorni che ‘l tien corte bandita overo fa nozze. E nel mezo della sala dove il signor siede a tavola è un bellissimo artificio grande e ricco, fatto a modo d’un scrigno quadro, e ciascun quadro è di tre passa, sottilmente lavorato con bellissime scolture d’animali indorati, e nel mezo è incavato e vi è un grande e precioso vaso a modo d’un pittaro, di tenuta d’una botte, nel quale vi è il vino; e in ciascun cantone di questo scrigno è posto un vaso di tenuta d’un bigoncio, in uno de’ quali è latte di cavalle e nell’altro di camelle, e così degli altri, secondo che sono diverse maniere di bevande. E in detto scrigno stanno tutti i vasi del signore, co’ quali se li porge da bere, e sonvi alcuni d’oro bellissimi, che si chiamano vernique, le quali sono di tanta capacità che ciascuna, piena di vino overo d’altra bevanda, sarebbe a bastanza da bere per otto o dieci uomini; e a ogni due persone che seggono a tavola si pone una verniqua piena di vino con una obba, e le obbe sono fatte a modo di tazze d’oro che hanno il manico, con le quali cavano il vino dalla verniqua, e con quelle bevono, la qual cosa si fa così alle donne come alli uomini. E questo signor ha tanti vasi d’oro e d’argento e così preziosi che non si potrebbe credere. Item sono deputati alcuni baroni, i quali hanno a disporre alli luoghi loro debiti e convenevoli i forestieri che sopravengono, che non sanno i costumi della corte: e questi baroni vanno continuamente per la sala qua e là, ricercando da quelli che seggono a tavola se cosa alcuna lor manca, e se alcuni vi sono che vogliano vino o latte o carni o altro, gliene fanno subito portar dalli servitori.

A tutte le porte della sala, overo di qualunque luogo dove sia il signore, stanno due uomini grandi a guisa di giganti, uno da una parte l’altro dall’altra, con un bastone in mano: e questo perché a niuno è lecito toccare la soglia della porta, ma bisogna che distenda il piede oltre, e se per aventura la tocca i detti guardiani li tolgono le vesti, e per riaverle bisogna che le riscuotino; e se non li togliono le vesti, li danno tante botte quante li sono deputate. Ma se sono forestieri che non sappino il bando, vi sono deputati alcuni baroni, che gl’introducono e ammoniscono del bando: e questo si fa perché se si tocca la soglia si ha per cattivo augurio. Nell’uscire veramente della sala, perché alcuni sono aggravati dal bere né potrebbono per modo alcuno guardarsi, non si ricerca tal bando. E quelli che fanno la credenza al gran Can e che gli ministrano il mangiare e bere sono molti, e tutti hanno fasciato il naso e la bocca con bellissimi veli overo fazzoletti di seta e d’oro, a questo effetto, acciò che il loro fiato non respiri sopra i cibi e sopra il vino del gran Can. E sempre, quando il signor vuol bere, subito che ‘l donzello glielo appresenta si tira adietro per tre passa e inginocchiasi, e tutti i baroni e altre genti s’inginocchiano, e tutte le sorti d’instrumenti che ivi sono in grandissima quantità cominciano a sonare fin che lui beve, e quando ha bevuto cessano gl’instrumenti e le genti si levano; e sempre quando beve se gli fa questo onore e riverenza. Delle vivande non si dice, perché ciascuno deve credere che vi siano in grandissima abondanza; e non è alcun barone che seco non meni la sua moglie, e mangiano con l’altre donne. E quando hanno mangiato e sono levate le tavole, vengono in sala molte genti, e tra l’altre gran moltitudine di buffoni e sonatori di diversi instrumenti e molte maniere d’esperimentatori, e tutti fanno gran sollazzi e feste avanti il gran Can, laonde tutti si rallegrano e consolansi. E quando tutto questo si è fatto, le genti si partono e ciascuno se ne torna a casa sua.

Capitolo 11

Della festa grande che si fa per tutto il dominio del gran Can alli ventotto di settembre, ch’è il giorno della sua natività, e come egli veste ben ventimila uomini.

Tutti li Tartari e quelli che sono subditi del gran Can fanno festa il giorno della natività d’esso signore, qual nacque alli ventotto della luna del mese di settembre; e in quel giorno si fa la maggior festa che si faccia in tutto l’anno, eccettuando il primo giorno del suo anno, nel qual si fa un’altra festa, come di sotto si dirà. Nel giorno adunque della sua natività, il gran Can si veste un nobil drappo d’oro, e ben circa ventimila baroni e soldati si vestono d’un colore e d’una maniera simile a quella del gran Can: non che siano drappi di tanto prezzo, ma sono d’un medesimo color d’oro e di seta, e insieme con la veste a tutti vien data una cintura di camoscia lavorata a fila d’oro e d’argento molto sottilmente, e un paro di calze, e ne sono alcune delle vesti che hanno pietre preziose e perle per la valuta più che di mille bisanti d’oro, come sono quelle delli baroni che per fedeltà sono prossimi al signore, e si chiamano quiecitari; e queste tali veste sono deputate solamente in feste tredeci solenni, le quali fanno i Tartari con gran solennità secondo tredeci lune dell’anno, di maniera che, come sono vestiti e adornati così riccamente, paiono tutti re. E quando il signore si veste alcuna vesta, questi baroni similmente si vestono d’una del medesimo colore, ma quelle del signore sono di maggior valuta e più preciosamente ornate; e dette vesti de’ baroni di continuo sono apparecchiate: non che se ne facciano ogn’anno, anzi durano dieci anni, e più e manco. E di qui si comprende la grand’eccellenza del gran Can, conciosiacosaché in tutt’il mondo non si troverà principe alcuno che possa far tante cose quanto egli fa.

In questo giorno della natività del detto signore tutti i Tartari del mondo e tutte le provincie e regni a lui sottoposti li mandano grandissimi doni, secondo che è l’usanza e l’ordine, e vengono assaissimi uomini con presenti, che pretendono impetrare grazia di qualche dominio: e il gran signore ordina alli dodici baroni sopra di ciò deputati che diano dominio e reggimento a questi tali uomini, secondo che a loro si conviene. E in questo giorno tutti i cristiani, idolatri e saraceni e tutte le sorti di genti pregano grandemente i loro iddii e idoli che salvino e custodiscano il loro signore, e a lui concedino longa vita, sanità e allegrezza. Tale e tanta è l’allegrezza in quel giorno della natività del signore.

Or, lasciando questa, diremo d’un’altra festa che si fa in capo dell’anno, chiamata la festa bianca.

Capitolo 12

Della festa bianca, che si fa il primo giorno di febraio, che è il principio del suo anno, e la quantità de’ presenti che li sono portati, e delle cerimonie che si fanno a una tavola dove è scritto il nome del gran Can.

Certa cosa è che li Tartari cominciano l’anno del mese di febraio, e il gran Can e tutti quelli che a lui sono sottoposti per le lor contrade celebrano tal festa, nella qual è consuetudine che tutti si vestino di vesti bianche, perché li pare che la vesta bianca significhi buon augurio: e però nel principio dell’anno si vestono di tal sorte vesti, acciò che tutto l’anno gl’intravenga bene e abbino allegrezza e solazzo. E in questo dì tutte le genti, provincie e regni che hanno terre e dominio del gran Can li mandano grandissimi doni d’oro e d’argento e molte pietre preziose e molti drappi bianchi, il che fanno loro acciò che il signore abbia tutto l’anno allegrezza e gaudio e tesoro a sufficienza da spendere; e similmente i baroni, principi e cavalieri e popoli si presentano l’un l’altro cose bianche per le sue terre, e abbracciansi l’un l’altro e fanno grand’allegrezza e festa, dicendosi l’un l’altro (come ancora si dice appresso di noi): “In questo anno vi sia in buon augurio, e v’intravenga bene ogni cosa che farete”: e ciò fanno acciò che tutto l’anno le cose loro succedano prosperamente. Presentasi al gran Can in questo giorno gran quantità di cavalli bianchi molto belli, e se non sono bianchi per tutto sono almanco bianchi per la maggior parte; e trovansi in quei paesi assaissimi cavalli bianchi.

Adunque è consuetudine appresso di loro, nel far de’ presenti al gran Cane, che tutte le provincie che lo possono fare osservino questo modo, che di ciascun presente nove volte nove presentano nove capi, cioè, se gli è una provincia che manda cavalli, presenta nove volte nove capi di cavalli, cioè ottantuno; se presenta oro, nove volte manda nove pezzi d’oro; se drappi, nove volte nove pezze di drappi; e così di tutte l’altre cose, di sorte che alle volte averà per questo conto centomila cavalli. Item in quel giorno vengono tutti gli elefanti del signore, che sono da cinquemila, coperti di drappi artificiosamente e riccamente lavorati d’oro e di seta, con uccelli e bestie intessuti, e ciascuno ha sopra le spalle due scrigni, pieni di vasi e fornimenti per quella corte. Vengono dopo molti camelli coperti di drappo di seta, carichi delle cose per la corte necessarie, e tutti così adornati passano avanti al gran signore, il che è bellissima cosa a vedere.

E la mattina di questa festa, prima che apparecchino le tavole tutti i re, duchi, marchesi, conti, baroni e cavalieri, astrologhi, medici e falconieri, e molti altri che hanno officii, e rettori delle genti, delle terre e delli eserciti entrano nella sala principale avanti il gran signore, e quelli che non vi possono stare stanno fuor del palagio, in tal luogo che ‘l signor li vede benissimo. E tutti sono ordinati in questo modo: primieramente sono i suoi figliuoli e nepoti e tutti della progenie imperiale; dopo questi sono i re, dopo i re i duchi, e dapoi tutti gli ordini, un dopo l’altro, come è conveniente. E quando tutti sono posti alli luoghi debiti, allora un grande uomo, come sarebbe a dire un gran prelato, levandosi dice ad alta voce: “Inchinatevi e adorate”, e subito tutti s’inchinano e abbassano la fronte verso la terra. Allora dice il prelato: “Dio salvi e custodisca il nostro signore per longo tempo con allegrezza e letizia”, e tutti rispondono: “Iddio lo faccia”. E dice un’altra volta il prelato: “Dio accresca e moltiplichi l’imperio suo di bene in meglio, e conservi tutta la gente a lui sottoposta in tranquilla pace e buona volontà, e in tutte le sue terre succedino tutte le cose prospere”, e tutti rispondono: “Iddio lo faccia”. E in questo modo adorano quattro volte. Fatto questo, detto prelato va ad un altare che ivi è, riccamente adornato, sopra il qual è una tavola rossa nella qual è scritto il nome del gran Can, e vi è il turibolo con l’incenso, e il prelato in vece di tutti incensa quella tavola e l’altare con gran riverenza, e allora tutti riveriscono grandemente la detta tavola dell’altare. Il che fatto, tutti ritornano alli luoghi loro, e allora si presentano i doni che abbiamo detto; e quando sono fatti i presenti e che il gran signore ha veduto ogni cosa, s’apparecchiano le tavole e le genti seggono a tavola, al modo e ordine detto negli altri capitoli, così le donne come gli uomini. E quando hanno mangiato vengono li musici e buffoni alla corte, solazzando, come di sopra s’è detto, e si mena alla presenza del signore un leone, ch’è tanto mansueto che subito si pone a giacer alli piedi di quello; e quando tutto ciò è fatto, ognun va a casa sua.

Capitolo 13

Della quantità degli animali del gran Can, che fa pigliar il mese di dicembre, gennaio e febraio e portar alla corte.

Mentre il gran Can dimora nella città del Cataio tre mesi, cioè dicembre, gennaio e febraio, ne’ quali è il gran freddo, ha ordinato per il spazio di quaranta giornate, atorno atorno il luogo dove egli è, che tutte le genti debbano andare a caccia, e li rettori delle terre debbino mandare alla corte tutte le bestie grosse, cioè cingiali, cervi, daini, caprioli, orsi. E tengono questo modo in prenderle: ciascun signore della provincia fa venire con esso lui tutti i cacciatori del paese, e vanno ovunque si siano le bestie serrandole a torno, e quelle con li cani e il più con le freccie uccidono, e a quelle bestie che vogliono mandare al signore fanno cavar l’interiora, e poi le mandano sopra carri. E ciò fanno quelli che sono lontani trenta giornate in grandissima quantità; quelli veramente che sono distanti quaranta giornate, per essere troppo lontani, non mandano le carni, ma solamente le pelli acconcie e altre che non sono acconcie, acciò che il signor possa far fare le cose necessarie, cioè per conto dell’arme ed eserciti.

Capitolo 14

Delli leopardi, lupi cervieri e leoni assuefatti a pigliar degli animali, e dell’aquile che pigliano lupi.

Il gran Can ha molti leopardi e lupi cervieri usati alla caccia, che prendono le bestie, e similmente molti leoni che sono maggiori de’ leoni di Babilonia, e hanno bel pelo e bel colore, perché sono vergati per il longo di verghe bianche, nere e rosse, e sono abili a prender cinghiali, buoi e asini salvatici, orsi e cervi e caprioli e molte altre fiere: ed è cosa molto maravigliosa a vedere, quando un leone prende simili animali, con quanta ferocità e prestezza fa questo effetto; quali leoni il signor fa portar nelle gabbie sopra i carri, e con quelli un cagnolino con il qual si domesticano. E la cagione perché si conduchino nelle gabbie è perché sarebbono troppo furiosi e rabbiosi nel correre alle bestie né si potriano tenere, e bisogna che li siano menati a contrario di vento, perché, se le bestie sentissero l’odor di quelli, subito fuggirebbono e non gli aspettarebbono. Ha il gran Can ancora aquile atte a prender lupi, volpi, caprioli e daini: e di quelli ne prendono molti; ma quelle che sono assuefatte a prendere lupi sono grandissime e di gran forza, imperoché non è lupo così grande che da quelle possa campare che non sia preso.

Capitolo 15

Di due fratelli che sono capitani della caccia del gran Can, con diecimila uomini per uno e con cinquemila cani.

Il gran signore ha due fratelli, che sono germani fratelli, uno de’ quali si chiama Bayan e l’altro Mingan, e chiamansi ciuici in lingua tartaresca, cioè signori della caccia, e tengono i cani da caccia e da paisa, da lepori e mastini; e ciascun di questi fratelli ha diecimila uomini sotto di sé, e gli uomini che sono sottoposti ad uno di questi vanno vestiti di rosso, e li sottoposti all’altro di turchino celeste: e ogni volta che vanno alla caccia portano queste vesti, e menano seco cani segusii, levrieri e mastini sino al numero di cinquemila, perché sono pochi che non abbino cani. E sempre uno di questi fratelli con li suoi diecimila va alla destra del signore, e l’altro alla sinistra con li suoi diecimila, e vanno l’un appresso all’altro con le schiere in ordinanza, sì che occupano ben una giornata di paese: per il che non vi è bestia che da loro non sia presa. Ed è una bella cosa e molto dilettevole a veder il modo de’ cacciatori e de’ cani, imperoché, mentre ch’il gran Can va in mezo cacciando, si veggono questi cani seguitar cervi, orsi e altre bestie da ogni banda. E questi due fratelli sono obligati per patto dare alla corte del gran Can ogni giorno, cominciando del mese d’ottobre sino per tutto il mese di marzo, mille capi tra bestie e uccelli, eccettuando quaglie, e ancora pesci, secondo che meglio possono, computando tanta quantità di pesce per un capo quanto potrebbono tre persone sufficientemente mangiare ad un pasto.

Capitolo 16

Del modo che va il gran Can a veder volare li suoi girifalchi e falconi, e delli falconieri; e della sorte de’ padiglioni, che sono fodrati d’armellini e zibellini.

Quando il gran signore è stato tre mesi nella sopradetta città, cioè dicembre, gennaio e febraio, indi partendosi il mese di marzo va verso greco al mare Oceano, il quale da lì è discosto per due giornate; e con lui cavalcano ben diecimila falconieri, i quali portano con loro gran moltitudine di girifalchi, falconi pellegrini e sacri e gran quantità d’astori, per conto d’uccellare per le riviere. Ma non crediate che il gran Can li ritenga seco in un medesimo luogo, anzi si dividono in molte parti, cioè in cento e dugento e più per parte, i quali vanno uccellando: e la maggior parte della loro cacciagione portano al gran signore, il qual, quando va ad uccellare con li suoi girifalchi e altri uccelli, ha ben seco diecimila persone, che si chiamano toscaol, cioè uomini che stanno alla custodia, perché sono deputati tutti a due a due, qua e là per qualche spazio, una parte discosta dall’altra, talmente che occupano gran parte del paese, e ciascuno ha un richiamo e un cappelletto per chiamare e tenere gli uccelli. E quando il gran signor comanda che si gettino gli uccelli, non accade che quelli che li gettano abbino a seguitarli, perché li sopradetti guardiani così bene li custodiscono che non volano in parte alcuna che non siano presi, e se bisogna soccorrerli subito li guardiani gli soccorrono. E tutti gli uccelli del gran Can e degli altri baroni hanno una picciola tavoletta d’argento legata alli piedi, nella quale è scritto il nome di colui di chi è l’uccello e chi l’ha in governo: e per questo modo, subito che l’uccello è preso, si conosce immediate di chi egli è e ritornasegli, e se non si sa, overo perché quello che l’ha preso non lo conosce personalmente, ancor che sappia il nome, allora si porta a un barone nominato bulangazi, che vuol dire custode delle cose delle quali non appare il padrone. Perché, se si trovasse alcun cavallo overo spada over uccello o qualch’altra cosa, e non fosse denunciata di chi si sia, subito si porta al detto barone, il quale lo toglie e lo fa custodire diligentemente: e s’alcuno truova qualche cosa che sia persa e non la porti al barone, è riputato ladro. E tutti quelli che perdono cosa alcuna vanno da questo barone, il qual gli fa restituire le cose perdute; e questo barone sempre dimora in luogo più alto di tutto l’esercito con la sua bandiera a questo effetto, acciò che quelli che hanno perso le loro cose lo possino veder chiaramente tra gli altri. E in questo modo non si perde cosa alcuna che non si possa recuperare.

Oltre di ciò, quando il gran Can va a questa via appresso al mare Oceano, allora si veggono molte cose belle in prendere gli uccelli, di modo che non è sollazzo al mondo che a questo possa aguagliarsi. E il gran Can sempre va sopra due elefanti, overo uno, specialmente quando va ad uccellare, per la strettezza de’ passi che si truovano in alcuni luoghi, imperoché meglio passano due over uno che molti; ma nell’altre sue faccende va sopra quattro, e sopra quelli v’è una camera di legno nobilmente lavorata, e dentro tutta coperta di panni d’oro e di fuori coperta di cuori di leoni, nella qual dimora continuamente il gran Can quando va ad uccellare, per essere molestato dalle gotte. E tiene nella detta camera dodici de’ migliori girifalchi ch’egli abbia, con dodici baroni suoi favoriti per sua compagnia e solazzo. E gli altri che cavalcano d’intorno fanno intendere al signor che passano le grue o altri uccelli, ed egli fa levar il coperchio di sopra della camera e, vedute le grue, comanda che si lascino volare li girifalchi, li quali prendono le grue combattendo con quelle per gran spazio di tempo, vedendo il signore e stando nel letto, con grandissimo suo solazzo e consolazione, e così di tutti gli altri baroni e cavallieri che cavalcano d’intorno.

E quando ha uccellato per alquante ore, se ne viene ad un luogo chiamato Caczarmodin, dove sono le trabacche e i padiglioni de suoi figliuoli e d’altri baroni, cavallieri e falconieri, che passano diecimila, molto belli. Il padiglione veramente del signore, nel quale tiene la sua corte, è tanto grande e amplo che sotto vi stanno diecimila soldati, oltre li baroni e altri signori; ha la porta verso mezodì, e v’è ancora un’altra tenda verso levante, a questa congiunta, dove è una gran sala dove stanzia il signore con alcuni suoi baroni, e quando vuol parlare ad alcuno lo fa entrare in quella. Dopo la detta sala è una camera grande, molto bella, nella qual dorme. Sonvi molte altre tende e camere, ma non sono insieme congiunte con le grandi. E tutte le sopradette camere e sale sono ordinate in questo modo, che ciascuna ha tre colonne di legno intagliate con grandissimo artificio e indorate. E detti padiglioni e tende di fuori sono coperte di pelli di leoni, e vergate di verghe bianche, nere e rosse, e così ben ordinate che né vento né pioggia li può nuocere; e dalla parte di dentro sono fodrate e coperte di pelli armelline e zibelline, che sono le pelli di maggior valuta di qualunque altra pelle, perché la pelle zibellina, s’ella è tanta che sia a bastanza per un paro di veste, vale duemila bisanti d’oro s’ella è perfetta, ma s’ella è commune ne vale mille; e li Tartari la chiamano regina delle pelli, e gli animali si chiamano rondes, della grandezza d’una fuina. E di queste due sorti di pelle le sale del signor sono così maestrevolmente ordinate, in varie divisioni, che è una cosa mirabile a vedere; e la camera dove dorme, che è congiunta alle due sale, è similmente dalla parte di fuori coperta di pelli di leoni, e di dentro di pelli zibelline e armelline divisate; e le corde che tengono le tende delle sale e camere sono tutte di seta. E atorno queste sono tutte l’altre tende delle mogli del signore, molto ricche e belle, le quali hanno girifalchi, falconi e altri uccelli e bestie, e vanno ancora loro a piacere.

E sappiate per certo che in questo campo è tanta moltitudine di gente che gli è cosa incredibile, e a ciascuno pare essere nella miglior città che sia in queste parti, perché ivi sono genti di tutto il dominio, e con il signor vi è tutta la sua famiglia, cioè medici, astronomi, falconieri e tutti gli altri che hanno diversi officii. E sta in questo luogo fino alla prima vigilia della nostra Pasqua, nel qual spazio di tempo non cessa d’andare continuamente appresso alli laghi e riviere, uccellando e prendendo grue e cigni, argironi e molti altri uccelli; le sue genti ancora, che sono sparse per molti luoghi, li portano molte cacciagioni. In questo tempo adunque sta in tanto solazzo e allegrezza che niuno lo potria credere che non lo vedesse, però che la sua eccellenza e grandezza è molto maggiore di quello che a noi saria possibile d’esprimere.

Un’altra cosa è ancora ordinata, che niuno mercatante o artifice o villano abbia ardire di ritenere astore, falcone over altro uccello che sia atto ad uccellare, né cane da caccia, per tutto il dominio del gran Can; e niuno barone o cavalier od altro nobile qualsivoglia ardisce di cacciare o uccellare circa il luogo dove dimora il gran Can, d’alcuna parte per cinque giornate e d’alcuna parte per dieci e d’alcuna altra per quindeci, se ‘l non è scritto sotto il capitano de’ falconieri, overo abbia privilegio sopra queste cose, ma ben fuor de’ confini determinati. Item per tutte le terre le quali signoreggia il gran Cane niuno re overo barone o altro uomo ardisce di pigliare lepori, caprioli, daini o cervi e simili bestie e uccelli grossi dal mese di marzo fino al mese d’ottobrio, acciò che creschino e moltiplichino: e chi contrafacesse verrebbe punito. E per questa causa moltiplicano gli animali e uccelli in grandissima quantità. E poi il gran Can se ne ritorna alla città di Cambalù, per quella medesima via che ei fu alla campagna, uccellando e cacciando.

Capitolo 17

Della moltitudine delle genti che di continuo vanno e vengono alla città di Cambalù, e mercanzie di diverse sorti.

Giunto il gran Can nella città, tien la sua corte grande e ricca per tre giorni, e fa festa e grandissima allegrezza con tutta la sua gente ch’è stata seco; e la solennità ch’egli fa in questi tre giorni è cosa mirabile a vedere.

Ed evvi tanta moltitudine di gente e di case nella città e di fuori (perché vi sono tanti borghi come porte, che sono dodici, molto grandi) che niuno potria comprendere il numero, però che sono più genti ne’ borghi che nella città. E in questi borghi stanno e alloggiano li mercanti, e altri uomini che vanno là per sue faccende, i quali sono molti, per causa della residenzia del signore: e dovunque egli tiene la sua corte, là vengono le genti da ogni banda, per diverse cagioni. E ne’ borghi sono belle case e palagi come nella città, eccettuando il palagio del gran Can. E niuno che muore è sepelito nella città, ma s’egli è idolatro è portato al luogo dove si deve abbruciare, il qual è fuor di tutti i borghi; e parimente niun maleficio si fa nella città, ma solamente fuor de’ borghi. Item niuna meretrice (salvo se non è secreta), come altre volte s’è detto, ha ardimento di star nella città, ma abitano tutte ne’ borghi, e passano venticinquemila, che servono gli uomini per denari: nondimeno tutte sono necessarie, per la gran moltitudine de’ mercanti e altri forestieri che là vanno e vengono di continuo per la corte. Item a questa città si portano le più care cose e di maggior valuta che siano in tutt’il mondo, però che primamente dall’India si portano pietre preciose e perle e tutte le speciarie; item tutte le cose di valuta della provincia del Cataio e che sono in tutte l’altre provincie, e questo per la moltitudine della gente che quivi dimora di continuo per causa della corte: e quivi si vendono più mercanzie che in alcun’altra città, perché ogni giorno v’entrano più di mille fra carrette e some di seta, e si lavorano panni d’oro e di seta in grandissima quantità. E intorno a questa città vi sono infinite castella e altre città, le genti delle quali vivono per la maggior parte, quando la corte è quivi, vendendo le cose necessarie alla città e comprando quelle che a loro fa di bisogno.

Capitolo 18

Della sorte della moneta di carta che fa fare il gran Can, qual corre per tutto il suo dominio.

In questa città di Cambalù è la zecca del gran Can, il quale veramente ha l’alchimia, però che fa fare la moneta in questo modo: egli fa pigliar i scorzi degli arbori mori, le foglie de’ quali mangiano i vermicelli che producono la seta, e tolgono quelle scorze sottili che sono tra la scorza grossa e il fusto dell’arbore, e le tritano e pestano, e poi con colla le riducono in forma di carta bambagina, e tutte sono nere; e quando son fatte le fa tagliare in parti grandi e picciole, e sono forme di moneta quadra, e più longhe che larghe. Ne fa adunque fare una picciola che vale un denaro d’un picciolo tornese, e l’altra d’un grosso d’argento veneziano; un’altra è di valuta di due grossi, un’altra di cinque, di dieci, e altra d’un bisante, altra di due, altra di tre, e così si procede sin al numero di dieci bisanti. E tutte queste carte overo monete sono fatte con tant’auttorità e solennità come s’elle fossero d’oro o d’argento puro, perché in ciascuna moneta molti officiali che a questo sono deputati vi scrivono il loro nome, ponendovi ciascuno il suo segno; e quando del tutto è fatta com’ella dee essere, il capo di quelli per il signor deputato imbratta di cinaprio la bolla concessagli e l’impronta sopra la moneta, sì che la forma della bolla tinta nel cinaprio vi rimane impressa: e allora quella moneta è auttentica, e s’alcuno la falsificasse sarebbe punito dell’ultimo supplicio. E di queste carte overo monete ne fa far gran quantità, e le fa spendere per tutte le provincie e regni suoi, né alcuno le può rifiutare, sotto pena della vita; e tutti quegli che sono sottoposti al suo imperio le tolgono molto volentieri in pagamento, perché dovunque vanno con quelle fanno i loro pagamenti di qualunque mercanzia di perle, pietre preciose, oro e argento, e tutte queste cose possono trovare col pagamento di quelle. E più volte l’anno vengono insieme molti mercanti con perle e pietre preciose, con oro e argento e con panni d’oro e di seta, e il tutto presentano al gran signore, qual fa chiamare dodici savii, eletti sopra di queste cose e molto discreti ad esercitar quest’officio, e li comanda che debbano tansar molto diligentemente le cose che hanno portato li mercanti, e per la valuta le debbano far pagare. Essi, stimate che l’hanno secondo la lor conscienzia, immediate con vantaggio le fanno pagare con quelle carte, e li mercanti le tolgono volentieri, perché con quelle (come s’è detto) fanno ciascun pagamento; e se sono di qualche regione ove queste carte non si spendono, l’investono in altre mercanzie buone per le lor terre. E ogni volta ch’alcuno averà di queste carte che si guastino per la troppa vecchiezza, le portano alla zecca, e gliene son date altretante nuove, perdendo solamente tre per cento. Item, s’alcuno vuol avere oro o argento per far vasi o cinture o altri lavori, va alla zecca del signore, e in pagamento dell’oro e dell’argento li porta queste carte; e tutti li suoi eserciti vengono pagati con questa sorte di moneta, della qual loro si vagliono come s’ella fosse d’oro o d’argento: e per questa causa si può certamente affermare che il gran Can ha più tesoro ch’alcun altro signor del mondo.

Capitolo 19

De’ dodici baroni deputati sopra gli eserciti, e di dodici altri deputati sopra la provisione de l’altre universali facende.

Il gran Can elegge dodici grandi e potenti baroni (come di sopra s’è detto) sopra qualunque deliberazione che si fa degli eserciti, cioè di mutarli dal luogo dove sono e mutare i capitani, overo mandargli dove veggono esser necessario, e di quella quantità di gente che ‘l bisogno ricerca, e più e manco, secondo l’importanza della guerra. Oltre di ciò, hanno a far la scelta de’ valenti e franchi combattenti da quelli che sono vili e abietti, esaltandoli a maggior grado, e per il contrario deprimendo quelli che sono da poco e paurosi. E s’alcuno è capitano di mille, e abbisi portato vilmente in qualche fazione, i baroni predetti, reputandolo indegno di quella capitaneria, lo disgradano e abbassano al capitaneato di cento; ma se nobilmente e francamente si sarà portato, riputandolo sofficiente e degno di maggior grado, lo fanno capitano di diecimila: ogni cosa però facendo con saputa del gran signore, però che, quando vogliono deprimere e abbassare alcuno, dicono al signore: “Il tale è indegno di tal onore”, ed egli allora risponde: “Sia depresso e fatto di grado inferiore”, e così è fatto. Ma se vogliono esaltare alcuno, così ricercando i meriti suoi, dicono: “Il tal capitano di mille è degno e sofficiente d’esser capitano di diecimila”, e il signor lo conferma, e dàlli la tavola del comandamento a tal signoria convenevole, come di sopra s’è detto, e appresso gli fa dare grandissimi presenti, per inanimire gli altri a farsi valenti.

La signoria adunque de’ detti dodici baroni si chiama thai, che tanto è a dire come corte maggiore, perché non hanno signor alcun sopra di sé salvo che ‘l gran Can; e oltre i sopradetti son constituiti dodici altri baroni sopra tutte le cose che sono necessarie a trentaquattro provincie, quali hanno nella città di Cambalù un bel palagio e grande, con molte camere e sale. E ciascuna provincia ha un giudice e molti notari, che stanziano in detto palagio separatamente, e quivi fanno ogni cosa necessaria alla sua provincia, secondo la volontà e comandamento de’ detti dodici baroni. Questi hanno auttorità d’eleggere signori e rettori di tutte le provincie di sopra nominate, e quando hanno eletto quelli che li paiono sofficienti lo fanno sapere al gran Can, ed egli li conferma e dàlli le tavole d’argento o d’oro, secondo che li pare a ciascuno esser conveniente. Hanno ancora questi a provedere sopra le esazioni de’ tributi e intrate, e circa il governo e dispensazione di quelle, e sopra tutte l’altre faccende del gran Can, eccetto che sopra gli eserciti. E l’officio overo signoria loro chiamasi singh, che vuol dire quanto seconda maggior corte, perché similmente non hanno sopra di loro signore, eccetto che ‘l gran Can. L’una e l’altra adunque delle dette corti, cioè di singh e di thai, non hanno alcun signore sopra di loro, eccetto che ‘l gran Can; nondimeno thai, cioè la corte deputata alla disposizione degli eserciti, è riputata più nobile e più degna di qualunque altra signoria.

Capitolo 20

De’ luoghi deputati sopra tutte le strade maestre, dove tengono cavalli per correre le poste, e de’ corrieri che vanno a piedi, e del modo ch’ei tiene a mantenere tutta la spesa delle dette poste.

Uscendo della città di Cambalù, vi sono molte strade e vie per le quali si va a diverse provincie, e in ciascuna strada, dico di quelle che sono le più principali e maestre, sempre, in capo di venticinque miglia o trenta, e più e manco secondo le distanzie delle città, si truovano alloggiamenti che nella lor lingua si chiamano lamb, che nella nostra vuol dire poste di cavalli, dove sono palagi grandi e belli, che hanno bellissime camere con letti forniti e paramenti di seta e tutte le cose condecenti a’ gran baroni. E in ciascuna di simil poste potrebbe un gran re onoratamente alloggiare, e gli vien provisto del tutto per le città o castelli vicini, e ad alcuni la corte vi provede. Quivi sono di continuo apparecchiati quattrocento buoni cavalli, e accioché tutti li nunzii e ambasciatori che vanno per le faccende del gran Can possino dismontare quivi e, lasciati i cavalli stracchi, pigliarne di freschi.

Ne’ luoghi veramente fuor di strada e montuosi, dove non sono villaggi e che le città siano lontane, il gran Can ha ordinato che vi siano fatte le poste, overo palagi similmente forniti di tutti gli apparecchi, cioè di cavalli quattrocento per posta e di tutte l’altre cose necessarie come le sopradette, e vi manda genti che v’abitano e lavorino le terre e servino a esse poste. E vi si fanno di gran villaggi, e così gli ambasciatori e nuncii del gran Can vanno e vengono per tutte le provincie e regni e altre parti sottoposte al suo dominio con gran commodità e facilità: e questa è la maggior eccellenza e altezza che già mai avesse alcun imperatore o re over altro uomo terreno, perché più di dugentomila cavalli stanno in queste poste per le sue provincie, e più di diecimila palagi forniti di così ricchi apparecchi. E questo è sì mirabil cosa e di tanta valuta che a pena si potrebbe dire o scrivere. E s’alcuno dubitasse come siano tante genti a far tante facende e onde vivono, si risponde che tutti gl’idolatri e similmente saraceni tolgono ciascuno sei, otto o dieci mogli, pur che gli possino far le spese, e generano infiniti figliuoli: e saranno molti uomini, de’ quali ciascuno averà più di trenta figliuoli, e tutti armati lo seguitano, e questo per causa delle molte mogli. Ma appresso di noi non s’ha se non una moglie, e se quella sarà sterile l’uomo finirà la sua vita con lei, né genera alcun figliuolo: e però non abbiamo tante genti come loro. E circa le vettovaglie, n’hanno a bastanza, perché usano per la maggior parte risi, panizzo e miglio, spezialmente Tartari, Cataini e della provincia di Mangi, e queste tre semenze, nelle loro terre, per ciascun staro ne rendono cento. Non usano pane queste genti, ma solamente cuocono queste tre sorti di biade col latte, overo carni, e mangiano quelle; e il frumento appresso di loro non moltiplica così, ma quello che ricogliono mangiano solamente in lasagne e altre vivande di pasta. Appresso di loro non vi resta terra vacua che si possa lavorare, e i lor animali senza fine crescono e moltiplicano, e quando vanno in campo non è alcuno che non meni seco sei, otto e più cavalli per la persona sua, onde si può chiaramente comprendere per che causa in quelle parti sia così gran moltitudine di genti, e che abbino da vivere così abbondantemente.

Item fra il spazio di ciascuna delle sopradette poste è ordinato un casale ogni tre miglia, nel qual possono essere circa quaranta case, e più e manco secondo che i casali sono grandi, dove stanno corrieri a piedi, i quali similmente sono nunzii del gran Can. Costoro portano intorno cinture piene di sonagli, accioché siano uditi dalla lunga, perché corrono solamente tre miglia, cioè dalla sua posta ad un’altra; odendosi il strepito de’ sonagli, subitamente s’apparecchia un altro, e giunto piglia le lettere e corre fino all’altra posta, e così di luogo in luogo, di sorte che il gran Can in due giorni e due notti ha nuove di lontano per dieci giornate. E al tempo de’ frutti spesse volte la mattina si raccolgono frutti nella città di Cambalù, e il giorno seguente verso sera sono portati al gran Can nella città di Xandù, la qual è discosto per dieci giornate. In ciascuna di queste poste di tre miglia è deputato notaio, che nota il giorno e l’ora che giugne il corriero, e similmente il giorno e l’ora che si parte l’altro, e così si fa in tutte le poste. E vi sono alcuni ch’hanno questo carico, d’andare ogni mese ad esaminar tutte queste poste, e veder quei corrieri che non hanno usato diligenza, e li castigano. E il gran Can da questi tali corrieri e da quelli che stanno nelle poste non fa pagare alcuno tributo, anzi li dona buona provisione, e ne’ cavalli che si tengono in dette poste non fa quasi alcuna spesa, perché le città, castelli e ville che sono circonstanti ad esse poste li pongono e mantengono in quelle, però che, di comandamento del signore, i rettori della città fanno cercare ed esaminar per li pratichi delle città quanti cavalli possa tenere la città nella posta a sé propinqua, e quanti ve ne possono tenere i castelli e quanti le ville, e secondo il loro potere ve li pongono. E sono le città concordevoli l’una con l’altra, perché fra una posta e l’altra v’è alle volte una città, la qual con l’altre vi pone la sua porzione; e queste città mantengono i cavalli dell’entrate che doverebbono pervenire al gran Can, imperoché tal uomo doverebbe pagare tanto che potria tenere un cavallo e mezo, comandandosegli che quello tenga nella posta a sé propinqua. Ma dovete sapere che le città non mantengono di continuo quattrocento cavalli nelle poste, anzi ne tengono dugento al mese che sostenghino le fatiche, e in questo mezo altri dugento n’ingrassano, e in capo del mese gl’ingrassati si pongono nella posta e gli altri similmente s’ingrassano, e così vanno facendo di continuo. Ma se gli accade che in alcun luogo sia qualche fiume o lago, per il qual bisogni che i corrieri e quelli a cavallo vi passino, le città propinque tengono tre e quattro navilii apparecchiati di continuo a questo effetto, e se bisogna passar alcun deserto di molte giornate, nel qual far non si possa abitazione alcuna, la città ch’è appresso tal deserto è tenuta a dar li cavalli agli ambasciatori del signore fino oltre il deserto, e le vettovaglie con le scorte, ma il signor dà aiuto a quella città. E nelle poste che son fuor di strada il signor tiene in parte suoi cavalli, e in parte ve gli tengono le città, castella, ville lì propinque. Ma quando è di bisogno che i nunzii del signore affrettino il cammino, per causa di fargli intendere di qualche terra che se gli sia ribellata, o per alcun barone o altre cose necessarie, cavalcano in un giorno ben dugento miglia o dugentocinquanta, e fanno così, quando vogliono andare con grandissima celerità: portano la tavola del girifalco, in segno che vogliono andar velocissimamente; se sono due, e che si partono d’un medesimo luogo, quando sono sopra due buoni cavalli corsieri si cingono tutt’il ventre e si rivolgono il capo, e si mettono a correr quanto più possono, e come sono appresso gli alloggiamenti suonano una sorte di corno che si sente di lontano, acciò che preparino i cavalli, quali trovati freschi e riposati, saltano sopra quelli: e così fanno di posta in posta sino a sera, e in tal guisa potranno far in un giorno da dugentocinquanta miglia. E s’egli è caso molto grave cavalcano la notte, e se non luce la luna quelli della posta gli vanno correndo avanti con lumiere sino all’altra posta; nondimeno i detti nunzii al tempo di notte non vanno con tanta celerità come di giorno, per rispetto di quelli che corrono a piedi con le lumiere, che non possono essere così presti. E molto s’apprezzano tal nunzii che possono sostenere una simil fatica di correre.

Capitolo 21

Delle provisioni che fa il gran Can in tutte le sue provincie in tempo di carestia o mortalità d’animali.

Il gran Can manda sempre ogn’anno suoi nunzii e proveditori per vedere se le sue genti hanno danno delle loro biade per difetto di tempo, cioè per cagione di tempesta o di molte pioggie e venti, o per cavallette, vermi o altre pestilenzie. E se in luogo alcuno vi troveranno esser tal danno, il signore non fa scuoter da quelle genti il solito tributo quell’anno, anzi le fa dare tanta biada de’ suoi granari quanto lor bisogna per mangiare e per seminare, conciosiacosaché, ne’ tempi della grand’abbondanza, il gran Can fa comprare grandissima quantità di biade della sorte che loro adoperano, e le fa salvare ne’ granari che sono deputati in ciascuna provincia, e con gran diligenzia le fa governare, che per tre e quattro anni non si guastano. E sempre vuole che li detti granari siano pieni, per provedere ne’ tempi di carestia; e quando in detti tempi egli fa vendere le sue biade a denari, riceve di quattro misure da quelli che le comprano quanto se ne riceve d’una misura dagli altri che ne vendono. Similmente fa proveder di bestie, che in qualche provincia per mortalità fossero perse, e gli fa dare delle sue, ch’egli ha per decima dell’altre provincie. E tutto il suo pensiero e intento principale è di giovar alle genti che sono sotto di lui, che possono vivere, lavorare e moltiplicare i loro beni.

Ma vogliamo dire un’altra proprietà del gran Can, che se per caso fortuito la saetta ferisse alcun greggie di pecore o montoni o altri animali di qualunque sorte, che fosse d’una o più persone, e sia il gregge quanto si voglia grande, il gran Can non torrebbe per tre anni la decima. E parimente, s’avviene che la saetta ferisca qualche nave piena di mercanzie, lui non vuole alcuna rendita o porzione da quella, perché reputa cattivo augurio quando la saetta percuote ne’ beni d’alcuno; e dice il gran Can: “Dio aveva in odio colui, però l’ha percosso di saetta”, onde non vuole che tali beni da ira divina percossi entrino nel suo tesoro.

Capitolo 22

Come il gran Can fa piantare arbori appresso le strade maestre e principali, e come le fa tenere sempre acconcie.

Un’altra cosa bella e commoda fa fare il gran Can, che appresso le strade maestre dall’uno e l’altro lato fa piantar arbori, quali siano della sorte che venghino grandi e alti, e discosti l’un dall’altro per due passa, accioché i viandanti possino discernere la dritta strada: il che è di grande aiuto e consolazione a quelli che camminano. Fa piantare adunque sopra tutte le principali, pur che ‘l luogo sia abile ad essere piantato; ma ne’ luoghi arenosi e deserti e ne’ monti sassosi, dove passano dette strade e non è possibile di piantarvegli, fa mettere altri segnali di pietre e colonne che dimostrano la strada. E ha alcuni baroni, ch’hanno il carico d’ordinare che di continuo siano tenute acconcie. E oltre quanto di sopra s’è detto degli arbori, il gran Can più volentieri gli fa piantare perché i suoi divinatori e astrologhi dicono che chi fa piantar arbori vive longo tempo.

Capitolo 23

Della sorte di vino che si fa nella provincia del Cataio, e delle pietre che abbruciano a modo di carboni.

La maggior parte della gente della provincia del Cataio beve questa sorte di vino: fanno una bevanda di riso e di molte speciarie mescolate insieme, e bevono questa bevanda overo vino così bene e saporitamente che miglior non saperiano desiderare, ed è chiaro e splendido e gustevole, e più presto inebria d’ogn’altro, per essere calidissimo.

Per tutta la provincia del Cataio si truova una sorte di pietre nere, le quali si cavano da’ monti a modo di vena, ch’ardono e abbruciano come carboni, e tengon il fuoco molto meglio delle legne, e lo conservano tutta la notte, di sorte ch’ei si truova la mattina acceso. Queste pietre non fanno fiamma, se non un poco in principio quando s’accendono, come fanno i carboni, e stando così affocati rendono gran calore. Per tutta la provincia s’abbruciano queste pietre. Vero è ch’hanno molte legne, ma tanta è la moltitudine delle genti, e stuffe e bagni che continuamente si scaldano, che le legne non potrebbono esser a bastanza, perché non è alcuno che almanco per tre volte la settimana non vada alla stuffa e facciasi bagni, e l’inverno ogni giorno, pur che far lo possino; e ciascuno nobile o ricco ha la sua stuffa in casa nella qual si lava, talmente che le legne non basterebbono a tanto abbruciamento. E di queste pietre si trovano in grandissima quantità, e costano poco.

Capitolo 24

Della grande e mirabile liberalità che ‘l gran Can usa verso i poveri di Cambalù e altre genti che vengono alla sua corte.

Poi ch’abbiamo detto come il gran Can fa far abbondanza delle biade alle genti a lui sottoposte, ora diremo della gran carità e provisione ch’egli fa fare alle povere genti che sono nella città di Cambalù. Com’egli intende che qualche famiglia di persone onorate e da bene per qualche infortunio siano diventate povere, o per qualche infermità non possino lavorare e non abbino modo di ricogliere sorte alcuna di biade, a queste tal famiglie ne fa dar tante che gli possino far le spese per tutto l’anno; e dette famiglie al tempo solito vanno agli officiali che sono deputati sopra tutte le spese che si fanno per il gran Can, i quali dimorano in un palagio a tal officio deputato, e ciascuna mostra un scritto di quanto gli fu dato per il vivere dell’anno passato, e secondo quello gli proveggono quell’anno. Provedesi ancora del vestir loro, conciosiacosaché il gran Can ha la decima di tutte le lane e sete e canave delle quali si possono far vesti, e queste tal cose le fa tessere e far panni, in una casa a questo deputata dove sono riposte; e perché tutte l’arti sono obligate per debito di lavorargli un giorno la settimana, il gran Can fa far delle vesti di questi panni, quali fa dar alle sopradette famiglie di poveri, secondo si richiede al tempo dell’inverno e al tempo della state. Provede ancora di vestimenta a’ suoi eserciti, e in ciascuna città fa tessere panni di lana, quali si pagano della decima di quella.

Ed è da sapere come i Tartari, secondo i loro primi costumi, avanti che conoscessino la legge idolatra, non facevan alcuna elemosina, anzi, quando alcun povero andava da loro, lo scacciavano con villanie, dicendoli: “Va’ col malanno che Dio ti dia, perché s’ei t’amasse come ama me t’averia fatto del bene”. Ma perché li savii degl’idolatri, e specialmente i sopradetti bachsi, proposero al gran Can che gli era buona opera la provisione de’ poveri, e che gli suoi idoli se ne rallegrarebbono grandemente, egli per tanto così providde a’ poveri come di sopra è detto, e nella sua corte mai è negato il pane a chi lo viene a domandare, e non è giorno che non siano dispensate e date via ventimila scodelle fra risi, miglio e panizzo per li deputati officiali. Per questa mirabile e stupenda liberalità che ‘l gran Can usa verso i poveri, tutte le genti l’adorano com’un dio.

Capitolo 25

Degli astrologhi che sono nella città di Cambalù.

Sono adunque nella città di Cambalù, tra cristiani, saraceni e cataini, circa cinquemila astrologhi e divinatori, alli quali il gran Can ogn’anno fa provedere del vivere e del vestire com’alli poveri sopradetti, i quali continuamente esercitano la lor arte nella città. Hanno costoro un astrolabio, nel quale son scritti i segni de’ pianeti, l’ore e i punti di tutto l’anno. Ogn’anno adunque i sopradetti cristiani, saraceni e cataini astrologhi, cioè ciascuna setta da per sé, in questo astrolabio veggono il corso e la disposizione di tutto l’anno, secondo il corso di ciascuna luna, perché veggono e trovano che temperanza debbe esser dell’aere, secondo il natural corso e disposizione de’ pianeti e segni, e le proprietà che produrrà ciascuna luna di quell’anno: cioè in tal luna saranno tuoni e tempesta, e nella tal terremoti, e nella tal saette e baleni e molte pioggie, nella tal saranno infermità, mortalità, guerre, discordie e insidie, e così di ciascuna luna, secondo che troveranno, diranno dover seguitare, aggiungendovi ch’Iddio può far più e manco, secondo la sua volontà. Scriveranno adunque sopra alcuni quaderni piccioli quelle cose ch’hanno da venire in quell’anno, e questi quaderni si chiamano tacuini, quali vendono un grosso l’uno a chi gli vuole comprare per sapere le cose future; e quelli che sono trovati aver detto più il vero sono tenuti maestri più perfetti nell’arte, e conseguiscono maggior onore.

Item, s’alcuno preporrà nell’animo di voler far qualche grand’opera, o d’andar in qualche parte lontana per mercanzie o qualch’altra sua facenda, e vorrà sapere il fine del negocio, andrà a trovare uno di questi astrologhi e li dirà: “Guardate sopra li vostri libri in che modo or ora si ritruova il cielo, perch’io vorrei andare a far il tal negocio o mercanzia”. Allora l’astrologo li dirà che oltre questa domanda li debba dire l’anno, il mese e l’ora che nacque, il che dettoli vorrà vedere come si confanno le constellazioni della sua natività con quelle che nell’ora della domanda si ritruova il cielo, e così li predice o bene o male che gli ha da venire, secondo la disposizione in che si troverà il cielo.

Ed è da sapere che li Tartari numerano il millesimo de’ loro anni di dodici in dodici, e il primo anno è significato per il Leone, il secondo per il Bue, il terzo per il Dragone, il quarto per il Cane, e così discorrendo degli altri, procedendo sino al numero di dodici, di modo che, quando alcuno è domandato quando nacque, egli risponde: correndo l’anno del Leone, in tal giorno overo notte, e l’ora e il punto; e questo osservano li padri di far con diligenza sopra un libro. E compiuti che s’hanno i dodici segni, che vuol dire i dodici anni, allora, ritornando al primo segno, ricominciano sempre per questo ordine procedendo.

Capitolo 26

Della religione de’ Tartari, e delle opinioni ch’hanno dell’anima, e usanze loro.

E com’abbiamo detto disopra, questi popoli sono idolatri, e per suoi dei tutti hanno una tavola posta alta nel pariete della sua camera, sopra la qual è scritto un nome che rappresenta Dio alto, celeste e sublime: e quivi ogni giorno col turibulo dell’incenso l’adorano in questo modo, che, levate le mani in alto, sbattono tre volte i denti, pregandolo che li dia buon intelletto e sanità, e altro non li domandano. Dopo, giuso in terra, hanno una statua che si chiama Natigai, qual è dio delle cose terrene che nascono sopra tutta la terra, e li fanno una moglie e figliuoli, e l’adorano nell’istesso modo, col turibulo e sbattendo i denti e alzando le mani, e a questo li domandano temperie dell’aere e frutti della terra, figliuoli e simil cose. Dell’anima la tengono immortale, in questo modo, che, subito morto l’uomo, l’entri in un altro corpo, e secondo che in vita s’ha portato bene o male, di bene in meglio e di male in peggio procedano: cioè, se sarà pover’uomo e s’abbi portato bene e modestamente in vita, rinascerà dopo morto del ventre d’una gentildonna e sarà gentiluomo, e poi del ventre d’una signora e sarà signore, e così sempre ascendendo, finché sarà assunto in Dio; ma se s’averà portato male, essendo figliuol d’un gentiluomo rinascerà figliuol d’un rustico, e d’un rustico in un cane, descendendo sempre a vita più vile.

Hanno costoro un parlar ornato, salutano onestamente col volto allegro e giocondo, portansi nobilmente e con gran mundizia mangiano. Al padre e alla madre portano gran riverenza, e se si trova ch’alcun figliuolo faccia qualche dispiacere a quelli, overo non li sovegna nelle loro necessità, v’è un officio publico che non ha altro carico se non di punir severamente li figliuoli ingrati, quali si sappino aver commesso alcun atto d’ingratitudine verso di quelli. Li malfattori di diversi delitti che venghino presi e posti in prigione, se non sono spacciati, come viene il tempo determinato del gran Can, ch’è ogni tre anni, di rilasciar i prigioneri, allora escono, ma gli viene fatto un segno sopra una mascella, accioché siano conosciuti. Vietò questo presente gran Can tutti i giuochi e barattarie, che appresso di costoro s’usavano più che in alcun luogo del mondo, e per levarli da quelli li diceva: “Io v’ho acquistati con l’armi in mano, e tutto quello che possedete è mio, e se giocate voi giocate del mio”. Non però per questo li toglieva cosa alcuna.

Non voglio restar di dir l’ordine e modo come si portano le genti e baroni del gran Can quando vanno a lui. Primamente, appresso il luogo dove sarà il gran Can, per mezo miglio per riverenza di sua eccellenza stanno le genti umili, pacifiche e quiete, ch’alcun suono o rumore né voce d’alcuno che gridi o parli altamente non s’ode; e ciascun barone o nobile porta continuamente un vasetto picciolo e bello, nel qual sputa mentre ch’egli è in sala, perché niuno avrebbe ardire di sputar sopra la sala, e come ha sputato lo cuopre e salva. Hanno similmente alcuni belli bolzachini di cuoro bianco quali portano seco, e giunti alla corte, se vorranno entrar in sala, che ‘l signor li domandi, si calzano questi bolzachini bianchi e danno gli altri alli servitori, e questo per non imbrattar li belli e artificiosi tapeti di seta e d’oro e d’altri colori.

Capitolo 27

Del fiume Pulisangan e ponte sopra quello.

Poi che s’è compiuto di dir li governi e amministrazioni della provincia del Cataio e della città di Cambalù, e della magnificenza del gran Can, si dirà dell’altre regioni nelle qual messer Marco andò per l’occorrenzie dell’imperio del gran Can.

Come si parte dalla città di Cambalù e che s’ha camminato dieci miglia, si truova un fiume nominato Pulisangan, il qual entra nel mare Oceano, per il qual passano molte navi con grandissime mercanzie. Sopra detto fiume è un ponte di pietra molto bello, e forse in tutt’il mondo non ve n’è un altro simile. La sua longhezza è trecento passa e la larghezza otto, di modo che per quello potriano commodamente cavalcare dieci uomini l’uno a lato all’altro. Ha ventiquattro archi e venticinque pile in acqua che li sostengono, ed è tutto di pietra serpentina, fatto con grand’artificio. Dall’una all’altra banda del ponte è un bel poggio di tavole di marmo e di colonne maestrevolmente ordinate, e nell’ascendere è alquanto più largo che nella fine dell’ascesa, ma, poi che s’è asceso, si truova uguale per longo come se fosse tirato per linea. E in capo dell’ascesa del ponte è una grandissima colonna e alta, posta sopra una testuggine di marmo; appresso il piede della colonna è un gran leone, e sopra la colonna ve n’è un altro. Verso l’ascesa del ponte è un’altra colonna molto bella, con un leone, discosta dalla prima per un passo e mezo; e dall’una colonna all’altra è serrato di tavole di marmo, tutte lavorate a diverse scolture e incastrate nelle collonne da lì per longo del ponte infino al fine. Ciascune colonne sono distanti l’una dall’altra per un passo e mezo, e a ciascuna è sopraposto un leone, con tavole di marmo incastratevi dall’una all’altra, accioché non possino cadere coloro che passano: il che è bellissima cosa da vedere. E nella discesa del ponte è come nell’ascesa.

Capitolo 28

Delle condizioni della città di Gonza.

Partendosi da questo ponte e andando per trenta miglia alla banda di ponente, trovando di continuo palagi, vigne e campi fertilissimi, si truova una città nominata Gonza, molto bella e molto grande, nella quale sono molte abbazie d’idoli, le cui genti vivono di mercanzie e arti. Quivi si lavorano panni d’oro e di seta e belli veli sottilissimi, e vi sono molti alloggiamenti per i viandanti.

Partendosi da questa città e andando per un miglio si truovano due vie, una delle quali va verso ponente, l’altra verso scirocco: per la via di ponente si va per la provincia del Cataio, per la via di scirocco alla provincia di Mangi. E sappiate che dalla città di Gonza fino al regno di Tainfu si cavalca per la provincia del Cataio dieci giornate, sempre trovando molte belle città e castella, fornite di grand’arti e mercanzie, e trovando vigne e campi lavorati: e di qui si porta il vino nella provincia del Cataio, perché in quella non ve ne nasce; vi sono anche molti alberi mori, che con la foglia sua gli abitanti fanno di gran seta. Tutte quelle genti sono domestiche, per la moltitudine delle città poco discoste l’una dall’altra e frequentazione che fanno gli abitanti di quelle, perché sempre vi si truovano genti che passano, per le molte mercanzie che si portano continuamente d’una città all’altra; e in ciascuna di quelle si fanno le fiere. E in capo di cinque giornate delle predette dieci, dicono esservi una città più bella e maggior dell’altre chiamata Achbaluch, fino alla quale verso quella parte confina il termine della cacciagione del signore, dove niun ardisce d’andar alla caccia, eccettuando il signore con la sua famiglia e chi è scritto sotto il capitano de’ falconieri; ma da quel termine innanzi può andarvi, pur che sia nobile. Nondimeno quasi mai il gran Can andava alla caccia per quella banda, per la qual cosa gli animali salvatichi erano tanto cresciuti e moltiplicati, e specialmente le lepori, che guastavano le biade di tutta la detta provincia; la qual cosa fatta intendere al gran Can, v’andò con tutta la corte, e furono presi animali senza numero.

Capitolo 29

Del regno di Tainfu.

Poi che s’è cavalcato dieci giornate partendosi da Gonza, si truova un regno nominato Tainfu, ed è capo di questa provincia, con una città che ha il medesimo nome, la qual è grandissima e molto bella. E quivi si fanno gran mercanzie e molte arti, e gran quantità di munizioni d’armi, che sono molto a proposito per gli eserciti del gran Can. Vi sono ancora molte vigne, dalle quali si raccoglie vino in grand’abbondanza; e benché in tutta Tainfu non si truovi altro vino di quello che nasce nel distretto di questa città, nondimeno s’ha vino a bastanza per tutta la provincia. Quivi hanno ancora frutti in abbondanza, perché hanno molti morari e vermicelli che producono la seta.

Capitolo 30

Della città di Pianfu.

Partendosi da Tainfu si cavalca sette giornate per ponente, trovando belle contrade, nelle quali si truovano molte città e castella, dove si fanno gran mercanzie e arti. Vi sono molti mercanti che vanno per diverse parti, facendo i loro guadagni e profitti. Fatto il camino di sette giornate si truova una città chiamata Pianfu, la qual è molto grande e molto pregiata, e sono in quella molti mercanti, e vivono di mercanzie e d’arti. Quivi nasce la seta in grandissima quantità.

Or lasciaremo di questa, e diremo d’un’altra grandissima città, nominata Cacianfu; ma prima diremo d’un nobile castello chiamato Thaigin.

Capitolo 31

Di Taigin castello.

Partendosi da Pianfu, andando verso ponente, si truova un grande e bel castello nominato Thaigin, qual dicesi aver edificato anticamente un re chiamato Dor. In questo castello è un bellissimo e spazioso palagio, nel quale è una sala grande dove sono dipinti tutti i re famosi che furono anticamente in quelle parti, il che è bellissima cosa da vedere. E di questo re nominato Dor diremo una cosa nuova che gl’intravenne. Era costui potente e gran signore, e mentre stava nella terra non erano al servizio della persona sua altri che bellissime giovanette, delle quali teneva in corte gran moltitudine. Quando egli andava a spasso per il castello sopra una carretta, le donzelle la menavano (e conducevasi leggiermente, per esser picciola), e facevano tutte le cose ch’erano a commodo e in piacere del detto re. E dimostrava egli la potenzia sua nel suo governo, e si portava molto nobilmente e giustamente.

Era quel castello fortissimo oltre modo, e come referiscono le genti di quelle contrade, questo re Dor era sottoposto ad Uncan, ch’è quel che di sopra abbiam detto chiamarsi Prete Gianni, e per la sua arroganza e alterezza si ribellò a quello. La qual cosa intesa da Umcan, non potendo andarli contra né offenderlo, per esser in luogo fortissimo, si doleva grandemente. Dopo certo tempo sette cavallieri suoi vassalli l’andarono a trovar, dicendoli che li bastava l’animo di condurli vivo il re Dor; qual li promise grandissime ricchezze. Costoro partiti andorno a trovar il re Dor, fingendo di venir di lontani paesi, e alli servizii suoi s’acconciarono, dove così bene e diligentemente lo servivano che ‘l re Dor gli amava e avea carissimi, e voleva sempre che quando egli andava alla caccia li fossero appresso. Questi cavallieri un giorno, essendo fuori il re e avendo passato un fiume, e lasciato il resto della compagnia dall’altra banda, vedendosi soli in luogo opportuno a fare il suo disegno, cavate fuori le spade furono intorno al re Dor e per forza lo condussero alla volta di Umcan, ch’alcun de’ suoi non lo poté mai aiutare. Dove giunto, per ordine di quello, vestito di panni vili, fu posto al governo dell’armento del signore, per volerlo dispregiare e abbassare; e quivi stette in gran miseria per due anni, con grandissima guardia, ch’egli non poteva fuggire. Alla fine Umcan lo fece condurre alla sua presenza, tutto pieno di paura e timore, pensando che lo volesse far morire; ma Umcan, fattagli un’aspra e terribile ammonizione che mai più per superbia e arroganza non volesse levarsi dall’obedienza sua, li perdonò e fece vestirlo di vestimenti regali, e con onorevole compagnia lo mandò al suo regno; qual d’indi innanzi fu sempre obediente e amico ad Umcan. E questo è quanto mi fu referito di questo re Dor.

Capitolo 32

D’un grandissimo e nobil fiume detto Caramoran.

Partendosi da questo castello di Thaigin e andando circa venti miglia, si truova un fiume detto Caramoran, qual è così grande, largo e profondo che sopra di quello non si può fermar alcun ponte; e scorre questo fiume fino al mare Oceano, come di sotto si dirà. Appresso a questo fiume sono molte città e castella, ne’ quali sono molti mercanti e vi si fanno molte mercanzie; e intorno a questo fiume per la contrada nasce zenzero e seta in gran quantità, e v’è tanta moltitudine d’uccelli ch’egli è cosa incredibile, e massime di fagiani, che se n’ha tre per un grosso veneziano. Per luoghi circonstanti di questo fiume nasce infinita quantità di canne grosse, alcune delle quali sono d’un piè, altri d’un piè e mezo, e gli abitatori se ne vagliono in molte cose necessarie.

Capitolo 33

Della città di Cacianfu.

Poi che s’è passato questo fiume e fatto il cammino di due giornate, si truova la città di Cacianfu, le cui genti adorano gli idoli. In questa città si fanno gran mercanzie e molte arti, e quivi nascono in grand’abondanza, tra l’altre cose, seta, zenzero, galanga e spigo e molte altre sorti di speciarie, delle quali niuna quantità si conduce in queste nostre parti. Quivi si fanno panni d’oro e di seta e d’ogn’altra maniera.

Or, partendosi di qui, diremo della nobile e celebre città di Quenzanfu, il regno della quale similmente è chiamato con detto nome.

Capitolo 34

Della città di Quenzanfu.

Partendosi da Cacianfu, si cavalca sette giornate per ponente, truovando continuamente molte città e castella dove s’esercitano gran mercanzie; e trovansi molti giardini e campi, e tutta la contrata è piena di morari, cioè d’arbori co’ quali si fa la seta. E quelle genti adorano gl’idoli, e quivi sono cristiani, turchi, nestorini, e vi sono alcuni saraceni. Quivi eziandio son molte cacciagioni di bestie salvatiche, e si pigliano molte sorti d’uccelli. E cavalcando sett’altre giornate si truova una grande e nobil città chiamata Quenzanfu, che anticamente fu un gran regno nobile e potente; in quello furono molti re generosi e valenti, e vi regna al presente un figliuolo del gran Can nominato Mangalù, qual esso gran Can coronò di questo reame. Ed è questa patria certamente di gran mercanzie e molte arti: ivi nasce la seta in gran quantità, e vi si lavorano panni d’oro e di seta e d’ogni sorte, e di tutte le cose che s’appartengono a fornir un esercito; item hanno grande abondanza di tutte le cose necessarie al corpo umano, e compranle per buon mercato. Quelle genti adorano gl’idoli; quivi sono alcuni cristiani e turchi e saraceni. Fuori della città forse per cinque miglia è un palagio del re Mangalù, il qual è bellissimo ed è posto in una pianura dove sono molte fontane e fiumicelli, che li discorrono dentro e d’intorno, e vi sono bellissime cacciagioni e luoghi da uccellare. Primamente v’è un muro grosso e alto, con merli a torno a torno, che circonda circa cinque miglia, dove sono tutti gli animali selvaggi e uccelli, e in mezo di questa muraglia v’è un palagio grande e spazioso, così bello che niuno lo potrebbe meglio ordinare, il qual ha molte sale e camere grandi e belle, e tutte depinte d’oro, con azzurri finissimi e con infiniti marmori. Questo Mangalù, seguendo le vestigie del padre, mantiene il suo regno in grand’equità e giustizia, ed è molto amato dalle sue genti, e si diletta di cacciagioni e d’uccellare.

Capitolo 35

De’ confini che sono nel Cataio e Mangi.

Partendosi di questo palagio di Mangalù, si cammina tre giornate per ponente, trovandosi di continuo molte città e castella, nelle quali gli abitanti vivono di mercanzie e d’arti, e hanno seta abbondantemente. E in capo di tre giornate si truova una regione piena di gran monti e valli, che sono nella provincia di Cunchin, e sono quei monti e valli piene di genti, ch’adorano gl’idoli e lavorano la terra. Vivono di cacciagioni, perché quivi sono molti boschi e molte bestie salvatiche, cioè leoni, orsi, lupi cervieri, daini, caprioli, cervi e molti altri animali, delli quali conseguiscono grande utilità. E questa regione s’estende per venti giornate, camminando sempre per monti, valli e boschi, e trovando di continuo città, nelle quali commodamente alloggiano i viandanti. E poi che s’è cavalcato le dette giornate verso ponente, si truova una provincia nominata Achbaluch Mangi, che vuol dire città bianca de’ confini di Mangi, la qual è piana e tutta populatissima, e le genti vivono di mercanzie e arti. E quivi nasce zenzero in gran quantità, il qual si porta per tutta la provincia del Cataio, con grande utilità de’ mercanti; v’è frumento, riso e altre biade in abondanza e per buon mercato. E questa pianura dura due giornate, con infinite abitazioni; e in capo di due giornate si truovano gran monti e valli e molti boschi, e si cammina ben venti giornate per ponente trovando il tutto abitato. Adorano gl’idoli, e vivono di frutti delle lor terre e di cacciagioni di bestie salvatiche. Quivi sono molti leoni, orsi, lupi cervieri, daini, caprioli, e v’è gran quantità di bestie che producon il muschio.

Capitolo 36

Della provincia di Sindinfu, e del grandissimo fiume detto Quian.

Poi che s’è camminato venti giornate per quei monti, si truova una pianura e provincia, ch’è ne’ confini di Mangi, nominata Sindinfu, e la maestra città si chiama similmente, la qual è molto nobile e grande. E già furono in quella molti re ricchi e potenti. La città gira per circuito venti miglia, ma ora è divisa, perciò che quando morse il re vecchio lasciò tre figliuoli, e avanti la sua morte volse divider la città in tre parti, ciascuna delle quali è separata per muri: e nondimeno ciascuna è dentro il muro generale che la cinge intorno. E questi tre fratelli furono re, e ciascun avea nella sua parte molte terre e grandi e molto tesoro, perché il loro padre era molto potente e ricco; ma il gran Can, preso ch’ebbe questo regno, destrusse questi tre re, tenendolo per sé. Per questa città discorrono molti gran fiumi, che descendono da’ monti di lontano e corrono per la città intorno intorno e per mezo in molte parti. Questi fiumi sono larghi per mezo miglio, altri per dugento passa, e sono molto profondi, e sopra quelli sono fabricati molti ponti di pietra belli e grandi, la larghezza de’ quali è otto passa, e la longhezza è secondo che i fiumi sono più e manco larghi. E per la longhezza de’ fiumi sono dall’una e l’altra banda colonne di marmo, le quali sostengono il coperchio de’ ponti, perché tutti hanno bellissimi coperchi di legname dipinti con pitture di color rosso, e sono anco coperti di coppi. E per longhezza di ciascun ponte sono bellissime stanze e botteghe, dove s’esercitano arti e mercanzie. E quivi è una casa maggior dell’altre, dove stanno di continuo quelli che scuotono li dazii delle robbe e mercanzie, e pedagio di quelli che vi passano, e ci fu detto che ‘l gran Can ne cavava ogni giorno più di cento bisanti d’oro. E quando i detti fiumi si partono dalla città, si ragunano insieme e fanno un grandissimo fiume, che vien detto Quian, qual scorre per cento giornate fin al mare Oceano, della cui qualità si dirà di sotto nel libro.

Appresso a questi fiumi e luoghi circostanti sono molte città e castella, e vi sono molti navilii, per li quali si portano alla città e traggonsi molte mercanzie. Le genti di questa provincia sono idolatri. E partendosi dalla città si cavalca cinque giornate per pianure e valli, trovando molti casamenti, castelli e borghi; e gli uomini vivono della agricultura e anche d’arti, perché in questa città si fanno tele sottilmente e drappi di velo. E vi si truovano similmente molti leoni, orsi e altre bestie salvatiche. E poi che s’è cavalcato cinque giornate, si truova una provincia desolata nominata Thebeth.

Capitolo 37

Della gran provincia detta Thebeth.

Questa provincia chiamata Thebeth è molto destrutta, perché Mangi Can la destrusse al tempo suo, per la guerra ch’egli ebbe con quella: e vi si veggono per questa provincia molte città e castella tutte rovinate e desolate, per longhezza di venti giornate. E perché vi mancano gli abitatori, però le fiere salvatiche, e massime i leoni sono moltiplicati in tanto numero ch’è grandissimo pericolo a passarvi la notte: e li mercanti e viandanti, oltre il portar seco le vettovaglie, bisogna che alloggino la sera con grand’ordine e rispetto, per causa che non li siano devorati i cavalli. E fanno in questo modo, che, trovandosi in quella regione, e massime appresso i fiumi, canne di longhezza dieci passa e grosse tre palmi, e da un nodo all’altro sono tre palmi, i viandanti fanno la sera fasci grandi di quelle che sono verdi, mettendole alquanto lontane dall’alloggiamento, e v’appizzano il fuoco; le quali sentendo il caldo si scorzano e sfendono schioppando terribilmente, ed è tanto orribile lo schioppo ch’el rumor si sente per duoi miglia, e le fiere udendolo fuggono e allontanansi. E li mercatanti portano seco pastore di ferro, con le quali inchiavano tutti quattro i piedi alli cavalli, perché altramente, spaventati dal rumore, romperiano le corde e fuggiriano via: ed è accaduto che molti per negligenza gl’hanno perduti. Cavalcasi adunque per questa contrada venti giornate, continuamente trovando simili salvatichezze, e non trovando alloggiamenti né vettovaglie, se non forse ogni terza o quarta giornata, nelle quali si forniscono delle cose al viver necessarie. In capo delle quali giornate si comincia pur a veder qualche castello e borghi, che sono fabricati sopra dirupi e sommità de’ monti, e s’entra in paese abitato e coltivato, dove non v’è più pericolo d’animali salvatichi.

Gli abitanti di quei luoghi hanno una vergognosa consuetudine, messagli nel capo dalla cecità dell’idolatria, che niuno vuol pigliar moglie che sia vergine, ma vogliono che prima sia stata conosciuta da qualche uomo, dicendo che questo piace alli loro idoli. E però, come passa qualche carovana di mercanti, e che mettono le tende per alloggiare, le madri ch’hanno le figliuole da maritare le conducono subito fino alle tende, pregando i mercanti, a ragatta una dell’altra, che vogliono pigliar la sua figliuola e tenersela a suo buon piacere fino che stanno quivi: e così le giovani che più gli aggrada vengono elette dalli mercanti, e l’altre tornano a casa dolenti. Queste dimorano con li detti fino al suo partire e poi le consegnano alle lor madri, né mai per cosa al mondo le menarebbono via, ma sono obligati a farli qualche presente di gioie, anelletti overo qualche altro signale, qual portano a casa: e quando si maritano portano al collo overo addosso tutti li detti presenti, e quella che ne ha più viene reputata esser stata più apprezzata dalle persone. E per questo sono richieste più volentieri da’ giovani per moglie, né più degna dote possono dare a’ mariti che li molti presenti ricevuti, riputandosi quelli per gran gloria a laude: e nelle solennità delle loro nozze li mostrano a tutti, e li mariti le tengono più care, dicendo che li lor idoli l’hanno fatte più graziose appresso gli uomini. E d’indi innanzi non è alcuno ch’avesse ardire di toccare la moglie d’un altro, e di tal cosa si guardano grandemente. Queste genti adorano gl’idoli, e sono perfidi e crudeli, e non tengono a peccato il rubbare né il far male, e sono i maggiori ladri che siano al mondo. Vivono di cacciagioni e d’uccellare e di frutti della terra.

Quivi si truovano di quelle bestie che fanno il muschio, e in tanta quantità che per tutta quella contrada si sente l’odore, perché ogni luna una volta spandono il muschio. Nasce a questa bestia, come altre volte s’è detto, appresso l’umbilico un’apostema in modo d’un bognone pieno di sangue, e quell’apostema ogni luna per troppa replezione sparge di quel sangue, qual è muschio. E perché vi sono molti di simili animali in quelle parti, però in molti luoghi si sente l’odore di quello. E queste tal bestie si chiamano nella loro lingua gudderi, e se ne prendono molte con cani.

Essi non hanno monete, né anche di quelle di carta del gran Can, ma spendono corallo, e vestono poveramente di cuoio e di pelle di bestie e di canevaccia. Hanno linguaggio da per sé e s’appartengono alla provincia di Thebeth, la qual confina con Mangi, e fu altre volte così grande e nobile che in quella erano otto regni e molte città e castella, con molti fiumi, laghi e monti; ne’ quali fiumi si truova oro di paiola in grandissima quantità. Ne’ regni di detta provincia si spende, come ho detto, il corallo per moneta, e anco le donne lo portano al collo; e adorano li suoi idoli. E si fanno molti zambellotti e panni d’oro e di seta, e vi nascono molte sorti di specie, che non si portano mai ne’ nostri paesi. E quivi gli uomini sono grandissimi negromanti, imperoché fanno per arte diabolica i maggior veneficii e ribalderie che mai fossero viste overo udite: fanno venir tempesta e fulgori, con saette, e molte altre cose mirabili. Sono uomini di mali costumi. Hanno cani molto grandi, come asini, che sono valenti a pigliar ogni sorte d’animali, e massime buoi salvatichi, che si chiamano beyamini, qual sono grandissimi e feroci. Quivi nascono ottimi falconi laneri e sacri, molto veloci al volare, e ottimamente uccellano. Questa detta provincia di Thebeth è subdita al dominio del gran Can, e similmente tutte le regioni e provincie soprascritte; dopo la quale si truova la provincia di Caindù.

Capitolo 38

Della provincia di Caindù.

Caindù è una provincia verso ponente, qual già si reggeva per il suo re; ma, poi che fu soggiogata dal gran Can, egli vi manda i suoi rettori. E non intendiate per questo dir ponente che le dette contrade siano nelle parti di ponente, ma perché ci partiamo dalle parti che sono tra levante e greco venendo verso ponente, e però descriviamo quelle verso ponente. Le genti di questa provincia adorano gl’idoli, e sono in quella molte città e castella: e la maestra città similmente si chiama Caindù, la qual è edificata nel cominciamento della provincia. E ivi è un gran lago salso nel quale si truova gran moltitudine di perle, le qual sono bianche, ma non rotonde; e ne sono in tanta abbondanza che, se ‘l gran Can lasciasse che ciascun ne pigliasse, veneriano in vil prezio: ma senza sua licenza non si possono pescare. V’è similmente un monte, nel quale si truova la minera delle pietre dette turchese, che non si lasciano cavar senza il voler del detto gran Can.

Quivi gli abitanti di questa provincia hanno un costume vergognoso e vituperoso, che non si reputano a villania se quelli che passano per quella contrada giaciono con le loro mogli, figliuole o sorelle: e per questo, come giungono forestieri, ciascuno cerca di menarsegli a casa, dove giunti consegnano tutte le loro donne in sua balia e si dipartono, lasciando quelli come patroni; e le donne attaccano subito sopra la porta un segnale, né quello muovono se non quando si partono, accioché i loro mariti possino ritornarsene. E questo fanno gli abitanti per onorificenza de’ loro idoli, credendo con questa umanità e benignità usata verso detti forestieri di meritare la grazia de’ loro idoli, e che li concedino abbondanza di tutti i frutti della terra.

La loro moneta è di tal maniera, che fanno verghe d’oro e le pesano, e secondo ch’è il peso della verghetta così vagliono: e questa è la loro moneta maggiore, sopra la quale non v’è alcun segno. E la picciola veramente è di questo modo: hanno alcun’acque salse, con le quali fanno il sale facendole bollire in padelle, e poi ch’hanno bollito per un’ora si congelano a modo di pasta, e si fanno forme di quantità d’un pane di due denari, le quali sono piane dalla parte di sotto e di sopra sono rotonde; e quando sono fatte si pongono sopra pietre cotte ben calde appresso al fuoco, e ivi si seccano e fansi dure, e sopra queste tal monete si pone la bolla del signore. Né le monete di questa sorte si possono far per altri che per quelli del signore, e ottanta di dette monete si danno per un saggio d’oro. Ma i mercanti vanno con queste monete a quelle genti ch’abitano fra i monti ne’ luoghi salvatichi e inusitati, e truovano un saggio d’oro per sessanta, cinquanta e quaranta di quelle monete di sale, secondo che le genti sono in luogo più salvatico e discosto dalle città e gente domestica, perché ogni volta che vogliono non possono vendere il lor oro e altre cose, sì come il muschio e altre cose, perché non hanno a cui venderle: e però fanno buon mercato, perché truovano l’oro ne’ fiumi e laghi, come s’è detto. E vanno questi mercanti per monti e luoghi della provincia di Tebeth sopradetta, dove similmente si spaccia la moneta di sale, e fanno grandissimo guadagno e profitto, perché quelle genti usano di quel sale ne’ cibi, e compransi anco delle cose necessarie. Ma nelle città usano quasi solamente i fragmenti di dette monete ne’ cibi, e spendono le monete intiere.

Hanno molte bestie in quel paese le quali producono il muschio, e di quelle molte ne prendono e traggono muschio in abbondanza. Prendono ancora molti buoni pesci nel lago sopradetto, e vi sono molti leoni, orsi, daini, cervi e caprioli, e uccelli di qualunque maniera in abbondanza. Non hanno vino di vigne, ma fanno vino di frumento e riso, con molte specie mescolate insieme: ed è un’ottima bevanda. In questa provincia nascono ancora molti garofali, e l’arbore che li produce è picciolo, e ha li rami e foglie a modo di lauro, ma alquanto più longhe e strette; produce li fiori bianchi e piccioli come sono i garofali, e quando sono maturi sono negri e foschi. Vi nasce il zenzero e la cannella in abbondanza e molte altre specie, delle quali non è portato quantità alcuna in queste parti.

E partendosi dalla città di Caindù, si va fino a’ confini della provincia circa quindici giornate, trovando casamenti e molti castelli e molti luoghi da caccia e uccellare, e genti ch’osservano i sopradetti costumi e consuetudini. In capo di dette giornate si truova un gran fiume nominato Brius, che disparte la detta provincia, nel quale si truova molta quantità d’oro di paiola, e v’è molta quantità di cannella; e scorre questo fiume fino al mare Oceano.

Or lasciaremo questo fiume, perché altro non v’è da dire in quello, e diremo d’una provincia nominata Caraian.

Capitolo 39

Delle condizioni della gran provincia di Caraian, e di Iaci, città principale.

Dopo che s’è passato il fiume predetto, s’entra nella provincia detta Caraian, così grande e larga che quella è partita in sette regni, ed è verso ponente. Le genti adorano gli idoli e sono sotto il dominio del gran Can: ma suo figliuolo, nominato Centemur, è constituito re di detta provincia, il qual è gran ricco e potente, e mantiene la sua terra con molta giustizia, perché egli è ornato di molta sapienzia e integrità. E partendosi dal sopradetto fiume si cammina verso ponente per cinque giornate, e si truova tutt’abitato e castelli assai. Vivono di bestie e di frutti della terra; quivi si truovano i migliori cavalli che naschino in quelle parti. Hanno linguaggio da per sé, il quale non si può facilmente comprendere.

A capo di cinque giornate si truova la città maestra, capo del regno, nominata Iaci, ch’è grandissima e nobile. Sono in quella molti mercanti e artefici e molte sorti di genti: sonvi idolatri e cristiani, nestorini e saraceni e macometani, ma i principali sono quelli ch’adorano gl’idoli. Ed è la terra fertile in produr riso e frumento; ma quelle genti non mangiano pane di frumento, perché è malsano, ma il riso, del quale ne fanno vino con specie, ch’è chiaro e bianco e molto dilettevole a bere. Spendono per moneta porcellane bianche, le quali si truovano al mare, e ne pongono anco al collo per ornamento: e ottanta porcellane vagliono un saggio d’argento, il qual è di valuta di due grossi veneziani, e otto saggi di buon argento vagliono un saggio d’oro perfetto. Hanno ancora pozzi salsi de’ quali fanno sale, il qual usano tutti gli abitanti: e di questo sale il re ne conseguisce grand’entrata e profitto.

Le genti di questa provincia non reputano esserli fatta ingiuria s’uno tocca la lor moglie carnalmente, pur che sia con volontà di quella. V’è ancora un lago, che circuisce circa cento miglia, nel quale si piglia gran quantità di buoni pesci d’ogni maniera, e sono pesci molto grandi. In questo paese mangiano carni crude di galline, montoni, buoi e buffali, e in questo modo, che le tagliano molto minutamente, e le mettono prima in sale, in un sapore fatto di diverse sorti di lor specie: e questi sono gentiluomini; ma li poveri le mettono così minute in salsa d’aglio, e le mangiano come facciam noi le cotte.

Capitolo 40

Della provincia detta Carazan.

Quando si parte dalla detta città di Iaci, e che s’è camminato dieci giornate per ponente, si truova la provincia di Carazan, sì com’è nominata la maestra città del regno. Adorano gl’idoli, e sono sotto il dominio del gran Can, e suo figliuolo nominato Cogatin tiene la dignità regale. Trovasi in essa oro di paiola ne’ fiumi, e anco oro più grosso che di paiola, e ne’ monti oro di vena; e per la gran quantità che n’hanno, danno per sei saggi d’argento un saggio d’oro. Quivi ancora si spendono le porcellane delle quali s’è detto di sopra, le quali non si truovan in questa provincia, ma sono portate dalle parti d’India.

Nascono in questi paesi grandissimi serpenti, quali sono di longhezza dieci passa e di grossezza spanne dieci. Hanno nella parte dinanzi, appresso il capo, due gambe picciole con tre unghie a modo di leone, e gli occhi maggiori d’un pane da quattro denari, tutti lucenti. La bocca è così grande ch’inghiottirebbe un uomo; i denti grandi e acuti: e per essere tanto spaventevoli, non è uomo né animal alcuno ch’approssimandoseli non tremi tutto. Se ne truovano di minori, cioè di passa otto, di sei e cinque longhi, quali si prendono in questo modo, conciosiaché pel gran caldo stiano di giorno nelle caverne e di notte escono fuori a pascere, e quante bestie, o leoni o lupi o altre che si siano, che possono toccare, tutte le mangiano, e poi si vanno strascinando verso a’ laghi, fonti o fiumi per bere; e mentre che vanno a questo modo per l’arena, per la troppa gravezza del peso loro appaiono i vestigii così grandi come s’una gran trave fosse stata tirata per quell’arena; e i cacciatori, dove veggono il sentiero per il qual sono usati d’andare, ficcano molti pali sotto terra che non appareno, e in quelli mettono alcuni ferri acutissimi ponendoli spessi, e copronli con l’arena che non si veggono: e ne mettono in diversi luoghi, secondo i sentieri dove più veggono andar i serpenti, i quali, andando a’ luoghi soliti, subito si feriscono e muoiono facilmente. E le cornacchie, come li veggono morti, cominciano a stridare, e li cacciatori a’ cridi di quelle conoscono che sono morti e gli vanno a truovare e gli scorticano, cavandoli immediate il fiele, ch’è molto apprezzato ad infinite medicine e fra l’altre al morso de’ cani arrabbiati, dandolo a bere al peso d’un denaro in vino; ed è cosa presentanea a far partorire una donna quando ell’ha i dolori; e a’ carboni e pustule che nascono sopra la persona, postovene un poco, subito li risolve, e a molte altre cose. Vendono ancor le carni di questo serpente molto care, per esser più saporite dell’altre carni, e ognuno le mangia volentieri. Oltre di ciò in detta provincia nascono cavalli grandi, i quali si conducono in India a vendere mentre sono giovani, e a tutti li cavano un osso della coda, accioché non possino menarla in qua e là ma rimanghi pendente, perché li par cosa brutta che ‘l cavallo correndo meni la coda in giro.

Quelle genti cavalcano tenendo le staffe longhe, come appresso di noi i Franceschi, e dicesi longhe perché i Tartari e quasi tutte l’altre genti per il saettare le portano curte, percioché quando saettano si rizzano sopra i cavalli. Hanno arme perfette di cuori di buffali, e hanno lancie, scudi, balestre, e intossicano tutte le loro freccie. E mi fu detto per cosa certa che molte persone, e massime quelli che vogliono far qualche male, portano di continuo il tossico con loro, acciò, se per qualche caso fortuito per qualche mancamento fossero presi, e li volessero poner al tormento, più tosto che patirlo si pongono subito del tossico in bocca e l’inghiottono, acciò prestamente muoiano. Ma li signori, che sanno questa usanza, hanno sempre apparecchiato sterco di cane: li fanno di subito inghiottire per farli vomitar il tossico, e così hanno trovato il rimedio contra la malizia di quei tristi.

Le dette genti, avanti che fossero soggiogate al dominio del gran Can, osservavano una brutta e scelerata consuetudine, che s’alcun uomo nobile e bello, che paresse di grande e bella apparenza e valoroso, veniva ad alloggiare in casa loro, era ammazzato la notte, non per torli i denari, ma acciò che l’anima sua, con la grazia del valor suo e la prosperità del senso, rimanesse in quella casa, e per il stanziar di quell’anima tutte le cose li succedessero con felicità: e ognun si riputava beato d’aver l’anima di qualche nobile, e a questo modo si facevano morire molti uomini. Ma, dopo che il gran Can cominciò a signoreggiare, li levò via quella maledetta consuetudine, di modo che, per le gran punizioni che sono state fatte, più non s’osserva.

Capitolo 41

Della provincia di Cardandan e città di Vociam.

Partendosi dalla città di Carazan, poi che s’è camminato cinque giornate verso ponente, si truova la provincia di Cardandan, la qual è sottoposta al gran Can, e la principal città è detta Vociam. La moneta che quivi spendono è oro a peso, e anco porcellane, e danno un’oncia d’oro per cinque oncie d’argento, e un saggio d’oro per cinque saggi di argento, perché in quella regione non si truova minera alcuna d’argento, ma oro assai, e i mercanti vi portano d’altrove l’argento e ne fanno gran guadagni. Gli uomini e le donne di questa provincia usano di portare li denti coperti d’una sottil lametta d’oro, fatta molto maestrevolmente a similitudine di denti, che li coprono, e vi sta di continuo. Gli uomini si fanno ancora atorno le braccia e le gambe a modo d’una lista overo cinta, con punti neri, designata in questo modo: hanno cinque agucchie tutte legate insieme, e con quelle si pungono talmente la carne che n’esce il sangue, e poi vi mettono sopra una tintura nera, che mai più si può cancellare; e reputano per cosa nobile e bella aver questa tal lista di punti neri. E non attendono ad altro se non a cavalcare e andare alla caccia e uccellare, e a cose che s’appartengono all’armi ed esercizii di guerra, e di tutti gli altri officii appartenenti al governo di casa lasciano la cura alle loro donne. Hanno servi comprati, e anco che hanno presi in guerra, ch’aiutano le loro donne in simil bisogno.

Hanno un’usanza, che subito ch’una donna ha partorito si leva del letto, e lavato il fanciullo e ravolto ne’ panni, il marito si mette a giacere in letto in sua vece e tiene il figliuolo appresso di sé, avendo la cura di quello per quaranta giorni, che non si parte mai. E gli amici e parenti vanno a visitarlo per rallegrarlo e consolarlo, e le donne che sono da parto fanno quel che bisogna per casa, portando da mangiare e bere al marito ch’è nel letto, e dando il latte al fanciullo che gli è appresso. Dette genti mangiano carni crude e cotte, come s’è detto di sopra, e il loro cibo è risi con carne; il loro vino è fatto di risi con molte specie mescolatevi, ed è buono.

In questa provincia non vi sono idoli né tempii, ma adorano il più vecchio di casa, perché dicono: “Siamo usciti di costui, e tutt’il bene che abbiamo procede e viene da lui”. Non hanno lettere né scrittura alcuna, e non è maraviglia alcuna, però che quel paese è molto salvatico, e fra montagne e selve foltissime, e l’aere nella state v’è molto tristo e cattivo; e li forestieri e mercanti non vi possono stare, perché moririano. E s’hanno da far qualche faccenda un con l’altro, e vogliono far le lor obligazioni overo carte di quello che deono dare e avere, il principal piglia un legno quadro e lo sfende per mezo, e segnano sopra quello quanto hanno da fare insieme, e ciascun tiene una delle parti del bastone, come facciamo noi a modo nostro in tessera; e quando è venuto il termine, e il debitor averà pagato, il creditore li restituisce la sua parte del legno: e così restano contenti e sodisfatti.

Né in questa provincia né in Caindù e Vociam e Iaci si truovano medici, ma, come si ammala qualche grand’uomo, le sue genti di casa fanno venir li maghi, ch’adorano gli idoli, alli quali l’infermo narra la sua malattia. Allora detti maghi fanno venir sonatori con diversi instrumenti, e ballano e cantano canzoni in onore e laude de’ loro idoli, e continuano questo tanto ballare, cantare e sonare che ‘l demonio entra in alcun di loro, e allora non si balla più. Li maghi domandano a questo indemoniato per che cagione colui sia ammalato, e ciò che si dee fare per liberarlo. Il demonio risponde, per bocca di colui nel corpo del qual egli è entrato, quell’essere ammalato per aver fatta offensione a tal dio. Allora li maghi pregano quel dio che li perdoni, che guarito che sia li farà sacrificio del proprio sangue: ma se ‘l demonio vede che quell’infermo non possa scampare, dice che l’ha offeso così gravemente che per niun sacrificio si potria placare; ma se giudica che ‘l debbia guarire, dice ch’ei facci sacrificio di tanti montoni ch’abbino i capi neri, e che faccino ragunare tanti maghi con le loro donne, e che per le mani loro sia fatto il sacrificio, e che a questo modo il dio si placherà verso l’infermo. Allora i parenti fanno tutto ciò che gli è stato imposto, ammazzando li montoni e gettando verso il cielo il sangue di quelli, e i maghi con le loro donne maghe fanno gran luminarie e incensano tutta la casa dell’infermo, facendo fumo di legni d’aloe e gettando in aere l’acqua nella qual sono state cotte le carni sacrificate, insieme con parte delle bevande fatte con specie, e ridono, cantano e saltano, in riverenza di quell’idolo overo dio. Dopo questo domandano a quell’indemoniato se per tal sacrificio è satisfatto all’idolo, e s’egli comanda che si faccia altro; e quando risponde essere satisfatto, allora detti maghi e maghe, che di continuo hanno cantato, sentano a tavola e mangiano la carne sacrificata con grand’allegrezza, e bevono di quelle bevande che sono state offerte. Compiuto il desinare e avuto il loro pagamento, ritornano a casa, e se per providenzia d’Iddio guarisce l’infermo, dicono che l’ha guarito quell’idolo al quale è stato fatt’il sacrificio; ma s’ei muore, dicono che ‘l sacrificio è stato defraudato, cioè che quelli che hanno preparate le vivande l’hanno gustate prima che sia stata data la sua parte all’idolo. E queste ceremonie non si fanno per qualunque infermo, ma una o due volte al mese per qualche grand’uomo ricco, la qual cosa ancora s’osserva in tutta la provincia del Cataio e di Mangi e quasi da tutti gl’idolatri, perché non hanno copia di medici: e in questo modo li demonii scherniscono la cecità di quelle misere genti.

Capitolo 42

Come il gran Can soggiogò il regno di Mien e di Bangala.

Prima che procediamo più oltre, narreremo una memorabile battaglia che fu nel sopradetto regno di Vociam. Avvenne che nel 1272 il gran Can mandò un esercito nel regno di Vociam e Carazan, per custodirlo e defenderlo da genti strane che lo volessero offendere, imperoché fino a quel tempo il gran Can ancora non avea mandato alcuno de’ suoi figliuoli al governo de’ suoi reami, come dopo vi mandò, perché sopra questo regno ordinò in re Centemur suo figliuolo. Il re veramente di Mien e Bangala dell’India, ch’era potente di genti, terre e tesoro, udendo che l’esercito de’ Tartari era venuto a Vociam, deliberò di volerlo combattere e scacciare, accioché più il gran Can non ardisse di mandar genti a’ suoi confini. Però preparò un esercito grandissimo e gran moltitudine d’elefanti (perché di continuo ne teneva infiniti ne’ suoi regni), sopra li quali fece far alcune baltresche e castelli di legno, dove stavano uomini a saettare e combattere: e in alcuni ve n’erano da dodici e sedici che commodamente potevano combattere. E oltre di questi messe insieme gran numero di cavalli armati e fanti a piedi, e prese il cammino verso Vociam, dove l’esercito del gran Can s’era fermato, e quivi s’accampò con tutto l’oste per riposarlo alquanti giorni.

Quando Nestardin, ch’era capitano dell’esercito del gran Can, uomo prudente e valoroso, intese la venuta dell’oste del re di Mien e Bangala con tanto numero di genti, temette molto, perché non aveva seco più di dodicimila uomini, ma esercitati e franchi combattitori, e il detto re n’avea sessantamila, e da circa mille elefanti tutti armati, con castelli sopra. Costui, come savio ed esperto, non mostrò paura alcuna, ma discese nel piano di Vociam e si pose alle spalle un bosco folto e forte d’altissimi arbori, con opinione che se gli elefanti venissero con tanta furia che non se li potesse resistere, di ritirarsi nel bosco e saettarli al sicuro. Però, chiamati a sé li principali dell’esercito, li confortò che non volessero esser di minor virtù di quello ch’erano stati per avanti, e che la vittoria non consisteva nella moltitudine ma nella virtù di valorosi ed esperti cavalieri, e che le genti del re di Mien e Bangala erano inesperte e non pratiche della guerra, nella qual non s’aveano trovato, come aveano fatto loro, tante volte: e però non volessero dubitare della moltitudine de’ nemici, ma sperar nella perizia sua esperimentata in tante imprese, che già il nome loro era non solamente a’ nemici, ma a tutto il mondo pauroso e tremendo, promettendoli ferma e indubitata vittoria.

Saputo il re di Mien che l’oste de’ Tartari era disceso al piano, subito si mosse e venne ad accamparsi vicino a quel de’ Tartari un miglio, e messe le sue schiere ad ordine, ponendo nella prima fronte gli elefanti e dopo di dietro i cavalli e i fanti, ma lontani come in due ali, lasciandovi un gran spazio in mezo. E quivi cominciò ad inanimare i suoi, dicendoli che volessero valorosamente combattere, perch’erano certi della vittoria, essendo loro quattro per uno, e avendo tanti elefanti con tanti castelli che li nemici non averiano ardire d’aspettarli, non avendo mai con tal sorte d’animali combattuto. E fatti sonare infiniti strumenti, si mosse con gran vigore con tutto l’oste suo verso quello de’ Tartari, i quali stettero fermi e non si mossero, ma li lasciarono venir vicini al suo alloggiamento; poi immediate uscirono con grand’animo all’incontro. E, non mancando altro che l’azzuffarsi insieme, avvenne che i cavalli de’ Tartari, vedendo gli elefanti così grandi e con que’ castelli, si spaurirono di maniera che cominciavano a voler fuggire e voltarsi adietro, né v’era modo che li potessero ritenere, e il re con tutto l’esercito s’avvicinava ognora più innanti. Onde il prudente capitano, veduto questo disordine sopravenutoli all’improviso, senza perdersi punto prese partito di far immediate smontar tutti dai cavalli, e quelli mettere nel bosco, ligandogli agli arbori. Smontati adunque andorno a piedi alla schiera d’elefanti e cominciorno fortemente a saettarli; e quelli ch’erano sopra li castelli, con tutte le genti del re, ancor loro con grand’animo saettavano li Tartari, ma le loro freccie non impiagavano così gravemente come facevano quelle de’ Tartari, ch’erano da maggior forza tirate. E fu tanta la moltitudine delle saette in questo principio, e tutte al segno degli elefanti (che così fu ordinato dal capitano), che restorno da ogni canto del corpo feriti, e subito cominciorno a fuggire e a voltarsi adietro verso le genti loro proprie, mettendole in disordine. Né vi valeva forza o modo alcuno di quelli che li governavano, che, per il dolore e rabbia delle ferite e per il tuono grande delle voci, erano talmente impauriti che senza ritegno o governo andavano or qua or là vagabondi, e alla fine con gran furia e spavento si cacciorno in una parte del bosco dove non erano li Tartari; e quivi entrando per forza, per la foltezza e grossezza degli arbori, fracassavano con grandissimo strepito e rumore li castelli e baltresche che avevano sopra, con ruina e morte di quelli che v’erano dentro.

Alli Tartari, veduta la fuga di questi animali, crebbe l’animo, e senza dimorar punto a parte a parte con grand’ordine e magisterio andavano montando a cavallo e ritornavano alle loro schiere, dove cominciorno una crudele e orrenda battaglia. Né le genti del re manco valorosamente combattevano, perché egli in persona le andava confortando, dicendoli che stessero saldi e non si sbigottissero per il caso intravenuto agli elefanti. Ma li Tartari, per la perizia del saettare, li caricavano grandemente addosso e offendevano fuor di misura, perché non erano armati come li Tartari. E poi che l’un e l’altro esercito ebbero consumate le saette, posero man alle spade e mazze di ferro, facendo empito un contra l’altro: dove si vedeva in un instante tagliare e troncar piedi, mani, teste, e dare e ricever grandissimi colpi e crudeli, cadendo in terra molti feriti e morti, con tanta uccisione e spargimento di sangue ch’era cosa spaventevole e orribile a vedere; ed era tanto lo strepito e grido grande che le voci andavano sin al cielo.

Il re veramente di Mien, come valoroso capitano, arditamente in ogni parte dove vedeva il pericolo maggiore si metteva, inanimando e pregando che stessero fermi e constanti, e faceva che le schiere di dietro, ch’erano fresche, venissero inanti a soccorrere quelle ch’eran stracche. Ma, vedendo che non era possibile da fermarsi né sostener l’empito de’ Tartari, essendo la maggior parte del suo esercito o ferita o morta, e tutto il campo pieno di sangue e coperto di cavalli e uomini uccisi, e che cominciavano a voltar le spalle, si mise anch’egli a fuggire col resto delle sue genti, le quali, seguitate da’ Tartari, furono per la maggior parte uccise.

Questa battaglia fu molto crudele da una banda e dall’altra, e durò dalla mattina fino a mezogiorno: e li Tartari ebbero la vittoria, e la causa fu perché il re di Bangala e Mien non aveva il suo esercito armato come quello de’ Tartari, e similmente non erano armati gli elefanti che venivano nella prima fila, che averiano potuto sostenere il primo saettamento de’ nimici, e andargli addosso e disordinarli. Ma, quello che più importa, detto re non doveva andar ad assaltar li Tartari in quell’alloggiamento ch’aveva il bosco alle spalle, ma aspettarli in campagna larga, dove non averiano potuto sostener l’empito de’ primi elefanti armati, e poi con le due ale di cavalli e fanti gli averia circondati e messi di mezo.

Raccoltisi i Tartari dopo l’uccisione de’ nemici, andorno verso il bosco nel quale erano gli elefanti per pigliargli, e trovorno che quelle genti ch’erano campate tagliavano arbori e sbarravano le strade per difendersi. Ma i Tartari immediate, rotti i loro ripari, ne uccisero molti e fecero prigioni, col mezo di quelli che sapevano il maneggiar di detti elefanti, e n’ebbero dugento e più. E dal tempo della presente battaglia in qua, il gran Can ha voluto aver di continuo elefanti ne’ suoi eserciti, che prima non ve n’aveva. Questa giornata fu causa che ‘l gran Can acquistò tutte le terre del re di Bangala e Mien, e le sottomise al suo imperio.

Capitolo 43

Di una regione salvatica e della provincia di Mien.

Partendosi dalla detta provincia di Cardandan, si truova una grandissima discesa, per la quale si discende continuamente due giornate e meza e non si truova abitazione né altro, se non una pianura ampla e spaziosa, nella quale tre giorni di ciascuna settimana si raguna molta gente al mercato, perché molti descendono da’ monti di quelle regioni e portan oro per cambiarlo con argento, qual li mercanti da longhi paesi arrecano per questo effetto, e danno un saggio d’oro per cinque d’argento. E non è permesso che gli abitanti portino l’oro fuori del paese, ma vogliono che vi venghino li mercanti con l’argento a pigliarlo, portando le mercanzie che faccino per li loro bisogni, perché niuno potrebbe andar alle loro abitazioni se non quelli della contrada, per essere in luoghi ardui, forti e inaccessibili: e però fanno questi mercati nella detta pianura, la qual passata si truova la città di Mien, andando verso mezodì, ne’ confini dell’India; e si camina quindici giornate per luoghi molto disabitati e per boschi, ne’ quali si truovano molti elefanti, alicorni e altri animali salvatichi, né vi sono uomini né abitazione alcuna.

Capitolo 44

Della città di Mien e d’un bellissimo sepolcro del re di quella.

Dopo le dette quindici giornate, si truova la città di Mien, la qual è grande e nobile e capo del regno, e sottoposta al gran Can; gli abitatori sono idolatri, e hanno lingua propria. Fu in questa città (come si dice) un re molto potente e ricco, qual venendo a morte ordinò che appresso la sua sepoltura vi fossero fabricate due torri a modo di piramidi, una da un capo e l’altra dall’altro, tutte di marmo, alte dieci passa e grosse secondo la convenienzia dell’altezza e di sopra v’era una balla ritonda. Queste torri, una era coperta tutta d’una lama d’oro grossa un dito, che altro non si vedeva che oro, e l’altra d’una lama d’argento della medesima grossezza, e aveano congegnate campanelle d’oro e d’argento atorno la balla, che ogni fiata che soffiava il vento sonavano, che era cosa molto stupenda a vedere; e similmente la sepoltura era coperta parte di lame d’oro e parte d’argento: e questo fece far detto re per onor dell’anima sua, acciò che la memoria sua non perisse.

Or, avendo il gran Can deliberato d’aver quella città, vi mandò un valoroso capitano, e la maggior parte dell’esercito volse ch’andassero giocolari overo buffoni della corte sua, che ne sono di continuo in gran numero. Or, entrati nella città e trovate le due torri tanto ricche e adorne, non le volsero toccare senza saputa del gran Can, qual, inteso che ebbe che erano state fatte per quella memoria dell’anima sua, non permesse che le toccassero né guastassero, per esser questo costume di Tartari, che reputano gran peccato il movere alcuna cosa pertinente a’ morti. Quivi si truovano molti elefanti, buoi salvatichi grandi e belli, cervi e daini, e ogni sorte d’animali in grand’abondanza.

Capitolo 45

Della provincia di Bangala.

La provincia di Bangala è posta ne’ confini dell’India verso mezodì, la qual, al tempo che messer Marco previous hit Polo next hit stava alla corte, il gran Can la sottomesse al suo imperio: e stette l’oste suo gran tempo all’assedio di quella, per esser potente il paese e il re, come di sopra si ha inteso. Ha lingua da per sé; quelle genti adorano gl’idoli, e hanno maestri che tengono scole e insegnano le idolatrie e incanti, e questa dottrina è molto universale a tutti i signori e baroni di quella regione. Hanno buoi di grandezza quasi come elefanti, ma non sono così grossi. Vivono di carne, latte e risi, de’ quali ne hanno abondanza; il paese produce assai bambagio, e fanno molte mercanzie. Quivi nasce molto spigo, galanga, zenzero, zucchero e di molte altre speciarie, e molti Indiani vengono a comprar di quelle, e anco di eunuchi schiavi, che ne hanno in gran quantità, perché quanti in guerra si prendono per quelle genti subito sono castrati, e tutti i signori e baroni ne vogliono di continuo aver alla custodia delle lor donne: e perciò i mercanti gli vengono a comprar, per portarli a vendere in diverse regioni con grandissimo guadagno. Dura questa provincia trenta giornate, in capo delle quali, andando verso levante, si truova una provincia detta Cangigù.

Capitolo 46

Della provincia di Cangigù.

Cangigù è una provincia verso levante, la qual ha un re, e quelle genti adorano gl’idoli e hanno lingua da sé, e si diedero al gran Can e ogn’anno li danno tributo. Il re di questa provincia è molto lussurioso, e ha forse trecento mogli, e ove sa che vi sia qualche bella donna, subito la fa venire e la piglia per moglie. Si truova oro in grandissima quantità e anco molte sorti di specie, ma per esser fra terra e molto discosto dal mare v’è poca vendita di quelle; sonvi molti elefanti e altre sorti di bestie. Vivono di carne, risi e latte; non hanno vino d’uve, ma lo fanno di riso con molte specie mescolate. Quelle genti, così uomini come donne, hanno tutto il corpo dipinto di diverse sorti d’animali e uccelli, perché vi sono maestri che non fanno altr’arte se non con un’agucchia di designarle, o sopra il volto, mani, gambe e ventre, e vi mettono color negro, che mai per acqua over altro può levarsi via: e quella femina overo uomo che n’ha più di dette figure è riputato più bello.

Capitolo 47

Della provincia di Amù.

Amù è una provincia verso levante, la qual è sotto il gran Can, le cui genti adorano gli idoli, e vivono di bestie e frutti della terra. Hanno lingua da per sé, e vi sono molti cavalli e buoni, che vendono a’ mercanti e li conducono in India; hanno buffoli e buoi in gran quantità, per esservi grandissimi e buoni pascoli. Gli uomini e le donne portano alle mani e alle braccia manigli d’oro e d’argento, e similmente intorno alle gambe, ma quelli che portano le donne sono di maggior valuta. E sappiate che da questa provincia di Amù fino a quella di Cangigù vi sono venticinque giornate.

Or diremo d’un’altra provincia detta Tholoman, la qual è discosto da queste ben otto giornate.

Capitolo 48

Di Tholoman.

Tholoman è una provincia verso levante, le cui genti adorano gl’idoli. Hanno linguaggio da per sé; sono sottoposti al gran Can. Questi abitanti sono belli e grandi, e più presto bruni che bianchi. Sono uomini giusti e valenti nell’arme, e molte città e castella sono in questa provincia sopra grandi e alti monti. Abbruciano i corpi de’ loro morti, e l’ossa che non s’abbruciano mettono in cassette di legname e le portan alle montagne, e le mettono in alcune caverne e dirupi, acciò ch’animal alcuno non le possa andar a toccare. Quivi si truova oro in grand’abondanza, e si spendono porcellane che vengono d’India per moneta picciola, e così spendono le due provincie sopradette di Cangigù e Amù. Vivono di carne e risi e bevono vino di risi, com’è detto di sopra.

Capitolo 49

Delle città di Cintigui, Sidinfu, Gingui, Pazanfu.

Partendosi della provincia di Tholoman e andando verso levante, si camina dodici giornate sopra un fiume, atorno il quale vi sono molte città e castella, le qual finite si truova la bella e gran città di Cintigui, le cui genti adorano gl’idoli e sono sotto il dominio del gran Can. Vivono di mercanzie e arti; fanno drappi di scorzi d’alcune sorti d’arbori, che sono molto belli, e gli vestono nel tempo dell’estate, così uomini come donne. Gli uomini sono valenti nell’armi; non hanno altra sorte di moneta se non quella di carta della stampa del gran Can.

In questa provincia v’è tanta quantità di leoni che niun ardisce dormir la notte fuor della città per timor de’ detti leoni, e quelli che navigano pel fiume non si metteriano a dormire con loro navilii appresso le ripe, perché si sono trovati i leoni gettarsi all’acqua e nuotar alli navilii e tirar per forza fuori gli uomini; ma sorgeno nel mezo del fiume, ch’è molto largo, e così sono sicuri. Si ritruovan ancora in detta provincia i maggiori e più feroci cani che si possano dire, e sono di tant’animo e possanza che un uomo con due cani ammazza un leone, perché andando per camino con due de’ detti cani, con l’arco e le saette, va sicuramente, e, se si truova il leone, li cani arditi gli vanno addosso, essendo incitati dall’uomo. E la natura del leone è di cercare qualch’arbore per appoggio, acciò che i cani non li possan andar da dietro, ma che tutti due li stiano in faccia; e però, veduti i cani e conoscendoli, se ne va passo passo né per alcun modo correria, per non voler parere ch’egli abbia paura, tanta è la sua superbia e altezza d’animo. E in questo andar di passo i cani lo vanno mordendo e l’uomo saettando, e ancor che ‘l leone, sentendosi mordere da’ cani, si volti verso loro, sono però tanto presti che sanno ritrarsi, e il leone torna alla via sua passeggiando, per modo che, avanti ch’egli abbia trovato appoggio, con le saette è tanto ferito e morsicato e sparto il sangue che indebolito cade: e a questo modo con i cani prendono il leone.

Fanno molta seta, della quale, portandosene fuor del paese, si fa di gran mercanzie, per via di questo fiume, qual si naviga per dodici giornate, sempre trovando città e castella. Adorano gl’idoli e sono sotto il dominio del gran Can; la sua moneta è di carta, e il loro vivere e mantenersi consiste in mercanzie; sono valenti nell’arme.

E in capo delle dodici giornate si truova la città di Sidinfu, della quale abbiamo trattato di sopra, e da Sidinfu per venti giornate si truova Gingui, e da Gingui per altre quattro giornate si truova la città di Pazanfu, la qual è verso mezodì, ed è della provincia del Cataio, ritornando per l’altra parte della provincia, le cui genti adorano gl’idoli e fanno abbruciare i corpi quando muoiono. Vi sono ancor certi cristiani, che hanno una chiesa, e sono sotto il dominio del gran Can, e spendono le monete di carta. Vivono di mercanzie e arti, e hanno seta in abondanza, e fanno panni d’oro e di seta e veli sottilissimi. Ha questa città molte città e castella sotto di sé; per quella passa un gran fiume, per il quale si porta gran mercanzie alla città di Cambalù, perché con molti alvei e fosse lo fanno scorrere fino alla detta città.

Ma al presente partiremo di qui, e per tre giornate procedendo trattaremo d’una città detta Cianglù.

Capitolo 50

Della città di Cianglù.

Cianglù è una gran città verso mezodì, della provincia del Cataio, subdita al gran Can, le cui genti adorano gl’idoli e fanno abbruciare i corpi morti; spendono le monete di carta del gran Can. In questa città e distretto fanno grandissima quantità di sale, in questo modo: hanno una sorte di terra salmastra, della quale ne fanno gran monti e gettanli sopra dell’acqua, la quale, ricevuta la salsedine per virtù della terra, discorre di sotto, e raccolgonla per condotti, e dopo la mettono in padelle spaziose e larghe, non alte più di quattro dita, facendola bollire molto bene; e poi ch’ell’ha bollito quanto li pare, congela in sale, ed è bello e bianco, e si porta fuori in molti paesi, e quelle genti ne fanno gran guadagno, e il gran Can ne riceve grand’entrata e utilità. Nascono in questa contrata persiche molto buone e saporite, e di tanta grandezza che pesano due libre l’una alla sottile.

Or, lasciando questa città, diremo d’un’altra detta Ciangli.

Capitolo 51

Della città di Ciangli.

Ciangli è una città nel Cataio verso mezodì, subdita al gran Can: sono idolatri e hanno la moneta di carta; ed è discosta da Cianglù per cinque giornate, nel camino delle quali si truovano molte città e castella soggette al gran Can, e sono molto mercantesche, delle quali il gran Can ne conseguisce grand’entrata. Passa per mezo della città di Ciangli un largo e profondo fiume, per il quale portano molte mercanzie di seta, specie e molte altre cose di grande valuta.

Or lasciaremo Ciangli, e narraremo d’un’altra città detta Tudinfu.

Capitolo 52

Della città di Tudinfu.

Quanto si parte da Ciangli, caminando verso mezodì sei giornate, di continuo si truovano città e castella di gran valore e nobiltà; e le genti adorano gl’idoli, abbruciano i loro corpi, sono soggetti al gran Can, e le loro monete sono di carta; vivono di mercanzie e arti e hanno abondanza di vettovaglie. E in capo di dette sei giornate si truova una città, qual fu già un regno nobile e grande, detto Tudinfu: ma il gran Can la soggiogò al suo dominio per forza d’armi. Ed è molto dilettevole per li giardini che vi sono intorno, che producono belli e buoni frutti. Fanno seta in grand’abondanza.

Ha sotto la sua iurisdizione undici città imperiali, cioè nobili e grandi, per esser città di gran traffichi di mercanzie e di gran copia di seta, e soleva avere re, avanti ch’ella fosse sottoposta al gran Can, qual nel 1272 mandò al governo della città e a guardia del paese un suo barone nominato Lucansor, capitano d’ottantamila cavalli. Costui, vedendosi con tanta gente e in così ricco e abondante paese, insuperbito, deliberò di ribellarsi al suo signore, e parlato ch’ebbe con li primi della detta città, li persuase ad assentire a questo suo mal volere, e col mezzo di detti fece ribellare tutti i popoli delle città e castella sottoposte a quella provincia. Il gran Can, inteso che ebbe questo tradimento, mandò subito due suoi baroni, de’ quali un era chiamato Angul, l’altro Mongatai, con centomila persone. Lucansor, inteso ch’ebbe questo esercito che gli veniva contra, si sforzò di ragunare non minor numero delle genti de’ sopradetti, e quanto più presto fu possibile venne alle mani con loro. E con grande uccisione dell’una parte e l’altra, fu finalmente morto Lucansor, la qual cosa veduta dall’oste suo, si misero a fuggire. E seguitandoli i Tartari, molti ne furono morti e molti presi, quali menati alla presenza del gran Can, tutti i principali fece morire; a li altri perdonò e tolsegli alli servizii suoi, e sempre li furono fedeli.

Capitolo 53

Della città di Singuimatu.

Da Tudinfu caminando sette giornate verso mezodì, si trovan sempre città e castelli nobili e grandi, di molte mercanzie e arti; sono idolatri e sottoposti al gran Can, e hanno diverse cacciagioni di bestie e uccelli e abondanza di tutte le cose. E in capo di sette giornate si trova la città di Singuimatu, dentro della quale, dalla banda di mezodì, passa un fiume grande e profondo, qual dagli abitanti è stato diviso in due parti, una delle quali, che scorre alla volta di levante, tende verso il Cataio, e l’altra, che va verso ponente, alla provincia di Mangi. In questo fiume vi navigano tanto numero di navilii ch’è quasi incredibile, e si portano da queste due provincie, cioè dall’un’all’altra, tutte le cose necessarie, onde è cosa maravigliosa a vedere la moltitudine di navilii e la grandezza di quelli, che continuamente navigano carichi di tutte le mercanzie di grandissima valuta.

Or partendosi da Singuimatu e andando verso mezodì sedici giornate, continuamente si truovano città e castella, nelle qual vi sono gran mercanti: e tutte le genti di queste contrade sono idolatri, sottoposti al gran Can.

Capitolo 54

Del gran fiume detto Caramoran, e delle città di Coiganzu e Quanzu.

Compiute le dette sedici giornate, si truova di nuovo il gran fiume Caramoran, che discorre dalle terre del re Umcan, nominato di sopra il Prete Gianni di tramontana, qual è molto profondo che vi può andare liberamente navi grandi, con tutti i suoi carichi. Si pigliano in quello molti pesci grandi e in gran copia. In questo fiume, appresso il mare Oceano una giornata, si truovano da quindicimila navilii, che portano ciascuno di loro quindici cavalli e venti uomini, oltre la vettovaglia e li marinari che li governano: e questi tiene il gran Can, accioché li siano apparecchiati per portar un esercito ad alcuna delle isole che sono nel mare Oceano quando si ribellassero, overo in qualche region remota e lontana. E dove detti navilii si servan, appresso la ripa del fiume, v’è una città detta Coiganzu, e dall’altra banda a riscontro di questa ve n’è un’altra detta Quanzu: ma una è grande e l’altra picciola. Passato detto fiume s’entra nella nobilissima provincia di Mangi.

E non crediate che abbiamo trattato per ordine di tutta la provincia del Cataio, anzi non ho detto la ventesima parte, però che messer Marco, passando per la detta provincia, non ha descritto se non quelle città che ha trovato sopra il camino, lasciando quelle che sono per i lati e per il mezo, perché saria stato cosa troppo longa e rincrescevole. Però, lasciando il dire di questo, comincieremo a trattare prima dell’acquisto fatto della provincia di Mangi e sue città, la cui magnificenza e ricchezza mostrerassi nel seguente parlare.

Capitolo 55

Della nobilissima provincia di Mangi, e come il gran Can la soggiogò.

La provincia di Mangi è la più nobile e più ricca che si truova in tutt’il Levante. E nel 1269 v’era un signore detto Fanfur, il più ricco e più potente principe che si sapesse essere stato già centenara d’anni, ma era signor pacifico e uomo che faceva grandi elemosine, né credeva che signor del mondo li potesse nuocere, per l’amore che li portavano i popoli e per la fortezza del paese, circondato da grandissimi fiumi: dal che processe che ‘l detto non s’esercitò nelle armi, né manco volse che li suoi popoli vi s’esercitassero. Le città del suo regno erano fortissime, perché ciascuna avea intorno una fossa profonda e larga quanto poteva tirare un arco, piena d’acqua, né teneva cavalli a suo soldo, non avendo paura di alcuno. Né ad altro era rivolto l’animo del re e tutti i suoi pensieri, se non a darsi buon tempo e star di continuo in piaceri: avea nella sua corte e a’ suoi servizii circa mille bellissime giovani, con le quali si vivea in grandissime delizie. Amava la pace e manteneva la giustizia severamente, e non voleva che ad alcuno fosse fatto un minimo torto, né che alcuno offendesse il prossimo, perché il re li faceva punire senz’alcun riguardo. Ed era tanta la fama della sua giustizia, che alcune fiate le persone si domenticavano le loro botteghe aperte piene di mercanzie, e nondimeno non v’era alcuno che ardisse d’intrarli dentro o levarli alcuna cosa. Tutti i viandanti di giorno e di notte potevano andare liberi e sicuramente per tutto il regno, senza paura d’alcuno. Era pietoso e misericordioso verso poveri e bisognosi: ogni anno faceva raccogliere ventimila bambini che dalle madri povere erano esposti, per non poterli far le spese, e questi fanciulli faceva allevare, e come erano grandi li faceva mettere a far qualche arte, overo li maritava con le fanciulle che similmente avea fatto allevare.

Or Cublai Can signor de’ Tartari di contraria natura era del re Fanfur, perché di niuna altra cosa si dilettava che di guerre e conquistar paesi e farsi gran signore. Costui, dopo grandissimi conquisti di molte provincie e regni, deliberò di conquistar la provincia di Mangi e, messo insieme gran sforzo di genti da cavallo e da piedi, sì che era un potente esercito, vi fece capitano uno nominato Chinsambaian, che vuol dire in lingua nostra Cento Occhi e quello con le genti mandò con molte navi nella provincia di Mangi. Dove giunto, fece richiedere gli abitatori della città di Coiganzu che volessero dare obedienza al suo re, la qual cosa recusorno di fare; poi, senza far assalto alcuno, processe alla seconda città, la qual similmente denegò d’arrendersi, e partitosi andò alla terza, alla quarta, e da tutte ebbe la medesima risposta. E non volendo lasciarsi adietro tante città, ancor ch’egli avesse un fortissimo esercito, e che il gran Can li mandasse un altro per terra di non minor numero e fortezza, deliberò d’espugnarne una, e quivi con tutt’il suo potere e sapere la prese, facendo uccidere quanti in quella si trovorno: la qual cosa udita da tutte l’altre fu di tanto spavento e terrore che spontaneamente tutte vennero alla obedienza sua. E dopo se n’andò con tutti due gli eserciti che avea sotto la real città di Quinsai, nella qual trovandosi il re Fanfur tutto spauroso e tremante, come quello che mai non avea veduto combattere né stato in guerra alcuna, dubitando della sua persona, montò sopra le navi che erano state preparate per questo effetto, con tutto il suo tesoro e robbe sue, lasciando la guardia della città alla moglie, con ordine che si difendesse al meglio che potesse, perché, essendo femina, non avea da dubitare che, capitando nelle mani de’ nemici, la facessero morire; e partito andossene per il mare Oceano ad alcune sue isole dove erano luoghi fortissimi, e quivi finì la sua vita.

Or, lasciata la moglie in questo modo, si dice che ‘l re Fanfur era stato admonito da’ suoi astrologhi che non li poteva esser tolta la signoria, salvo da un capitano che avesse cento occhi: la qual cosa sapendo la regina, essendo ogni giorno più stretta la città, stava pur con speranza di non poterla perdere, parendoli impossibile che un uomo avesse cento occhi. E un giorno, volendo sapere come avea nome il capitano nemico, le fu detto Chinsambaian, cioè Cent’Occhi: il qual nome la impaurì e mise gran terrore, pensando costui dover esser quello che gli astrologhi aveano detto al re che ‘l cacciaria di signoria; però, come femina piena di paura, senza pensarvi più sopra si rese. Avuta la città di Quinsai da’ Tartari, subito tutto il resto della provincia venne in suo potere, e fu mandata la regina alla presenza di Cublai Can, e da quello fu ricevuta onorevolmente, qual li fece dar di continuo tanti denari che si mantenne di continuo come regina.

Or che abbiam detto del conquistar della provincia di Mangi, diremo delle città che sono in quella, e prima di Coiganzu.

Capitolo 56

Della città di Coiganzu.

Coiganzu è una città molto bella e ricca, posta verso scirocco e levante nell’entrare nella provincia di Mangi, dove si truovano di continuo grandissime quantità di navilii, per essere (come di sopra abbiamo detto) sopra il fiume Caramoran. Portansi a questa città molte mercanzie, le quali mandano per detto fiume a diverse altre città. Fassi quivi tanta quantità di sale che, oltre l’uso suo, ne mandano a molte altre città: del qual sale il gran Can ne conseguisce grande utilità.

Capitolo 57

Della città di Paughin.

Or, partendosi da Coiganzu, si camina verso scirocco una giornata per un terraglio che è nell’entrar di Mangi, fatto di belle pietre, e appresso questo terraglio da un lato e dall’altro vi sono paludi grandissime con acqua profonda, per la quale si può navigare: né per altra strada si può entrare in detta provincia se non per questo terraglio, salvo se non vi s’entrasse con navi, come fece il capitano del gran Can, che vi smontò con tutto l’esercito. In capo di detta giornata si truova una città detta Paughin, grande e bella. Le genti adorano gl’idoli, e abbruciano i corpi morti; hanno moneta di carta e sono sotto il gran Can. Vivono di mercanzie e arti: hanno seta assai e fanno panno d’oro e di seta in quantità, ed è abondante di tutte le cose da vivere.

Capitolo 58

Della città di Caim.

Quando si parte dalla città di Paughin si va una giornata per scirocco, e trovasi una città detta Caim, grande e nobile. Le genti adorano gl’idoli, spendono moneta di carta e sono sott’il gran Can. Vivono di mercanzie e d’arti, e hanno abondanza di pesci e cacciagioni di animali salvatichi e d’uccelli, e li fagiani vi sono in tanta copia che, per tanto argento quanto è un grosso veneziano, si ha tre buoni fagiani, i quali sono grossi come pavoni.

Capitolo 59

Della città di Tingui e Cingui.

Partendosi dalla detta città e cavalcando per una giornata, sempre si truova casali e terre lavorate, e dopo una città detta Tingui, la quale non è molto grande, ma abondante di tutti i beni necessarii al vivere umano. Sono idolatri e sottoposti al gran Can, e spendono moneta di carta; sono mercanti, e hanno gran copia di navilii, animali assai e uccelli. La qual città tende verso scirocco, e dalla sinistra parte verso levante, per tre giornate alla longa, si truova il mare Oceano: e in tutto quel spazio vi sono molte saline, e fassi gran copia di sale. Poi si truova una gran città detta Cingui, la qual è nobile e grande, e di questa città si cava grandissima quantità di sale, e fornisce tutte le provincie vicine, e il gran Can ne cava grandissima utilità e tributo, che a pena si potria credere. Adorano gl’idoli e hanno moneta di carta, e sono sotto il dominio del gran Can.

Capitolo 60

Della città di Iangui, che governò messer Marco previous hit Polo next hit.

Caminando per scirocco da Cingui si truova la nobil città di Iangui, la qual è nobile e ha sotto di sé ventisette città, e per questo è potentissima, ed è sottoposta al gran Can. E in questa città fa residenzia uno de’ dodici baroni avanti nominati, che sono governatori delle provincie, eletti per il gran Can. Sono idolatri, e vivono di mercanzie e d’arti: fannosi quivi molte armi e arnesi da battaglia, però che per quelle contrade v’abitano genti d’arme assai. E messer Marco previous hit Polo next hit, di commissione del gran Can, n’ebbe il governo tre anni continui, in luogo d’un de’ detti baroni.

Capitolo 61

Della provincia di Nanghin.

Nanghin è una provincia verso ponente, ed è di quelle di Mangi, molto nobile e grande. Sono idolatri e spendono moneta di carta, ed è luogo di gran mercanzie. Hanno seta, e lavorano panni d’oro e di seta in gran quantità e di molte maniere; abondantissima di tutte le biade e d’animali così domestici come salvatici e d’uccelli; sono ricchi mercanti, e per questo è utilissima provincia al signore, massime per le gabelle delle mercanzie.

Or trattaremo della nobil città di Saianfu.

Capitolo 62

Della città di Saianfu, che fu espugnata per messer Nicolò e messer Maffio previous hit Polo next hit.

Saianfu è una nobile e gran città nella provincia di Mangi, alla cui iurisdizione rispondono dodici città ricche e grandi. Ivi si fanno molte mercanzie e arti, e abbruciano i loro corpi; spendono moneta di carta, e sono idolatri, sotto l’imperio del gran Can. E hanno gran quantità di seta, e fassene de’ bellissimi panni, e similmente d’oro; hanno belle caccie, e da uccellare in gran copia. Ed è dotata di tutte le cose che s’appartengano ad una nobil città, la qual per la sua potenza si tenne anni tre che non si volse rendere al gran Can, dopo ch’egli ebbe acquistata la provincia di Mangi. E la causa era questa, che non si poteva approssimar l’esercito alla città se non dalla banda di tramontana, perché dall’altre parte vi erano laghi grandissimi, d’onde si portavano alla città vettovaglie di continuo, né si poteva vietar: la qual cosa essendo riferita al gran Can, ne pigliava un estremo dispiacere, che tutta la provincia di Mangi fosse venuta alla sua obedienza e che questa sola stesse in questa ostinazione.

Il che venuto ad orecchie di messer Nicolò e di messer Maffio fratelli, che si truovavano in corte del gran Can, andorno subito a quello e si profersero di far fare mangani al modo di Ponente, con li quali gettariano pietre di trecento libre che ammazzariano gli uomini e ruinariano le case. Questo ricordo piacque al gran Can ed ebbelo molto caro, e subito ordinò che li fossero dati fabri eccellenti e maestri di legnami, de’ quali n’erano alcuni cristiani nestorini, che sapevano benissimo lavorare. Costoro in pochi giorni fabricorno tre mangani, secondo che li detti fratelli gli ordinavano, quali furno provati in presenza del gran Can e di tutta la corte, che li viddero tirare pietre di trecento libre di peso l’una. E subito, posti in nave, furno mandati all’esercito, dove, drizzati dinanzi la città di Saianfu, la prima pietra che tirò il mangano cadde con tanto fracasso sopra una casa che gran parte di quella si ruppe e cadette a terra: la qual cosa impaurì talmente tutti gli abitatori, che pareva che le saette venissero dal cielo, che deliberorno di rendersi, e così, mandati ambasciatori, si dettono con li medesimi patti e condizioni con le quali s’era resa tutta la provincia di Mangi. Questa espedizione fatta così presta crebbe la reputazione e credito a questi due fratelli veneziani appresso il gran Can e tutta la corte.

Capitolo 63

Della città di Singui, e del grandissimo fiume detto Quian.

Quando si parte dalla città di Saianfu e si va oltre quindici miglia verso sirocco, si truova la città di Singui, la quale non è molto grande, ma molto buona per le mercanzie. Ha grandissima quantità di navi, per esser fabricata appresso il maggior fiume che sia in tutto il mondo, nominato Quian, qual è di larghezza in alcuni luoghi dieci miglia, in altri otto e sei, e per longhezza, fino dove mette capo nel mare Oceano, sono da cento e più giornate. In detto fiume entrano infiniti altri fiumi che discorrono d’altre regioni, tutti navigabili, che ‘l fa esser così grosso, e sopra quello infinite città e castella: e vi sono oltra dugento città e provincie sedici che participano sopra di quello, per il quale corrono tante mercanzie d’ogni sorte che è quasi incredibile a chi non l’avesse vedute. Ma, avendo sì longo corso, dove riceve (come abbiamo detto) tanto numero di fiumi navigabili, non è maraviglia se la mercanzia che per quello corre da ogni banda di tante città è innumerabile e di gran ricchezza, e la maggior che sia è il sale, qual navigandosi per quello e per gli altri fiumi, forniscono le città che vi sono sopra e quelle che sono fra terra. Messer Marco vidde una volta che fu a questa città di Singui da cinquemila navi, e nondimeno le altre città che sono appresso detto fiume ne hanno in maggior numero. Tutte dette navi sono coperte, e hanno un arbore con una vela, e il cargo che porta la nave per la maggior parte è di quattromila cantari, e fino a dodici che alcune ne portano, intendendo il cantaro al modo di Venezia. Non usano corde di canevo se non per l’arbore della nave, per la vela, ma hanno canne longhe da quindici passa, come abbiamo detto di sopra, le quali sfendono da un capo all’altro in molti pezzi sottili, e poi le piegano insieme e fanno di quelle tortizze longhe trecento passa, non meno forti che le tortizze di canevo, tanto sono con gran diligenza fatte. Con queste in luogo d’alzana si tirano su per il fiume le navi, e ciascuna ha dieci o dodici cavalli per far questo effetto di tirarle all’incontro dell’acqua, e anco a seconda. Sono sopra questo fiume, in molti luoghi, colline e monticelli sassosi, sopra i quali sono edificati monasterii d’idoli e altre stanzie, e di continuo si truovano villaggi e luoghi abitati.

Capitolo 64

Della città di Cayngui.

Cayngui è una città picciola appresso il sopradetto fiume verso la parte di scirocco, dove ogn’anno si raccoglie grandissima quantità di biade e risi, e portasi la maggior parte alla città di Cambalù per fornir la corte del gran Can, percioché passano da questa città alla provincia del Cataio per fiumi e per lagune, e per una fossa profonda e larga, che il gran Can ha fatto fare accioché le navi abbino il transito da un fiume all’altro, e che dalla provincia di Mangi si possa andar per acqua fino in Cambalù senza andar per mare: la qual opera è stata mirabile e bella per il sito e longhezza di quella, ma molto più per la grande utilità che ricevono dette città. Vi ha fatto similmente far appresso dette acque terragli grandi e larghi, accioché vi si possa andar anco per terra commodatamente. Nel mezo del detto fiume, per mezo la città di Cayngui, v’è un’isola tutta di roca, sopra la quale è edificato un gran tempio e monasterio, dove sono dugento a modo di monachi che servono agl’idoli: e questo è il capo e principale di molti altri tempii e monasterii.

Or parleremo della città di Cianghianfu.

Capitolo 65

Della città di Cianghianfu.

Cianghianfu è una città nella provincia di Mangi, e li popoli sono tutti idolatri e sottoposti alla signoria del gran Can. Spendono moneta di carta, e vivono di mercanzie e arti, e sono molto ricchi. Lavorano panni d’oro e di seta; ed è paese dilettevole da cacciare ogni sorte di salvaticine e uccelli, ed è abondante di vettovaglie. Sono in questa città due chiese di cristiani nestorini, le quali furono fabricate nel 1274, quando il gran Can mandò per governatore di questa città per tre anni Marsachis, ch’era cristiano nestorino: e costui fu quello che le fece edificare, e da quel tempo in qua vi sono, che per avanti non v’erano.

Or, lasciando questa città, diremo della città di Tinguigui.

Capitolo 66

Della città di Tinguigui.

Partendosi da Cianghianfu e cavalcando per scirocco tre giornate, si truovano città assai e castella, e tutti sono idolatri, e vivono di arti e anco mercanzie; sono sotto il gran Can, e spendono moneta di carta. In capo di dette tre giornate si truova la città di Tinguigui, ch’è bella e grande, e produce quantità di seta, e fanno panni d’oro e di seta di più maniere e molto belli, ed è molto abondante di vettovaglie, ed è paese molto dilettevole di caccie e d’uccellare. Gli abitanti sono pessima gente e di mala natura. Nel tempo che Chinsanbaiam, cioè Cento Occhi, soggiogò il paese del Mangi, mandò all’acquisto di questa città di Tinguigui alcuni cristiani alani con parte della sua gente, quali, appresentatisi, senza contrasto entrorno dentro. Avea la città due circuiti di mura, e gli Alani, entrati nel primo, vi trovorno grandissima quantità di vini; e avendo patito grande incommodità e disagio, disiderosi di cavarsi la sete, senz’alcun rispetto si misero a bere, di tal maniera che inebriati s’addormentorno. I cittadini, ch’erano nel secondo circuito, veduti tutti i nemici addormentati e distesi in terra, si misero ad ucciderli, di modo che niuno vi campò. Inteso Chinsambaian la morte delle sue genti, acceso di grandissima ira e sdegno, di nuovo mandò esercito all’espugnazione della città, la qual presa, fece ugualmente andar per fil di spada tutti gli abitanti, grandi e piccioli, così uomini come femine.

Capitolo 67

Della città di Singui e Vagiu.

Singui è una grande e nobile città, la qual gira d’intorno da venti miglia. Sono tutti idolatri e sottoposti al gran Can; spendono moneta di carta, e hanno gran quantità di seta e ne fanno panni, perché tutti vanno vestiti di seta, e anco ne vendono. Vi sono mercanti ricchissimi, e tanta moltitudine di gente che è cosa mirabile. Sono uomini pusillanimi, e non sanno far altro che mercanzie e arti, ma in quelle dimostrano grande ingegno, conciosiacosaché, se fossero audaci e virili e atti alle battaglie, con la gran moltitudine che sono conquistarebbono tutta quella provincia e molto più oltre. Hanno molti medici, e quelli eccellenti, che sanno conoscere le infirmità e darli i debiti rimedii, e alcuni che chiamano savii, come appresso di noi filosofi, e altri detti maghi e indovini. Sopra li monti vicini a questa città vi nasce il reobarbaro in somma perfezione, che va per tutta la provincia; vi nasce anco in quantità il gengevo, e v’è tanto buon mercato che quaranta libre di fresco si può aver per tanta moneta che vagli un grosso d’argento veneziano. Sono sotto la giurisdizione di Singui da sedici buone città, e ricche di gran mercanzie e arti. E Singui vuol dire città di terra, come all’incontro Quinsai città del cielo.

Or, partendosi da Singui, si truova un’altra città di Vagiu, lontana una giornata, dove è similmente abondanza di seta, e vi sono molti mercanti e artefici: e quivi lavorano tele sottilissime e di diverse sorti, e vengono condotte per tutta la provincia. Né altro essendovi degno di memoria, trattaremo della maestra e principale città della provincia di Mangi, nominata Quinsai.

Capitolo 68

Della nobile e magnifica città di Quinsai.

Partendosi da Vagiu, si cavalca tre giornate, di continuo trovando città, castelli e villaggi, tutti abitati e ricchi. Le genti sono idolatre e sotto la signoria del gran Can. Dopo tre giornate si truova la nobile e magnifica città di Quinsai, che per l’eccellenza, nobiltà e bellezza è stata chiamata con questo nome, che vuol dire città del cielo, perché al mondo non vi è una simile, né dove si truovino tanti piaceri, e che l’uomo si reputi essere in paradiso. In questa città messer Marco previous hit Polo next hit vi fu assai volte e volse con gran diligenzia considerare e intender tutte le condizion di quella, descrivendola sopra i suoi memoriali, come qui di sotto si dirà con brevità.

Questa città, per commune opinione, ha di circuito cento miglia, perché le strade e canali di quella sono molto larghi e ampli; poi vi sono piazze dove fanno mercato, che per la grandissima moltitudine che vi concorre è necessario che siano grandissime e amplissime. Ed è situata in questo modo, che ha da una banda un lago di acqua dolce, qual è chiarissimo, e dall’altra v’è un fiume grossissimo, qual, entrando per molti canali grandi e piccioli che discorrono in ciascuna parte della città, e leva via tutte le immondizie e poi entra in detto lago e da quello scorre fino all’oceano, il che causa bonissimo aere: e per tutta la città si può andar per terra e per questi rivi. E le strade e canali sono larghi e grandi, che commodamente vi possono passar barche e carri a portar le cose necessarie agli abitanti. Ed è fama che vi siano dodicimila ponti, fra grandi e piccioli: ma quelli che sono fatti sopra i canali maestri e la strada principale sono stati voltati tanto alti e con tanto magisterio che una nave vi può passare di sotto senz’albero; e nondimeno vi passano sopra carrette e cavalli, talmente sono accommodate piane le strade con l’altezza. E se non vi fossero in tanto numero non si potria andar da un luogo all’altro.

Dall’altro canto della città v’è una fossa, longa forse quaranta miglia, che la serra da quella banda, ed è molto larga e piena d’acqua, che viene dal detto fiume; la qual fu fatta far per quelli re antichi di quella provincia, per poter derivar il fiume in quella ogni fiata che ‘l cresce sopra le rive, e serve anco per fortezza della città; e la terra cavata fu posta dentro, che fa la similitudine di picciol colle che la circonda. Ivi sono dieci piazze principali, oltre infinite altre per le contrade, che sono quadre, cioè mezo miglio per lato. E dalla parte davanti di quelle v’è una strada principale, larga quaranta passa, che corre dritta da un capo all’altro della città, con molti ponti che la traversano, piani e commodi; e ogni quattro miglia si truova una di queste tal piazze, che hanno di circuito (com’è detto) due miglia. V’è similmente un canale larghissimo, che corre all’incontro di detta strada dalla parte di dietro delle dette piazze, sopra la riva vicina del quale vi sono fabricate case grandi di pietra, dove ripongono tutti i mercanti che vengono d’India e d’altre parti le sue robbe e mercanzie, acciò che le siano vicine e commode alle piazze. E in ciascuna di dette piazze, tre giorni alla settimana, vi è concorso di quaranta in cinquantamila persone, che vengono al mercato e portano tutto ciò che si possi desiderare al vivere, perché sempre v’è copia grande d’ogni sorte di vittuarie, di salvaticine, cioè caprioli, cervi, daini, lepri, conigli, e d’uccelli, pernici, fagiani, francolini, coturnici, galline, capponi, e tante anitre e oche che non si potriano dir più, perché se ne allevano tante in quel lago che per un grosso d’argento veneziano se ha un paro d’oche e due para d’anitre. Vi sono poi le beccarie, dove ammazzano gli animali grossi, come vitelli, buoi, capretti e agnelli, le qual carni mangiano gli uomini ricchi e gran maestri; ma gli altri che sono di bassa condizione non s’astengono da tutte l’altre sorti di carni immonde, senza avervi alcun rispetto. Vi sono di continuo sopra le dette piazze tutte le sorti d’erbe e frutti, e sopra tutti gli altri peri grandissimi, che pesano dieci libre l’uno, quali sono di dentro bianchi come una pasta e odoratissimi; persiche alli suoi tempi gialle e bianche, molto delicate. Uva né vino non vi nasce, ma ne viene condotto d’altrove di secca, molto buona, e similmente del vino, del quale gli abitanti non si fanno troppo conto, essendo avezzi a quel di riso e di specie. Vien condotto poi dal mare Oceano ogni giorno gran quantità di pesce all’incontro del fiume per il spazio di venticinque miglia, e v’è copia anco di quel del lago, che tutt’ora vi sono pescatori che non fanno altro, qual è di diverse sorti, secondo le stagioni dell’anno, e per le immondizie che vengono dalla città è grasso e saporito, che chi vede la quantità del detto pesce non penseria mai che ‘l si dovesse vendere; e nondimeno in poche ore vien tutto levato via, tanta è la moltitudine degli abitanti avezzi a vivere delicatamente, perché mangiano e pesce e carne in un medesimo convito.

Tutte le dette dieci piazze sono circondate di case alte, e di sotto vi sono botteghe dove si lavorano ogni sorte d’arti e si vende ogni sorte di mercanzie e speciarie, gioie, perle; e in alcune botteghe non si vende altro che vino fatto di risi con speciarie, perché di continuo lo vanno facendo di fresco in fresco, ed è buon mercato. Vi sono molte strade che rispondono sopra dette piazze, in alcune delle quali vi sono molti bagni d’acqua fredda, accommodati con molti servitori e servitrici, che attendono a lavare e uomini e donne che vi vanno, percioché da piccioli sono usati a lavarsi in acqua fredda d’ogni tempo, la qual cosa dicono essere molto a proposito della sanità. Tengono ancora in detti bagni alcune camere con l’acqua calda per forestieri, che non potriano patire la fredda, non essendovi avezzi. Ogni giorno hanno usanza di lavarsi, e non mangiariano se non fossero lavati.

In altre strade stanziano le donne da partito, che sono in tanto numero che non ardisco a dirlo, e non solamente appresso le piazze, dove sono ordinariamente i luoghi loro deputati, ma per tutta la città; le qual stanno molto pomposamente, con grandi odori e con molte serve e le case tutte adornate. Queste donne sono molto valenti e pratiche in sapere far lusinghe e carezze, con parole pronte e accommodate a ciascuna sorte di persone, di maniera che i forestieri che le gustano una volta rimangono come fuor di sé, e tanto sono presi dalla dolcezza e piacevolezza loro che mai se le possono domenticare: e da qui adviene che, come ritornano a casa, dicono esser stati in Quinsai, cioè nella città del cielo, e non veggono mai l’ora che di nuovo possano ritornarvi. In altre strade vi stanziano tutti li medici, astrologhi, quali anco insegnano a leggere e scrivere e infinite altre arti. Hanno li loro luoghi atorno atorno dette piazze, sopra ciascuna delle quali vi sono due palagi grandi, un da un capo e l’altro dall’altro, dove stanziano i signori deputati per il re, che fanno ragione immediate se accade alcuna differenza fra li mercanti, e similmente fra alcuni degli abitanti in quelli contorni. Detti signori hanno carico d’intendere ogni giorno se le guardie che si fanno ne’ ponti vicini (come di sotto si dirà) vi siano state overo abbino mancato, e le puniscono come a loro pare.

Al lungo la strada principale, che abbiamo detto che corre da un capo all’altro della città, vi sono da una banda e dall’altra case e palagi grandissimi con li loro giardini, e appresso case d’artefici che lavorano nelle sue botteghe. E a tutte l’ore s’incontrano genti che vanno su e giù per le sue facende, che li accade che a vedere tanta moltitudine ognun crederia che non fosse possibile che si trovasse vittuarie a bastanza di poterla pascere: e nondimeno in ogni giorno di mercato tutte le dette piazze sono coperte e ripiene di genti e mercanti, che le portano e sopra carri e sopra navi, e tutta si spaccia. E per dire una similitudine del pevere che si consuma in questa città, accioché da questa si possa considerare la quantità delle vittuarie, carni, vini, speciarie, che alle spese universale che si fanno si ricerchino, messer Marco sentì far il conto, da un di quelli che attendono alle dogane del gran Can, che nella città di Quinsai, per uso di quella, si consumava ogni giorno quarantatre some di pevere: e ciascuna soma è libre dugento e ventitre.

Gli abitatori di questa città sono idolatri, e spendono moneta di carta; e così gli uomini come le donne sono bianchi e belli, e vestono di continuo la maggior parte di seta, per la grand’abondanza che hanno di quella, che nasce in tutt’il territorio di Quinsai, oltre la gran quantità che di continuo per mercanti vien portata d’altre provincie. Vi sono dodici arti che sono reputate le principali che abbino maggior corso dell’altre, ciascuna delle quali ha mille botteghe, e in ciascuna bottega overo stanza vi dimorano dieci, quindici e venti lavoranti, e in alcune fino a quaranta, sotto il suo patrone overo maestro. Li ricchi e principal capi di dette botteghe non fanno opera alcuna con le loro mani, ma stanno civilmente e con gran pompa. Il medesimo fanno le loro donne e mogli, che sono bellissime, com’è detto, e allevate morbidamente e con gran delicatezze, e vestono con tanti adornamenti di seta e di gioie che non si potria stimare la valuta di quelle. E ancor che per li re antichi fosse ordinato per legge che ciascun abitante fosse obligato ad esercitare l’arte del padre, nondimeno, come diventino ricchi, gli è permesso di non lavorar più con le proprie mani, ma ben erano obligati di tenere la bottega, e uomini che v’esercitassino l’arte paterna. Hanno le loro case molto ben composte e riccamente lavorate, e tanto si dilettano negli ornamenti, pitture e fabriche, che è cosa stupenda la gran spesa che vi fanno.

Gli abitanti naturali della città di Quinsai sono uomini pacifici, per esser stati così allevati e avezzi dalli loro re, ch’erano della medesima natura. Non sanno maneggiar armi, né quelle tengono in casa; mai fra loro s’ode o sente lite overo differenzia alcuna. Fanno le loro mercanzie e arti con gran realtà e verità; si amano l’un l’altro, di sorte ch’una contrada, per l’amorevolezza ch’è fra gli uomini e le donne per causa della vicinanza, si può riputare una casa sola, tanta è la domestichezza ch’è fra loro, senz’alcuna gelosia o sospetto delle lor donne, alle quali hanno grandissimo rispetto: e saria reputato molto infame uno che osasse dir parole inoneste ad alcuna maritata. Amano similmente i forestieri che vengono a loro per causa di mercanzie e gli accettano volentieri in casa, facendoli carezze, e li danno ogni aiuto e consiglio nelle facende che fanno. All’incontro non vogliono veder soldati né quelli delle guardie del gran Can, parendoli che per la loro causa siano stati privati de’ loro naturali re e signori.

D’intorno di questo lago vi sono fabricati bellissimi edificii e gran palagi, dentro e di fuori mirabilmente adorni, che sono di gentiluomini e gran maestri; vi sono anco molti tempii degl’idoli con li loro monasterii, dove stanno gran numero di monachi che li servono. Sono ancora in mezo di questo lago due isole, sopra ciascuna delle quali v’è fabricato un palagio, con tante camere e loggie che non si potria credere: e quando alcuno vuol celebrar nozze, overo far qualche solenne convito, va ad uno di questi palagi, dove gli vien dato tutto quello che per questo effetto gli è necessario, cioè vasellami, tovaglie, mantili e ciascun’altra cosa, le qual sono tenute tutte in detti palagi per il commune di detta città a quest’effetto, perché furono fabricati da quello. E alle volte vi saranno cento, che alcuni voranno far conviti e altri nozze: e nondimeno tutti saranno accommodati in diverse camere e loggie, con tanto ordine che uno non dà impedimento agli altri. Oltre di questo si ritruovano in detto lago legni overo barche in gran numero grandi e picciole per andar a solazzo e darsi piacere, e in queste vi ponno stare dieci, quindici e venti e più persone, perché sono longhe quindici fino a venti passa, con fondo largo e piano, che navigano senza declinare ad alcuna banda; e ciascuno che si diletta di solazzarsi con donne overo con suoi compagni piglia una di queste tal barche, le qual di continuo sono tenute adorne con belle sedie e tavole e con tutti gli altri paramenti necessarii a far un convito; di sopra sono coperte e piane, dove stanno uomini con stanghe qual ficcano in terra (perché detto lago non è alto più di due passa), e conducono dette barche dove gli vien comandato. La coperta della parte di dentro è dipinta di varii colori e figure, e similmente tutta la barca, e vi sono a torno a torno finestre che si possono serrare e aprire, accioché quelli che stanno a mangiar sentati dalle bande possino riguardare di qua e di là, e dare dilettazione agli occhi per la varietà e bellezza de’ luoghi dove vengono condotti. E veramente l’andare per questo lago dà maggior consolazione e solazzo che alcun’altra cosa che aver si possa in terra, perché ‘l giace da un lato a longo della città, di modo che di lontano, stando in dette barche, si vede tutta la grandezza e bellezza di quella, tanti sono i palagi, tempii, monasterii, giardini con alberi altissimi posti sopra l’acqua. E si truovano di continuo in detto lago simil barche con genti che vanno a solazzo, perché gli abitatori di questa città non pensano mai ad altro se non che, fatti che hanno i loro mestieri overo mercanzie, con le loro donne overo con quelle da partito dispensano una parte del giorno in darsi piacere, o in dette barche overo in carrette per la città, delle qual è necessario che ne parliamo alquanto, per esser un de’ piaceri che gli abitanti pigliano per la città, al medesimo modo che fanno con le barche per il lago.

E prima è da sapere che tutte le strade di Quinsai sono saleggiate di pietre e di mattoni, e similmente sono saleggiate tutte le vie e strade che corrono per ogni canto della provincia di Mangi, sì che si può andare per tutti i paesi di quella senza imbrattarsi i piedi. Ma perché i corrieri del gran Can con prestezza non potriano con cavalli correre sopra le strade saleggiate, però è lasciata una parte di strada dalla banda senza saleggiare, per causa di detti corrieri. La strada veramente principale, che abbiamo detto di sopra che corre da un capo all’altro della città, è saleggiata similmente di pietre e di mattoni dieci passa per ciascuna banda, ma nel mezo è tutta ripiena d’una giara picciola e minuta, con li suoi condotti in volto che conducono le acque che piovono ne’ canali vicini, di sorte che di continuo sta asciutta. Or sopra questa strada di continuo si veggono andar su e giù alcune carrette longhe, coperte e acconcie con panni e cussini di seta, sopra le quali vi possono stare sei persone, e vengono tolte ogni giorno da uomini e donne che vogliono andar a solazzo: e si veggono tutt’ora infinite di queste carrette andar a longo di detta strada pel mezo di quella, e se ne vanno a’ giardini, dove vengono accettati dagli ortolani sotto alcune ombre fatte per questo effetto, e quivi stanno a darsi buon tempo tutto il giorno con le lor donne, e poi la sera se ne ritornano a casa sopra dette carrette.

Hanno un costume gli abitatori di Quinsai, che come nasce un fanciullo il padre o la madre fa subito scriver il giorno e l’ora e il punto del suo nascere, e si fanno dire agli astrologhi sotto qual segno egli è nato, e il tutto scrivono: e come egli è venuto grande volendo far mercanzia, viaggio o nozze, se ne va all’astrologo con la nota sopradetta, qual, veduto e considerato il tutto, dice alcune volte cose che, trovate esser vere, le genti li danno grandissima fede. E di questi tal astrologhi overo maghi ve n’è grandissimo numero sopra ciascuna piazza; non si celebraria sponsalizio se l’astrologo non li dicesse il parer suo.

Hanno similmente per usanza che, quando alcun gran maestro ricco muore, tutti i suoi parenti si vestono di canevaccio, così uomini come donne, andandolo accompagnare fino al luogo dove lo vogliono abbruciare, e portano seco diverse sorti d’instrumenti, con li qual vanno sonando e cantando in alta voce orazioni agl’idoli; e giunti al detto luogo gettano sopra il fuoco molte carte bombagine, dove hanno dipinti schiavi, schiave, cavalli, camelli, drappi d’oro e di seta e monete d’oro e d’argento, perché dicono che ‘l morto possederà nell’altro mondo tutte queste cose vive di carne e d’ossa, e averà denari, drappi d’oro e di seta. E compiuto d’abbruciare suonano ad un tratto con grand’allegrezza tutti li stromenti di continuo cantando, perché dicono che con tal onore li loro idoli ricevono l’anima di quello che s’è abbruciato, e ch’egli, rinasciuto nell’altro mondo, comincia una vita di nuovo.

In questa città in ciascuna contrata vi sono fabricate torri di pietra, nelle qual, in caso che s’appiccia fuoco in qualche casa (il che spesso suol accadere, per esservene molte di legno), le genti scampano le loro robbe in quelle. E ancor è ordinato per il gran Can che sopra la maggior parte de’ ponti vi stiano notte e giorno sott’un coperto dieci guardiani, cioè cinque la notte e cinque il giorno, e in ciascuna guardia v’è un tabernacolo grande di legno con un bacino grande e un oriuolo, con il quale conoscono l’ore della notte e così quelle del giorno. E sempre al principio della notte, com’è passata un’ora, un de’ detti guardiani percuote una volta nel tabernacolo e nel bacino, e la contrata sente ch’egli è un’ora; alla seconda danno due botte, e il simil fanno in ciascun’ora moltiplicando i colpi, e non dormono mai, ma stanno sempre vigilanti. La mattina poi al spontare del sole cominciano a battere un’ora come hanno fatto la sera, e così d’ora in ora. Vanno parte di loro per la contrata vedendo s’alcuno tiene lume acceso o fuoco oltre le ore deputate, e vedendolo segnano la porta, e fanno che la mattina il patrone compare avanti i signori, qual, non trovando scusa legitima, viene condannato. Se truovano alcuno che vada di notte oltre le ore limitate, lo ritengono e la mattina l’appresentano alli signori; item, se ‘l giorno veggono alcun povero, qual per esser storpiato non possa lavorare, lo fanno andar a stare negli spedali, che infiniti ve ne sono per tutta la città fatti per li re antichi, che hanno grand’entrate; ed essendo sano lo constringono a fare alcun mestiero. Immediate che veggono il fuoco acceso in alcuna casa, con il battere nel tabernacolo lo fanno assapere, e vi concorrono li guardiani d’altri ponti a spegnerlo e salvare le robbe de’ mercanti o d’altri in dette torri, e anche le mettono in barche e portano all’isole che sono nel lago, perché niun abitante della città in tempo di notte averia ardimento d’uscir di casa né andar al fuoco, ma solamente vi vanno quelli di chi sono le robbe e queste guardie che vanno ad aiutare, le qual non sono mai manco di mille o duemila. Fanno anco guardia in caso d’alcuna ribellione o sollevazione che facessero gli abitanti della città, e sempre il gran Can tien infiniti soldati da piedi e da cavallo nella città e ne’ contorni di quella, e massime de’ maggior suoi baroni e suoi fedeli ch’egli abbi, per esserli questa provincia la più cara, e sopra tutto questa nobilissima città, ch’è il capo e più ricca d’alcun’altra che sia al mondo. Vi sono similmente fatti in molti luoghi monti di terra, lontani un miglio un dall’altro, sopra i quali v’è una baldescra di legname dove è appiccata una tavola grande di legno, la qual, tenendola un uomo con la mano, la percuote con l’altra con un martello, sì che s’ode molto di lontano: e vi stanno delle dette guardie di continuo per far segno in caso di fuoco, perché, non li facendo presta provisione, anderia a pericolo d’ardere meza la città; overo, come è detto, in caso di ribellione, che udito il segno tutti i guardiani de’ ponti vicini pigliano l’armi e corrono dove è il bisogno.

Il gran Can, dopo ch’ebbe redutta a sua obedienza tutta la provincia di Mangi, qual era un regno solo, lo volse dividere in nove parti, constituendo sopra ciascuna un re, li quali vi vanno a star per governare e administrare giustizia alli popoli. Ogn’anno rendono conto alli fattori d’esso gran Can di tutte l’entrate e di ciascun’altra cosa pertinente al suo regno, e si cambian ogni tre anni, come fanno tutti gli altri officiali. In questa città di Quinsai tiene la sua corte e fa residenzia un di questi nove re, qual domina più di cento e quaranta città, tutte ricche e grandi. Né alcuno si maravigli, perché nella provincia di Mangi vi sono 1200 città, tutte abitate da gran moltitudine di genti ricche e industriose; in ciascuna delle quali, secondo la grandezza e bisogno, tiene la custodia il gran Can, perché in alcune vi saranno mille uomini, in altre diecimila overo ventimila, secondo ch’egli giudicherà che quella città sia più e manco potente. Né pensiate che tutti siano Tartari, ma della provincia del Cataio, perché li Tartari sono uomini a cavallo, e non stanno se non appresso le città che non siano in luoghi umidi, ma nelle situate in luoghi sodi e secchi, dove possino esercitarsi a cavallo. In queste città di luoghi umidi vi manda Cataini e di quelli di Mangi che siano uomini armigeri, perché di tutti li suoi subditi ogn’anno ne fa eleggere quelli che paiono atti alle armi e scriver nel suo esercito, che tutti si chiamano eserciti; e gli uomini che si cavano della provincia di Mangi non si mettono alla custodia delle lor proprie città, ma si mandano ad altre che siano discoste venti giornate di camino, dove dimorano da quattro in cinque anni e poi ritornano a casa, e vi si mandan degli altri in loro luogo. E questo ordine osservano i Cataini e quelli della provincia di Mangi, e la maggior parte dell’entrate delle città che si riscuotono nella camera del gran Can è deputata al mantenere di queste custodie de’ soldati. E se avviene che qualche città ribelli (perché spesse fiate gli uomini, soprapresi da qualche furore o ebrietà, ammazzano i suoi rettori), subito come s’intende il caso, le città propinque mandano tanta gente di questi eserciti che distruggono quelle città che hanno commesso l’errore, perché saria cosa longa il voler far venire un esercito d’altra provincia del Cataio, che importaria il tempo di due mesi. E di certo la città di Quinsai ha di continua guardia trentamila soldati, e quella che n’ha meno n’ha mille fra da piedi e da cavallo.

Or parleremo d’un bellissimo palagio dove abitava il re Fanfur, li predecessori del quale fecero serrare un spazio di paese che circondava da dieci miglia con muri altissimi, e lo divisero in tre parti. In quella di mezo s’entrava per una grandissima porta, dove si trovava da un canto e dall’altro loggie a piè piano grandissime e larghissime, col coperchio sostentato da colonne, le quali erano dipinte e lavorate con oro e azzurri finissimi; in testa poi si vedeva la principale e maggior di tutte l’altre, similmente dipinta con le colonne dorate, e il solaro con bellissimi ornamenti d’oro, e d’intorno alle pareti erano dipinte le istorie de’ re passati, con grand’artificio. Quivi ogn’anno, in alcuni giorni dedicati alli suoi idoli, il re Fanfur soleva tener corte e dar da mangiare a’ principali signori, gran maestri e ricchi artefici della città di Quinsai: e ad un tratto vi sentavano a tavola commodamente sotto tutte dette loggie diecimila persone. E questa corte durava dieci o dodici giorni, ed era cosa stupenda e fuor d’ogni credenza il vedere la magnificenza de’ convitati, vistiti di seta e d’oro, con tante pietre preziose addosso, perché ognun si sforzava d’andare con maggior pompa e ricchezza che li fosse possibile. Dietro di questa loggia ch’abbiamo detto, ch’era per mezo la porta grande, v’era un muro con un uscio che divideva l’altra parte del palagio, dove entrati si trovava un altro gran luogo, fatto a modo di claustro, con le sue colonne che sostentavano il portico ch’andava atorno detto claustro: e quivi erano diverse camere per il re e la reina, le quali erano similmente lavorate con diversi lavori, e così tutti i pareti. Da questo claustro s’entrava poi in un andito largo sei passa, tutto coperto, ma era tanto longo che arrivava fino sopra il lago. Rispondevano in questo andito dieci corti da una banda e dieci dall’altra, fabricate a modo di claustri longhi, con li loro portichi intorno, e ciascun claustro overo corte avea cinquanta camere con li suoi giardini, e in tutte queste camere vi stanziavano mille donzelle che ‘l re teneva a’ suoi servizii; qual andava alcune fiate, con la regina e con alcune delle dette, a solazzo per il lago, sopra barche tutte coperte di seta, e anco a visitar li tempii degl’idoli. L’altre due parti del detto serraglio erano partite in boschi, laghi e giardini bellissimi, piantati d’arbori fruttiferi, dove erano serrati ogni sorte d’animali, cioè caprioli, daini, cervi, lepori, conigli: e quivi il re andava a piacere con le sue damigelle, parte in carretta e parte a cavallo, e non v’entrava uomo alcuno, e faceva che le dette correvano con cani e davano la caccia a questi tal animali; e dopo ch’erano stracche andavano in quei boschi che rispondevano sopra detti laghi, e quivi lasciate le vesti, se n’uscivano nude fuori ed entravano nell’acqua e mettevansi a nuotare, chi da una banda e chi dall’altra, e il re con grandissimo piacere le stava a vedere, e poi se ne ritornava a casa. Alcune fiate si faceva portar da mangiar in quei boschi, ch’erano folti e spessi d’alberi altissimi, servito dalle dette damigelle. E con questo continuo trastullo di donne s’allevò senza saper ciò che si fossero armi, la qual cosa alla fine li partorì che, per la viltà e dapocaggine sua, il gran Can li tolse tutt’il stato, con grandissima sua vergogna e vituperio, come di sopra si ha inteso.

Tutta questa narrazione mi fu detta da un ricchissimo mercante di Quinsai, trovandomi in quella città, qual era molto vecchio e stato intrinseco familiar del re Fanfur, e sapeva tutta la vita sua e avea veduto detto palagio in essere, nel quale lui volse condurmi. E perché vi stanzia il re deputato per il gran Can, le loggie prime sono pure come solevan essere, ma le camere delle donzelle sono andate tutte in ruina, e non si vede altro che vestigii; similmente il muro che circondava li boschi e giardini è andato a terra, e non vi sono più né animali né arbori.

Discosto da questa città circa venticinque miglia v’è il mare Oceano, fra greco e levante, appresso il quale v’è una città detta Gampu, dove è un bellissimo porto, al quale arrivano tutte le navi che vengono d’India con mercanzie. E il fiume che viene dalla città di Quinsai entrando in mare fa questo porto, e tutt’il giorno le navi di Quinsai vanno su e giù con mercanzie, e ivi caricano sopra altre navi, che vanno per diverse parti dell’India e del Cataio.

Avendosi trovato messer Marco in questa città di Quinsai quando si rendé conto alli fattori del gran Can dell’entrate e numero degli abitanti, ha veduto che sono stati descritti 160 toman di fuochi, computando per un fuoco la famiglia che abita in una casa (e ciascun toman contiene diecimila), sì che in tutta la detta città sariano famiglie un millione e seicentomila: e in tanto numero di genti non v’è altra ch’una chiesa di cristiani nestorini. Sono obligati tutti i padri di famiglia di tener scritto sopra la porta della sua casa il nome di tutta la famiglia, così di maschi come di femine; item il numero de’ cavalli: e quando alcuno manca si cancella il nome, e se nasce o si toglie di nuovo s’aggiugne il nome, e a questo modo i signori e rettori delle città sanno di continuo il numero delle genti. E questo s’osserva nelle provincie del Mangi e del Cataio; e similmente tutti quelli che tengono ostarie scrivono sopra un libro il nome di quelli che vengon ad alloggiare, col giorno e l’ora che partono, e mandano di giorno in giorno detti nomi alli signori che stanno sopra le piazze. Item nella provincia di Mangi la maggior parte de’ poveri bisognosi, che non possono allevare i loro figliuoli, li vendono alli ricchi, acciò che meglio sian allevati e più abondantemente possino vivere.

Capitolo 69

Dell’entrata del gran Can.

Or parliamo alquanto dell’entrata che ha il gran Can della città di Quinsai e dell’altre a quella aderenti: il gran Can riceve da detta città e dall’altre che a quella rispondono, ch’è la nona parte overo il nono regno di Mangi; e prima del sale, che val più quanto alla rendita. Di questo ne cava ogn’anno ottanta toman d’oro, e ciascun toman è ottantamila saggi d’oro, e ciascun saggio vale più d’un fiorin d’oro, che ascenderia alla somma di sei millioni e quattrocentomila ducati: e la causa è ch’essendo detta provincia appresso l’oceano, vi sono molte lagune, overo paludi, dove l’acqua del mare l’estate si congela, e vi cavano tanta quantità di sale che ne forniscono cinque altri regni della detta provincia. Quivi nasce gran copia di zucchero, qual paga come fanno tutte l’altre specie tre e un terzo per cento; similmente, del vino che si fa di risi; delle dodici arti ch’abbiamo detto di sopra, che hanno dodicimila botteghe per una. Item tanti mercanti che portano le loro robbe a questa città, e da quella ad altre parti per terra riportano, overo traggono fuori per mare, pagano similmente tre e un terzo per cento; ma, venendo per mare e di lontani paesi e regioni, come dell’Indie, pagano dieci per cento. E similmente, di tutte le cose che nascono nel paese, così animali come di quel che produce la terra, e seta, si paga la decima al re. E fatt’il conto in presenza del detto messer Marco, fu trovato che l’entrata di questo signore, non computando l’entrata del sale detta di sopra, ascende ogn’anno alla somma di 210 tomani, e ogni toman, com’è detto di sopra, vale ottantamila saggi d’oro, che saria da sedici millioni d’oro e ottocentomila.

Capitolo 70

Della città di Tapinzu.

Partendosi dalla città di Quinsai, si camina una giornata verso scirocco, di continuo trovando case, ville e giardini molti belli e dilettevoli, dove nasce ogni sorte di vittuarie in abondanza; e poi s’arriva alla città di Tapinzu, molto bella e grande, che risponde alla città di Quinsai. Adorano idoli, e hanno la moneta di carta; abbruciano i corpi, e sono sotto il gran Can, e vivono di mercanzie e arti.

E altro non v’essendo, si dirà della città di Uguiu.

Capitolo 71

Della città di Uguiu.

Da Tapinzu andando verso scirocco tre giornate, si truova la città di Uguiu, e per due altre giornate pur per scirocco si cammina, di continuo trovando città, castella e luoghi abitati; ed è tanta la continuazione e vicinità che hanno insieme, che par a’ viandanti passare per una sola città; le qual città rispondono a Quinsai. Tutte le genti adorano gl’idoli, e hanno abondanza grande di vittuarie. Quivi si truovano canne più grosse e più longhe di quelle dette di sopra, perché ne sono alcune grosse quattro palmi e quindici passa longhe.

Capitolo 72

Della città di Gengui e di Zengian.

Andando più oltre due giornate, si truova la città di Gengui, la qual è molto bella e grande; e dopo, camminando per scirocco, si truovan sempre luoghi abitati e tutti pieni di genti che fanno arti e lavorano la terra, e in questa parte della provincia di Mangi non si truovano montoni, ma sì ben buoi, vacche, buffali, capre e porci in grandissimo numero. In capo di quattro giornate, si trova la città di Zengian, edificata sopra un monte, ch’è come un’isola in mezo un fiume, perché la diparte in due rami, che la circonda, e poi corrono all’opposito l’un dall’altro, cioè uno verso scirocco e l’altro verso maestro. Questa città è sottoposta al gran Can e risponde a Quinsai; adorano gl’idoli e vivono di mercanzie, e hanno gran copia di salvaticine e uccelli. E passando avanti tre giornate per una bellissima contrada, tutta abitata, con infinite ville e castelli, si truova la città di Gieza, nobile e grande: ed è l’ultima della provincia del regno di Quinsai, perché quello è il capo al qual tutte corrispondono. Passata questa città di Gieza s’entra in un altro regno de’ nove della provincia di Mangi, detto Concha.

Capitolo 73

Del regno di Concha, e della città principale detta Fugiu.

Partendosi dall’ultima città del regno di Quinsai, qual si chiama Gieza, s’entra nel regno di Concha (e la città principale è detta Fugiu), per il quale si camina sei giornate alla volta di scirocco sempre per monti e valli, e si truovano di continuo luoghi abitati, dove è gran copia di vittuarie, e vi fanno gran cacciagioni e vanno ad uccellare, per esservi varie sorti d’uccelli. Sono idolatri e sottoposti al gran Can, e fanno mercanzie. In questi contorni si trovano leoni fortissimi. Vi nasce il zenzero e galanga in gran copia e d’altre sorti di specie, e per una moneta che vaglia un grosso d’argento veneziano s’averà ottanta libre di zenzero fresco, tanto ve n’è abondanza. Vi nasce un’erba che produce un frutto che fa l’effetto e opera come se ‘l fosse vero zaffarano, così nell’odore come nel colore, e nondimeno non è zaffarano, ed è molto stimata e adoperata da tutti gli abitanti ne’ loro cibi, e per questo è molto cara. Gli uomini in questa regione mangiano volentieri carne umana, non essendo morta di malattia, perché la reputano più delicata al gusto che alcun’altra. E quando vanno a combattere si fanno levar i capelli fino all’orecchie, e dipingere la faccia con color azzurro finissimo; portano lancie e spade, e tutti vanno a piedi, eccetto che ‘l capitano a cavallo. Sono uomini crudelissimi, di modo che, come uccidono li nemici in battaglia, immediate li vogliono bevere il sangue e dopo mangiar la carne.

Or, lasciando di questo, diremo della città di Quelinfu.

Capitolo 74

Della città di Quelinfu.

Camminato che s’ha per questo paese per sei giornate, si truova la città di Quelinfu, la qual è nobile e grande. In detta città vi sono tre ponti bellissimi, perché sono longhi più di cento passa l’uno e larghi otto, di pietra con colonne di marmo. Le donne di questa città sono bellissime e vivono con gran delicatezza. Hanno gran copia di seta, la qual lavorano in diverse sorti di drappi; item panni bombagini di fil tinto, che va per tutta la provincia di Mangi. Fanno gran mercanzie, e hanno zenzero e galanga in gran quantità. Mi fu detto (ma io non le viddi) che si truovan certe sorti di galline che non hanno penne, ma sopra la pelle vi sono peli negri come di gatte, ch’è una strana cosa a vederle, le qual fanno ova come quelle de’ nostri paesi, e sono molto buone da mangiare. Per la moltitudine de’ leoni che si truovano il passar per quella contrata è molto pericoloso, se non vanno in gran numero le persone.

Capitolo 75

Della città di Unguem.

Da Quelinfu partendosi, fatte che s’hanno tre giornate, sempre vedendo e trovando città e castella, dove sono genti idolatre e hanno seta in gran copia, della qual fanno gran mercanzie, si trova la città di Unguem, dove si fa gran copia di zucchero, che si manda alla città di Cambalù per la corte del gran Can. E prima che questa città fusse sotto il gran Can non sapevano quelle genti far il zucchero bello, ma lo facevano bollire spiumandolo e dapoi raffreddito rimaneva una pasta nera; ma, venuta all’obedienza del gran Can, vi si truovorno nella corte alcuni uomini di Babilonia che, andati in questa città, gl’insegnorono ad affinarlo con cenere di certi arbori.

Capitolo 76

Della città di Cangiu.

Passando avanti per miglia quindeci si truova la città di Cangiu, la qual è del reame di Concha, ch’è uno delli nove reami di Mangi. In questa città dimora grande esercito del gran Can, per guardar quel paese e per esser sempre apparecchiato se alcuna città volesse ribellarsi. Passa per mezo di questa città un fiume che ha di larghezza un miglio, sopra le rive del quale, da un canto e dall’altro, vi sono bellissimi casamenti, e vi stanno di continuo assai navi che vanno per questo fiume con mercanzie, e massime di zucchero, che ne fanno in grandissima copia. Vi capitano a questa città molte navi d’India, dove sono mercanti con gran quantità di gioie e perle, delle qual fanno grosso guadagno. Questo fiume mette capo non molto lontano dal porto detto Zaitum, ch’è sopra il mare Oceano; e quivi le navi d’India entrano nel fiume e se ne vengono su per quello fino alla detta città, la qual è abondantissima di tutte le sorti di vittuarie, e di dilettevoli giardini e perfettissimi frutti.

Capitolo 77

Della città e porto di Zaithum e città di Tingui.

Partendosi da Cangiu, passato che si ha il fiume, camminando per scirocco cinque giornate, di continuo si truova terre, castelli e grandi abitazioni, ricche e molto abbondanti di ogni vittuaria, e camminasi per monti e anco per piani e boschi assai, nelli quali si truovano alcuni arboscelli di quali si raccoglie la canfora. E1 paese molto abbondante di salvaticine; sono idolatri, e sotto il gran Can, della iurisdizione di Cangiu. E passate cinque giornate, si truova la città di Zaitum, nobile e bella, la qual ha un porto sopra il mare Oceano, molto famoso per il capitare che fanno ivi tante navi con tante mercanzie, le qual si spargono per tutta la provincia di Mangi. E vi viene tanta quantità di pevere che quella che viene condotta di Alessandria alle parti di ponente è una minima parte, e quasi una per cento a comparazione di questa; e saria quasi impossibile di credere il concorso grande di mercanti e mercanzie a questa città, per esser questo un de’ maggiori e più commodi porti che si truovino al mondo. Il gran Can ha di quel porto grande utilità, perché cadauno mercante paga di dretto, per cadauna sua mercanzia, dieci misure per centenaro. La nave veramente vuole di nolo dalli mercanti delle mercanzie sottili trenta per centenaro, del pevere quarantaquattro per centenaro, del legno di aloe e sandali e altre specie e robbe quaranta per centenaro, di sorte che li mercanti, computato i dretti del re e il nolo della nave, pagano la metà di quello che conducono a questo porto: e nondimeno di quella metà che li avanza fanno così grossi guadagni che ogni ora desiderano di ritornarvi con altre mercanzie.

Sono idolatri, e hanno abondanza di tutte le vittuarie. E1 molto dilettevol paese e le genti sono molto quiete e dedite al riposo e ozioso vivere. Vengono a questa città molti della superior India, per causa di farsi dipingere la persona con gli aghi (come di sopra abbiamo detto), per essere in questa città molti valenti maestri di questo officio. Il fiume che entra nel porto di Zaitum è molto grande e largo, e corre con grandissima velocità, ed è un ramo che fa il fiume che viene dalla città di Quinsai; e dove si parte dall’alveo maestro vi è la città di Tingui, della qual non si ha da dir altro se non che in quella si fanno le scodelle e piadene di porcellane, in questo modo, secondo che li fu detto. Raccolgono una certa terra come di una minera e ne fanno monti grandi, e lascianli al vento, alla pioggia e al sole per trenta e quaranta anni, che non li muovono: e in questo spazio di tempo la detta terra si affina, che poi si può far dette scodelle, alle qual danno di sopra li colori che voglion, e poi le cuocono in la fornace. E sempre quelli che raccolgono detta terra la raccolgono per suoi figliuoli o nepoti. Vi è in detta città gran mercato, di sorte che per un grosso veneziano si averà otto scodelle.

Or, avendo detto di alcune città del regno di Concha, che è uno delli nove della provincia di Mangi, del quale il gran Can ha quasi così grande entrata come del regno di Quinsai, lassaremo di parlar più di questi tali regni, perché messer Marco non vi fu in alcun d’essi, come fu in questi duoi di Quinsai e di Concha. Ed è da sapere che in tutta la provincia di Mangi si osserva una sola favella e una sola maniera di lettere; nondimeno vi è diversità nel parlare per le contrade, come saria a dir Genovesi, Milanesi, Fiorentini e Pugliesi, che, ancor che parlino diversamente, nondimeno si possono intendere.

Ma, perché ancor non è compiuto quanto messer Marco ha deliberato di scrivere, si metterà fine a questo secondo libro, e si cominciarà a parlare de’ paesi, città e provincie dell’India maggior, minor e mezzana, nelle parti delle quali è stato quando si trovava a’ servizii del gran Can, mandato da quello per diverse facende, e dapoi quando li venne con la regina del re Argon, con suo padre e barba, e ritornò alla patria: però si dirà delle cose maravigliose ch’ei vidde in quelle, non lasciando adietro l’altre che udì dire da persone di riputazione e degne di fede, e ancor che li fu mostrato sopra carte di marinari di dette Indie.

[Libro terzo]

Capitolo 1

Dell’India maggiore, minore e mezzana, e de’ costumi e consuetudini degli abitanti in quella, e molte cose notabili e maravigliose che vi sono, e prima della sorte delle navi di quella.

Poi ch’abbiamo detto di tante provincie e terre, come avete udito disopra, lasciaremo di parlar di quella materia e cominciaremo a entrare nell’India, per referire tutte le cose maravigliose che vi sono, principiando dalle navi de’ mercanti, le quali sono fabricate di legno d’abete e di zapino, e cadauna ha una coperta sotto la qual vi sono più di sessanta camerette, e in alcune manco, secondo che le navi sono più grandi e più picciole, e in cadauna vi può stare agiatamente un mercante. Hanno un buon timone e quattro arbori con quattro vele, e alcune due arbori, che si levano e pongono ogni volta che vogliono. Hanno oltra di ciò alcune navi, cioè quelle che sono maggiori, ben tredici colti, cioè divisioni dalla parte di dentro fatte con ferme tavole incastrate, di modo che, s’egli accade che la nave si rompa per qualche fortuito caso, cioè o che ferisca in qualche sasso o vero qualche balena mossa dalla fame quella percotendo rompa (il che spesse volte avviene), perché quando la nave, navigando di notte, facendo inondare l’acqua passa a canto la balena, essa, vedendo biancheggiar l’acqua, pensa di ritrovarvi cibo e corre velocemente e ferisce la nave, e spesse fiate la rompe in qualche parte, e allora, entrando l’acqua per la rottura, discorre alla sentina, la qual mai non è occupata d’alcuna cosa; onde i marinari, trovando in che parte è rotta la nave, votano il colto negli altri che a quella rottura respondono, perché l’acqua non può passare d’un colto all’altro, essendo quelli così ben incastrati, e allora acconciano la nave, e poi vi ripongono le mercanzie ch’erano state cavate fuori. Sono le navi inchiavate in questo modo: tutte sono doppie, cioè che hanno due mani di tavole una sopra l’altra intorno intorno, e sono calcate con stoppa dentro e di fuori e inchiodate con chiovi di ferro; non sono impegolate, perché non hanno pece, ma l’ungono in questo modo: tolgono calcina e canapo e taglianlo minutamente, e pestato il tutto insieme mescolano con un certo olio d’arbore, che si fa a modo d’un unguento, ch’è più tenace del vischio e miglior che la pece. Queste navi che sono grandi vogliono trecento marinari, altre dugento, altre centocinquanta, più e manco, secondo che sono più grandi e più picciole, e portano da cinque in seimila sporte di pevere. E già per il passato solevano esser maggiori che non sono al presente, ma, avendo l’empito del mare talmente rotto l’isole in molti luoghi, e massime nei porti principali, che non si trovava acqua sofficiente a levar quelle navi così grandi, però sono state fatte al presente minori.

Con queste navi si va anco a remi, e cadauno remo vuol quattro uomini che ‘l voghi. E queste navi maggiori menano seco due e tre barche grandi, che sono di portata di 1000 sporte di pevere e più, e vogliono al suo governo da sessanta marinari, altre da ottanta, altre da cento. E quelle più picciole aiutano spesso a tirare le grandi con corde quando vanno a remi, e ancora quando vanno a vela, se il vento è alquanto da traverso, perché le picciole vanno avanti le grandi e, legate con le corde, tirano la nave grande; ma se hanno il vento per il dritto no, perché le vele della maggior nave impedirebbono che ‘l vento non ferirebbe nelle vele delle minori, e così la maggiore andrebbe adosso alle minori. Item queste navi conducono ben dieci battelli piccioli per l’ancora, e per cagione di pescare e di far tutti li servigii, e questi battelli si legano di fuori dei lati delle navi grandi, e quando vogliono si mettono in acqua; e le barche similmente hanno li suoi battelli. E quando vogliono racconciar la nave, poi che ha navigato un anno o più, avendo bisogno di concia li ficcano tavole a torno a torno sopra le due prime tavole, di modo che sono tre man di tavole, e le calcano e ungonle; e volendole pur racconciare un’altra volta vi ficcano di novo un’altra man di tavole, e così procedono di concia in concia fino al numero di sei tavole l’una sopra l’altra, e da lì in su la nave si manda alla mazza né più si naviga con quella per mare.

Or, avendo detto delle navi, diremo dell’India; ma prima vogliamo dire d’alcune isole che sono nel mare Oceano, dove siamo al presente, e cominciaremo dall’isola chiamata Zipangu.

Capitolo 2

Dell’isola di Zipangu.

Zipangu è un’isola in Oriente, la qual è discosto dalla terra e lidi di Mangi in alto mare millecinquecento miglia, ed è isola molto grande, le cui genti sono bianche e belle e di gentil maniera. Adorano gl’idoli e mantengonsi per se medesimi, cioè che si reggono dal proprio re. Hanno oro in grandissima abbondanza, perché ivi si truova fuor di modo e il re non lo lascia portar fuori; però pochi mercanti vi vanno, e rare volte le navi d’altre regioni. E per questa causa diremovi la grand’eccellenza delle ricchezze del palagio del signore di detta isola, secondo che dicono quelli ch’hanno pratica di quella contrada: v’ha un gran palagio tutto coperto di piastre d’oro, secondo che noi copriamo le case o vero chiese di piombo, e tutti i sopracieli delle sale e di molte camere sono di tavolette di puro oro molto grosse, e così le finestre sono ornate d’oro. Questo palagio è così ricco che niuno potrebbe giamai esplicare la valuta di quello. Sono ancora in questa isola perle infinite le quali sono rosse, ritonde e molto grosse, e vagliono quanto le bianche, e più. E in questa isola alcuni si sepeliscono quando son morti, alcuni s’abbruciano, ma a quelli che si sepeliscono vi si pone in bocca una di queste perle, per esser questa la loro consuetudine. Sonvi eziandio molte pietre preciose.

Questa isola è tanto ricca che per la fama sua il gran Can ch’al presente regna, che è Cublai, deliberò di farla prendere e sottoporla al suo dominio. Mandò adunque duoi suoi baroni con gran numero di navi piene di gente per prenderla, de’ quali uno era nominato Abbaccatan e l’altro Vonsancin, quali, partendosi dal porto di Zaitum e Quinsai, tanto navigorno per mare che pervennero a questa isola. Dove smontati, nacque invidia fra loro, che l’uno dispregiava d’obedire alla volontà e consiglio dell’altro, per la qual cosa non poteron pigliare alcuna città o castello, salvo che uno che presono per battaglia, però che quelli ch’erano dentro non si volsero mai rendere: onde, per comandamento di detti baroni, a tutti furono tagliate le teste, salvo che a otto uomini, li quali si trovò ch’avevano una pietra preciosa incantata per arte diabolica cucita nel braccio destro fra la pelle e carne, che non potevano esser morti con ferro né feriti. Il che intendendo, quei baroni fecero percotere li detti con un legno grosso, e subito morirono.

Avvenne un giorno che ‘l vento di tramontana cominciò a soffiar con grande impeto, e le navi de’ Tartari, ch’erano alla riva dell’isola, sbattevano insieme. Li marinari adunque consigliatisi deliberarono slontanarsi da terra, onde, entrato l’esercito nelle navi, si allargarono in mare, e la fortuna cominciò a crescere con maggior forza, di sorte che se ne ruppero molte, e quelli che v’erano dentro, notando con pezzi di tavole, si salvorono ad una isola vicina a Zipangu quattro miglia. Le altre navi che non erano vicine, scapolate dal naufragio con li duoi baroni, avendo levati gli uomini da conto, cioè li capi de’ centenari di mille e diecimila, drizzorono le vele verso la patria e al gran Can. Ma i Tartari rimasti sopra l’isola vicina (erano da circa trentamila), vedendosi senza navi e abbandonati dalli capitani, non avendo né arme da combattere né vettovaglie, credevano di dovere essere presi e morti, massimamente non vi essendo in detta isola abitazione dove potessero ripararsi. Cessata la fortuna ed essendo il mare tranquillo e in bonaccia, gli uomini della grande isola di Zipangu, con molte navi e grande esercito, andorno all’isola vicina per pigliar li Tartari che quivi s’erano salvati, e smontati delle navi si misero ad andarli a trovare con poco ordine. Ma li Tartari prudentemente si governarono, percioché l’isola era molto elevata nel mezo, e mentre che li nemici per una strada s’affrettavano di seguitarli, essi andando per un’altra circondarono a torno l’isola e pervennero a’ navilii de’ nemici, quali truovorno con le bandiere e abbandonati; e sopra quelli immediate montati andarono alla città maestra del signor di Zipangu, dove, vedendosi le loro bandiere, furono lasciati entrare, e quivi non trovorno altro che donne, le qual tennero per loro uso, scacciando fuori tutto il resto del popolo. Il re di Zipangu, intesa la cosa come era passata, fu molto dolente, e subito se ne venne a mettere l’assedio, non vi lasciando entrare né uscire persona alcuna, qual durò per mesi sei; dove, vedendo i Tartari che non potevano aver aiuto alcuno, al fine si resero salve le persone: e questo fu correndo gli anni del Signore 1264.

Il gran Can dopo alcuni anni, avendo inteso il disordine sopradetto, successo per causa della discordia di due capitani, fece tagliar la testa ad un di loro, l’altro mandò ad un’isola salvatica detta Zorza, dove suol far morire gli uomini che hanno fatto qualche mancamento, in questo modo: gli fa ravolgere tutte due le mani in un cuoio di buffalo allora scorticato e strettamente cucire, qual come si secca si strigne talmente intorno che per niun modo si può muovere, e così miseramente finiscono la loro vita, non potendosi aiutare.

Capitolo 3

Della maniera degl’idoli di Zipangu, e come gli abitanti mangiano carne umana.

In quest’isola di Zipangu e nell’altre vicine tutti i loro idoli sono fatti diversamente, perché alcuni hanno teste di buoi, altri di porci, altri di cani e di becchi e di diverse altre maniere; ve ne sono poi alcuni ch’hanno un capo e due volti, altri tre capi, cioè uno nel luogo debito e gli altri due sopra ciascuna delle spalle, altri ch’hanno quattro mani, alcuni dieci e altri cento, e quelli che n’hanno più si tiene ch’abbiano più virtù, e a quelli fanno maggior riverenza. E quando i cristiani li domandano perché fanno li loro idoli così diversi, rispondono: “Così i nostri padri e predecessori gli hanno lasciati, e parimente così noi li lasciamo a’ nostri figliuoli e successori”. Le operazioni di questi idoli sono di tante diversità, e così scelerate e diaboliche, che saria cosa empia e abominabile a raccontarle nel libro nostro. Ma vogliamo che sappiate almeno questo, che tutti gli abitatori di queste isole che adorano gl’idoli, quando prendono qualcuno che non sia loro amico e che non si possa riscuotere con denari, convitano tutti i loro parenti e amici a casa sua, e fanno uccidere quell’uomo suo prigione e lo fanno cuocere, e mangianselo insieme allegramente, e dicono che la carne umana è la più saporita e migliore che si possa truovar al mondo.

Capitolo 4

Del mare detto Cin, ch’è per mezo la provincia di Mangi.

Avete da sapere che ‘l mare dov’è quest’isola si chiama mare Cin, che tanto vuol dire quanto mare ch’è contra Mangi: e nella lingua di costoro dell’isola, Mangi si chiama Cin. E questo mare Cin ch’è in Levante è così longo e largo che i savi pilotti e marinari, che per quello navigano e conoscono la verità, dicono che in quello vi sono settemilaquattrocento e quaranta isole, e per la maggior parte abitate, e che non vi nasce arbore alcuno dal quale non esca un buono e gentil odore, e vi nascono molte specie di diverse maniere, e massime legno aloe; il pevere in grand’abondanza, bianco e nero. Non si potrebbe dire la valuta dell’oro e altre cose che si truovan in queste isole, ma sono così discoste da terra ferma che con gran difficultà e fastidio vi si può navigare; e quando vi vanno le navi di Zaitum o di Quinsai ne conseguiscono grandissima utilità, ma stanno un anno continuo a far il loro viaggio, perché vanno l’inverno e ritornano la state, però ch’hanno solamente venti di due sorti, de’ quali uno regna la state e l’altro l’inverno, di modo che vanno con un vento e ritornano con l’altro. E questa contrada è molto lontana dall’India. E perché dicemmo che questo mare si chiama Cin, è da sapere che questo è il mare Oceano, ma, come noi chiamiamo il mare Anglico e il mare Egeo, così loro dicono il mare Cin e il mare Indo: ma tutti questi nomi si contengono sotto il mare Oceano.

Or lasciaremo di parlar di questo paese e isole, perché sono troppo fuor di strada e io non vi son stato, né quelle signoreggia il gran Can; ma ritorniamo a Zaitum.

Capitolo 5

Del colfo detto Cheinan e de’ suoi fiumi.

Partendosi dal porto di Zaitum, si naviga per ponente alquanto verso garbin mille e cinquecento miglia, passando un colfo nominato Cheinan, il qual colfo dura di longhezza per il spazio di due mesi, navigando verso la parte di tramontana, il qual per tutto confina verso scirocco con la provincia di Mangi, e dall’altra parte con Ania e Toloman e molte altre provincie con quelle di sopra nominate. Per dentro a questo colfo vi sono isole infinite, e quasi tutte sono bene abitate, e in quelle si truova gran quantità d’oro di paiola, qual si raccoglie dell’acqua del mare dove sboccano i fiumi, e ancora di rame e d’altre cose: e fanno mercanzie di quello che si truova in un’isola e non si truova nell’altra. E contrattano ancora con quei di terra ferma, perché li vendon oro, rame e altre cose, e da loro comprano le cose che sono loro necessarie. Nella maggior parte di dette isole vi nasce assai grano. Questo colfo è tanto grande, e tante genti abitano in quello, che par quasi un altro mondo.

Capitolo 6

Della contrata di Ziamba, e del re di detto regno, e come si fece tributario del gran Can.

Or ritorniamo al primo trattato, cioè che partendosi da Zaitum, poi che s’ha navigato al traverso di questo colfo (come s’ha detto di sopra) millecinquecento miglia, si truova una contrata nominata Ziamba, la qual è molto ricca e grande. Reggesi dal proprio re, e ha favella da per sé. Le sue genti adorano gl’idoli, e danno tributo al gran Can di elefanti e legno d’aloe ogn’anno: e narrerenvi il come e perché.

Avvenne che Cublai gran Can nel 1268, intesa la gran ricchezza di quest’isola, volse mandar un suo barone nominato Sagatu, con molte genti a piedi e a cavallo, per acquistarla, e mosse gran guerra a quel regno. E il re, ch’era molto vecchio, nominato Accambale, non avendo genti con le quali potesse far resistenza alle forze d’esso gran Can, si ridusse alle fortezze de’ castelli e città, ch’erano sicurissime e si difendevano francamente. Ma i casali e abitazioni ch’erano per le pianure furono rovinate e guaste, e il re, vedendo che queste genti distruggevano e rovinavano del tutto il suo regno, mandò ambasciatori al gran Can, esponendoli ch’essendo egli uomo vecchio e avendo sempre tenuto il suo regno in tranquilla pace, li piacesse di non volere la destruzione di quello, ma che, volendo indi rimovere detto barone con le sue genti, li farebbe onorati presenti ogn’anno, col tributo d’elefanti e legno d’aloe. Il che intendendo il gran Can, mosso a pietà, comandò subito al detto Sagatu che dovesse partirsi e andar ad acquistar altre parti, il che fu eseguito immediate. E da quel tempo in qua il re manda al gran Can per tributo ogn’anno grandissima quantità di legno di aloe, e venti elefanti de’ più belli e maggiori che trovar si possano nelle sue terre: e in tal modo questo re si fece subdito del gran Can.

Ora, lasciando di questo, diremo delle condizioni del re e della sua terra. E prima, in questo regno alcuna donzella di conveniente bellezza non si può maritare se prima non è presentata al re, e s’ella gli piace se la tiene per alcun tempo, e poi le fa dare tanti denari che, secondo la sua condizione, ella si possa onorevolmente maritare. E messer Marco previous hit Polo next hit nel 1280 fu in questo luogo, e trovò che ‘l detto re avea trecento e venticinque figliuoli tra maschi e femine, i quali maschi per la maggior parte erano valenti nell’arme. Sono in questo regno molti elefanti e gran copia di legno d’aloe; vi sono ancora molti boschi d’ebano, il qual è molto nero, e vi si fanno di quei bellissimi lavori. Altre cose degne di relazione non vi sono, onde, partendoci di qui, narraremo dell’isola chiamata Giava maggiore.

Capitolo 7

Dell’isola detta Giava.

Partendosi da Ziamba, navigando tra mezodì e scirocco mille e cinquecento miglia, si truova una grandissima isola chiamata Giava, la quale, secondo che dicono alcuni buoni marinari, è la maggior isola che sia al mondo, imperoché gira di circuito più di tremila miglia: ed è sotto il dominio d’un gran re, le cui genti adoran gl’idoli, né danno tributo ad alcuno. Quest’isola è piena di molte ricchezze: il pevere, noci moscate, spico, galanga, cubebe, garofali, e tutte l’altre buone specie nascono in quest’isola, alla qual vanno molte navi con gran mercanzie, delle quali ne conseguiscono gran guadagno e utilità, perché vi si truova tant’oro che niuno lo potrebbe mai credere né raccontarlo. E il gran Can non ha procurato di soggiogarla, e questo per la longhezza del viaggio e il pericolo di navigare. E da quest’isola i mercanti di Zaitum e di Mangi hanno tratto molt’oro e lo traggono tutto ‘l giorno, e la maggior parte delle specie che si portano pel mondo si cavan da questa isola.

Capitolo 8

Dell’isole di Sondur e Condur e del paese di Lochac.

Partendosi da quest’isola di Giava, si naviga verso mezodì e garbin settecento miglia, e si truovano due isole, una delle quali è maggiore e l’altra minore: la prima è nominata Sondur e l’altra Condur, le quali due isole son disabitate, e per ciò si lascia di parlarne. E partendosi da queste, come s’ha navigato per scirocco da cinquanta miglia, si truova una provincia ch’è di terra ferma, molto ricca e grande, nominata Lochac, le cui genti adorano gl’idoli. Hanno favella da per sé e si reggono dal proprio re, né danno tributo ad alcuno, perché sono in tal luogo che niuno può andarvi a far danno; perché, se ivi si potesse andare, il gran Can immediate la sottometteria al suo dominio. In quest’isola nasce verzin domestico in gran quantità; hanno oro in tant’abondanza ch’alcuno non lo potrebbe mai credere, e hanno elefanti e molte cacciagioni da cani e da uccelli; e da questo regno si traggono tutte le porcellane che si portano per gli altri paesi, e si spende per moneta, com’è detto di sopra. E vi nasce una sorte di frutti chiamati berci, che sono domestici e grandi come limoni, e molto buoni da mangiare. Altre cose non vi sono da conto, se non che ‘l luogo è molto salvatico e montuoso, e pochi uomini vi vanno, perché il re non consente ch’alcuno li vada, accioché non conosca il tesoro e i secreti suoi.

Capitolo 9

Dell’isola di Pentan e regno di Malaiur.

Partendosi di Lochac, si naviga cinquecento miglia per mezodì, e si truova un’isola chiamata Pentan, la quale è in un luogo molto salvatico. E tutti i boschi di quell’isola producon arbori odoriferi. E fra la provincia di Lochac e l’isola di Pentan, per miglia sessanta, in molti luoghi non si truova acqua, se non per quattro passa alta, e per questo bisogna che li naviganti levino più alto il timone, perché non hanno acqua se non da circa quattro passa. E quando s’ha navigato questi sessanta miglia verso scirocco, si va più oltre circa trenta miglia e si truova un’isola ch’è regno, e chiamasi la città Malaiur, e così l’isola Malaiur, le cui genti hanno re e linguaggio per sé. La città certamente è nobilissima e grandissima, e si fanno in quella molte mercanzie d’ogni specie, perché quivi ne sono in abondanza. Né vi sono altre cose notabili, onde, procedendo più oltre, trattaremo della Giava minore.

Capitolo 10

Dell’isola di Giava minore.

Quando si parte dall’isola Pentan e che s’è navigato circa a cento miglia per scirocco, si truova l’isola di Giava minore: ma non è però così picciola che non giri circa duemila miglia a torno a torno. E in quest’isola son otto reami e otto re, le genti della quale adorano gl’idoli, e in ciascun regno v’è linguaggio da sua posta, diverso dalla favella degli altri regni. V’è abondanza di tesoro e di tutte le specie e di legno d’aloe, verzino, ebano, e di molte altre sorti di specie, che alla patria nostra, per la longhezza del viaggio e pericoli del navigare, non si portano, ma si portan alla provincia di Mangi e del Cataio.

Or vogliamo dire della maniera di queste genti, di ciascuna partitamente per sé. Ma primamente è da sapere che quest’isola è posta tanto verso le parti di mezogiorno che quivi la stella tramontana non si può vedere. E messer Marco fu in sei reami di quest’isola, de’ quali qui se ne parlerà, lasciando gli altri due che non vidde.

Capitolo 11

Del regno di Felech, ch’è sopra la Giava minore.

Cominciamo adunque a narrare del regno di Felech, il qual è uno delli detti otto. In questo regno tutte le genti adorano gl’idoli, ma per li mercanti saraceni, che del continuo ivi conversano, si sono convertiti alla legge di Macometto, cioè quelli che abitano nelle città; e quelli che abitano ne’ monti sono come bestie, però che mangiano carne umana, e generalmente ogni sorte di carni monde e immonde; e adorano diverse cose, perché quand’alcuno si leva su la mattina adora la prima cosa ch’ei vede per tutto quel dì.

Capitolo 12

Del secondo regno di Basma.

Partendosi da questo regno, s’entra nel regno di Basma, il qual è da per sé e ha linguaggio da sua posta, le cui genti non hanno legge, ma vivono come le bestie. Si chiamano per il gran Can, nondimeno non li danno tributo, perché sono lontani, di sorte che le genti del gran Can non posson andar a quelle parti: ma tutti dell’isola si chiamano per lui, e alle volte, per quelli che passano di là, li mandano qualche bella cosa e strana per presenti, e specialmente di certa sorte d’astori.

Hanno molti elefanti salvatichi e leoncorni, che sono molto minori degli elefanti, simili a’ buffali nel pelo, e li loro piedi sono simili a quelli degli elefanti; hanno un corno in mezzo del fronte, e nondimeno non offendono alcuno con quello, ma solamente con la lingua e con le ginocchia, perché hanno sopra la lingua alcune spine longhe e aguzze, e quando vogliono offendere alcuno lo calpestano con le ginocchia e lo deprimono, poi lo feriscono con la lingua. Hanno il capo come d’un cinghiale, e portano il capo basso verso la terra. E sta volentieri nel fango, e sono bruttissime bestie, e non sono tali quali si dicono esser nelle parti nostre, che si lasciano prendere dalle donzelle, ma è tutt’il contrario. Hanno molte simie e di diverse maniere, e hanno astori tutti neri come corbi, i quali sono molto grandi e prendono gli uccelli benissimo.

Sappiate esser una gran bugia quello che si dice, che gli uomini picciolini morti e secchi siano portati dall’India, perché tali uomini in quest’isola sono fatti a mano, e direnvi in che modo. In quest’isola è una sorte di simie, che sono molto picciole e hanno il volto simile al volto umano. I cacciatori le prendono e pelano, lasciandogli solamente i peli nelle barbe e altri luoghi, a similitudine dell’uomo; dopo le mettono in alcune cassette di legno, e le fanno seccare e acconciare con canfora e altre cose, talmente che pareno propriamente che siano stati uomini. Le vendono a’ mercanti che le portano per lo mondo, e questo è un grande inganno, però che sono fatti al modo che avete inteso, perché né in India né in alcune altre parti salvatiche mai furono veduti uomini così picciolini come paiono quelli.

Ora non diciamo più di questo regno, perché non vi sono altre cose da dire; e però diremo del regno nominato Samara.

Capitolo 13

Del terzo regno di Samara.

Partendosi da Basma, si truova il regno di Samara, il qual è nell’isola sopradetta, dove messer Marco previous hit Polo next hit stette cinque mesi, per il tempo contrario che lo costrinse a starvi a suo mal grado. La Tramontana quivi ancora non si vede, né si veggono anco le stelle che sono nel Carro. Quelle genti adorano gl’idoli; hanno re grande e potente, e chiamansi per il gran Can. E così stando detto messer Marco tanto tempo in queste isole, discese in terra con circa duemila uomini in sua compagnia, e per paura di quelle genti bestiali, che volentieri prendono gli uomini e gli ammazzano e li mangiano, fece cavar fosse grandi verso la isola intorno di sé, i capi delle quali finivano sopra il porto del mare dall’una parte e l’altra, e sopra le fosse fece far alcuni edificii overo baltresche di legname; e così stette sicuramente cinque mesi in quelle fortezze con la sua gente, perché v’è moltitudine di legname, e quei dell’isola contrattavano con loro di vettovaglie e altre cose, perché si fidavano.

Quivi sono i migliori pesci che si possano mangiare al mondo; e non hanno frumento, ma vivono di risi; non hanno vino, ma hanno una sorte d’arbori che s’assomiglian alle palme e dattaleri che, tagliandogli un ramo e mettendoli sotto un vaso, getta un liquore che l’empie in un giorno e una notte, ed è ottimo vino da bere, ed è di tanta virtù che libera gli idropici e tisici e quelli che patiscono il male di spienza. E quando quei tronchi non mandano più liquore fuori adacquano gli arbori, secondo che veggono esser necessario, con condotti che si traggono da’ fiumi, e quando sono adacquati mandano fuori il liquore come prima. E sonvi alcuni arbori che di natura mandano fuori il liquor rosso, e alcuni bianco. Truovasi anco noci d’India, grosse com’è il capo dell’uomo, le quali sono buone da mangiare, dolci e saporite e bianche come latte, e il mezo della carnosità di detta noce è pieno d’un liquore come acqua chiara e fresca, e di miglior sapore e più delicato che ‘l vino overo d’alcun’altra bevanda che mai si bevesse. Mangiano finalmente ogni sorte di carni, buone e cattive, senza farli differenza alcuna.

Capitolo 14

Del quarto regno di Dragoian.

Dragoian è un regno che ha re e favella da sua posta; quelle genti sono salvatiche e adorano gl’idoli, e si chiamano per il gran Can. E direnvi un’orrenda loro consuetudine, ch’osservano quand’alcun di loro casca in qualche infermità. Li parenti suoi mandano per li maghi e incantatori, e fanno che costoro vedino ed esaminino diligentemente se questi infermi hanno da guarire o no; e questi maghi, secondo la risposta che fanno li diavoli, gli rispondono s’ei dee guarire. E se dicono di no, i parenti dell’infermo mandano per alcuni uomini (a questo specialmente deputati), che sanno con destrezza chiudere la bocca dell’infermo, e soffocato che l’hanno lo fanno in pezzi e lo cuocono, e così cotto i suoi parenti lo mangiano insieme allegramente, e tutto integramente fino alle midolle che sono nell’ossa, di modo che di lui non resta sostanza alcuna, percioché se vi rimanesse dicono che crearebbe vermini, e mancando ad essi il cibo morrebbono: e per la morte di questi tal vermini dicono che l’anima del morto patirebbe gran pena. E poi, tolte l’ossa, le ripongono in una bella cassetta picciola, e portanla in qualche caverna ne’ monti e la sepeliscono, accioché non siano tocche da bestia alcuna. E ancora, se possono prendere qualche uomo che non sia del suo paese, non potendosi riscattare, l’uccidono e lo mangiano.

Capitolo 15

Del quinto regno di Lambri.

Lambri è un regno che ha re e favella da sua posta, le sue genti adorano gl’idoli, e chiamansi del gran Can. Hanno verzino in gran quantità, e canfora e molte altre specie. Seminano una pianta ch’è simile al verzino, e quand’ell’è nata e cresciuta in piccioli ramuscelli li cavano e li piantano in altri luoghi, dove li lasciano per tre anni; dopo li cavano con tutte le radici e adoperano a tingere. E messer Marco portò di dette semenze a Venezia e seminolle, ma non nacque nulla, e questo perché richiedono luogo calidissimo. Sono in questo regno uomini che hanno le code più longhe d’un palmo, a modo di cane, ma non sono pilose: e per la maggior parte sono fatti a quel modo. Questi tali uomini abitano fuori delle città ne’ monti. Hanno leoncorni in gran copia e molte cacciagioni di bestie e d’uccelli.

Capitolo 16

Del sesto regno di Fanfur, dove cavano farina d’arbori.

Fanfur è regno e ha re da per sé, le cui genti adorano gl’idoli, e chiamansi per il gran Can, e sono dell’isola sopradetta. Quivi nasce la miglior canfora che trovar si possa, la qual si chiama canfora di Fanfur, ed è miglior dell’altra, e dassi per tant’oro a peso. Non hanno frumento né altro grano, ma mangiano riso e latte, e vino hanno degli arbori, come di sopra s’è detto nel capitolo di Samara.

Oltre di ciò v’è un’altra cosa maravigliosa, cioè che in questa provincia cavano farina d’arbori, perché hanno una sorte d’arbori grossi e longhi, alli quali levatali la prima scorza, ch’è sottile, si truova poi il suo legno grosso intorn’intorno per tre dita, e tutta la midolla di dentro è farina come quella del carvolo: e sono quegli arbori grossi come potrian abbracciar due omini. E mettesi questa farina in mastelli pieni d’acqua, e menasi con un bastone dentro all’acqua: allora la semola e l’altre immondizie vengono di sopra, e la pura farina va al fondo. Fatto questo si getta via l’acqua, e la farina purgata e mondata che rimane s’adopra, e si fanno di quella lasagne e diverse vivande di pasta, delle qual ne ha mangiato più volte il detto messer Marco, e ne portò seco alcune a Venezia, qual è come il pane d’orzo e di quel sapore. Il legno di quest’arbore l’assomigliano al ferro, perché gettato in acqua si sommerge immediate, e si può sfendere per dritta linea da un capo all’altro come la canna, perché, quando s’ha cavata la farina, il legno, come s’è detto, riman grosso per tre dita: del quale quelle genti fanno lancie picciole e non longhe, perché se fossero longhe niuno le potria portare, non ch’adoperarle, per il troppo gran peso; e le aguzzano da un capo, qual poi abbruciano, e così preparate sono atte a passare ciascun’armatura, e molto meglio che se fossero di ferro. Or abbiamo detto di questo regno, qual è delle parti di quest’isola. Degli altri regni che sono nell’altre parti non diremo, perché il detto messer Marco non vi fu, e però, procedendo più oltre, diremo d’una picciola isola nominata Nocueran.

Capitolo 17

Dell’isola di Nocueran.

Partendosi dalla Giava e dal regno di Lambri, poi che s’ha navigato da circa centocinquanta miglia verso tramontana, si truovano due isole, una delle quali si chiama Nocueran e l’altra Angaman. E in questa di Nocueran non è re, e quelle genti sono come bestie, e tutti, così maschi come femine, vanno nudi e non cuoprono parte alcuna della loro persona; e adorano gl’idoli. Tutti i loro boschi sono di nobilissimi arbori e di grandissima valuta, e si truovano sandali bianchi e rossi, noci di quelle d’India, garofani, verzino e altre diverse sorti di speciarie.

Né v’essendo altre cose da dire, più oltre procedendo, diremo dell’isola d’Angaman.

Capitolo 18

Dell’isola di Angaman.

Angaman è un’isola grandissima, che non ha re, le cui genti adoran gl’idoli, e sono come bestie salvatiche, conciosiacosaché mi fosse detto ch’hanno il capo simile a quello de’ cani, e gli occhi e denti. Sono genti crudeli, e tutti quegli uomini che possono prendere gli ammazzano e mangiano, pur che non siano della sua gente. Hanno abondanza di tutte le sorti di specie. Le sue vettovaglie sono risi e latte e carne d’ogni maniera, e hanno noci d’India, pomi paradisi, e molti altri frutti diversi da’ nostri.

Capitolo 19

Dell’isola di Zeilan.

Partendosi dall’isola d’Angaman, poi che s’è navigato da mille miglia per ponente, e alquanto meno verso garbin, si truova l’isola di Zeilan, la qual al presente è la miglior isola che si truovi al mondo della sua qualità, perché gira di circuito da duemila e quattrocento miglia. E anticamente era maggiore, perché girava a torno a torno ben tremila e seicento miglia, secondo che si truova ne’ mapamondi de’ marinari di quei mari; ma il vento di tramontana vi soffia con tanto empito che ha corroso parte di quei monti, quali sono cascati e sommersi in mare, e così è perso molto del suo territorio: e questa è la causa perché non è così grande al presente come fu già per il passato. Quest’isola ha un re, che si chiama Sendernaz; le genti adorano gl’idoli, e non danno tributo ad alcuno. Gli uomini e le donne sempre vanno nudi, eccetto che cuoprono la loro natura con un drappo. Non hanno biade, se non risi e susimani, de’ quali fanno olio. Vivono di latte, risi e carne, e vino degli arbori sopradetti, e hanno abondanza del miglior verzino che si possa trovar al mondo.

In questa isola nascono buoni e bellissimi rubini, che non nascono in alcun altro luogo del mondo, e similmente zafiri, topazii, ametisti, granate, e molt’altre pietre preciose e buone. E il re di quest’isola vien detto aver il più bel rubino che giamai sia stato veduto al mondo, longo un palmo e grosso com’è il braccio d’un uomo, splendente oltre modo, e non ha pur una macchia, che pare che sia un fuoco che arda; ed è di tanta valuta che non si potria comprare con denari. Cublai gran Can mandò ambasciatori a questo re, pregandolo che, s’ei volesse concederli quel rubino, li daria la valuta d’una città; egli rispose che non glielo daria per tesoro del mondo, né lo lasciarebbe andar fuori delle sue mani, per essere stato de’ suoi predecessori: e per questa causa il gran Can non lo poté avere. Gli uomini di quest’isola non sono atti all’arme, per essere vili e codardi, e se hanno bisogno d’uomini combattitori truovano gente d’altri luoghi vicini a’ saraceni.

E non essendovi altre cose memorabili, procedendo più oltre narreremo di Malabar.

Capitolo 20

Della provincia di Malabar.

Partendosi dall’isola di Zeilan, e navigando verso ponente miglia sessanta, si truova la gran provincia di Malabar, la qual non è isola ma terra ferma, e si chiama India maggiore, per essere la più nobile e la più ricca provincia che sia al mondo. Sono in quella quattro re, ma il principale, ch’è capo della provincia, si chiama Senderbandì. Nel suo regno si pescano le perle, cioè che fra Malabar e l’isola di Zeilan v’è un colfo overo seno di mare, dove l’acqua non è più alta di dieci in dodici passa, e in alcuni luoghi due passa, e pescansi in questo modo: che molti mercanti fanno diverse compagnie, e hanno molte navi e barche grandi e picciole, con ancore per poter sorgere, e menano seco uomini salariati, che sanno andare nel fondo a pigliar le ostriche, nelle quali sono attaccate le perle, e le portano di sopra in un sacchetto di rete legato al corpo, e poi ritornano di nuovo, e quando non possono sostenere più il fiato vengono suso, e stati un poco se ne descendono, e così fanno tutt’il giorno. E pigliansi in grandissima quantità, delle quali si fornisce quasi tutt’il mondo, per essere la maggior parte di quelle che si pigliano in questo colfo tonde e lustri. Il luogo dove si truovano in maggior quantità dette ostreche si chiama Betala, ch’è sopra la terra ferma, e di lì vanno al dritto per sessanta miglia per mezogiorno. Ed essendovi in questo colfo pesci grandi ch’uccideriano i pescatori, però i mercanti conducon alcuni incantatori d’una sorte di Bramini, quali per arte diabolica sanno constringere e stupefare i pesci, che non li fanno male; e perché pescano il giorno, però la sera disfanno l’incanto, temendo ch’alcuno nascosamente, senza licenza de’ mercanti, non discenda la notte a pigliar l’ostreche: e i ladri, che temono detti pesci, non osano andarvi di notte. Questi incantatori sono gran maestri di saper incantare tutti gli animali, e anco gli uccelli. Questa pescagione comincia per tutto il mese d’aprile fino a mezo maggio, la qual comprano dal re, e li danno solamente la decima (e ne cava grandissima utilità), e alli incantatori la vigesima. Finito detto tempo più dette ostriche non si truovano, ma fanno passaggio ad un altro luogo, distante da questo colfo trecento e più miglia, dove si truovano per il mese di settembre fino a mezo ottobrio. Di queste perle, oltre la decima che danno i mercanti, il re vuol tutte quelle che sono grosse e tonde, e le paga cortesemente, sì che tutti gliele portano volentieri.

Il popolo di questa provincia in ogni tempo va nudo, eccetto che (com’è detto) si cuoprono le parti vergognose con un drappo, e il re similmente va come gli altri: vero è ch’ei porta alcune cose per onorificenzia regale, cioè atorno il collo una collana piena di pietre preciose, zafiri, smeraldi e rubini, che vagliono un gran tesoro; li pende al collo ancor un cordone di seta sottile che discende fin al petto, nel quale sono cento e quattro perle grosse e belle e rubini, che sono di gran valuta. E la causa è questa, perché gli conviene ogni giorno dir cento e quattro orazioni all’onor de’ suoi idoli, perché così comanda la lor legge e così osservarono i re suoi predecessori. L’orazione che dicono ogni giorno sono queste parole: “Pacauca, Pacauca, Pacauca”, e le dicono cento e quattro volte. Item porta alle braccia in tre luoghi braccialetti d’oro ornati di perle e gioie, e alle gambe in tre luoghi cintole d’oro, tutte coperte di perle e gioie, e sopra le dita de’ piedi e delle mani, ch’è cosa maravigliosa da vedere, non che stimare si potesse la valuta: ma a questo re è facile, nascendo tutte le gioie e perle nel suo regno. Questo re ha ben mille concubine e mogli, perché, subito ch’ei vede una bella donna, la vuol per sé: e per questo tolse la moglie ch’era di suo fratello, qual, per esser uomo prudente e savio, sostenne la cosa in pace e non fece altro scandalo, ancor che molte volte fosse in procinto di farli guerra; ma la lor madre li mostrava le mammelle, dicendogli: “Se farete scandalo tra voi, io mi taglierò le mammelle che v’hanno nutriti”, e così rimaneva la quistione. Ha ancora questo re molti cavalieri e gentiluomini, che si chiamano fedeli del re in questo mondo e nell’altro. Questi servono al re nella corte, e cavalcano con lui standoli sempre appresso, e come va il re questi l’accompagnano, e hanno gran dominio in tutt’il regno. Quand’ei muore, s’abbrucia il suo corpo: allora tutti questi suoi fedeli si gettano volontariamente lor medesimi nel fuoco e s’abbruciano, per causa d’accompagnarlo nell’altro mondo.

In questo regno è ancora tal consuetudine, che quando muore il re i suoi figliuoli che succedono non toccano il tesoro di quello, perché dicono che saria sua vergogna che, succedendo in tutt’il regno, lui fosse così vile e da poco ch’ei non se ne sapesse acquistare un altro simile: e però è opinione che si conservi infiniti tesori nel palagio del re, per memoria degli altri re passati. In questo reame non nascono cavalli, e per questa causa il re di Malabar e gli altri quattro re suoi fratelli consumano e spendono ogn’anno molti denari in quelli, perché ne comprano dalli mercanti d’Ormus, Diufar, Pecher e Adem, e d’altre provincie, che glieli conducono: e si fanno ricchi, perché gliene vendono da cinquemila per cinquecento saggi d’oro l’uno, che vagliono cento marche d’argento; e in capo dell’anno non ne rimangono vivi trecento, perché non hanno chi li sappino governare, né mariscalchi che li sappino medicare, e bisogna che ogn’anno li rinovino. Ma io penso che l’aere di questa provincia non sia conforme alla natura de’ cavalli, perché quivi non nascono, e però non si possono conservare. Li danno da mangiare carne cotta con risi, e molti altri cibi cotti, perché non vi nasce altra sorte di biade che risi. Se una cavalla grande sarà pregna di qualche bel cavallo, non però partorisce se non un poledro picciolo, mal fatto e con li piedi storti, e che non è buono per cavalcare.

S’osserva in detto regno quest’altra consuetudine, che quand’alcun ha commesso qualche delitto, per il quale si giudichi ch’ei meriti la morte, e il signore lo voglia far morire, allora il condannato dice ch’egli si vuole uccidere ad onore e riverenza di tal idolo, e immediate tutti i suoi parenti e amici lo pongono sopra una catedra, con dodici coltelli ben ammolati e taglienti, e lo portano per la città esclamando: “Questo valent’uomo si va ad ammazzar se medesimo per amor del tal idolo”. E giunti al luogo dove si dee far giustizia, quel che dee morire piglia due coltelli e grida in alta voce: “Io m’uccido per amor di tal idolo”, e subito in un colpo si darà due ferite nelle cosse, e dopo due nelle braccia, due nel ventre e due nel petto, e così ficca tutti i coltelli nella sua persona, gridando ad ogni colpo: “Io mi uccido per amor di tal idolo”. E poi che s’ha fitti tutti i coltelli nella vita, l’ultimo si ficca nel cuore, e subito muore. Allora i suoi parenti con grand’allegrezza abbruciano quel corpo, e la moglie immediate si getta nel fuoco, lasciandosi abbruciare per amor del marito: e le donne che fanno questo sono molto laudate dall’altre genti, e quelle che non lo fanno sono vituperate e biasimate.

Questi del regno adorano gl’idoli, e per la maggior parte adorano buoi, perché dicono ch’il bue è cosa santa, e niun mangierebbe delle carni del bue per alcuna causa del mondo. Ma v’è una sorte d’uomini, che si chiamano gavi, i quali, benché mangino carne di bue, non però ardiscono d’ucciderli, ma quando alcun bue muore di propria morte, overo altrimenti, essi gavi ne mangiano, e tutti imbrattano le loro case di sterco di buoi. Hanno queste genti per costume di sedere in terra sopra tapeti, e se sono domandati perché ciò fanno, dicono che ‘l sedere sopra la terra è cosa molto onorata, perché essendo noi di terra ritorneremo in terra, e niuno potrebbe mai tanto onorare la terra che fosse bastevole, e però non si dee dispregiarla. E questi gavi e tutti della loro progenie sono di quelli i predecessori de’ quali ammazarono san Tommaso apostolo, e niuno de’ detti potria entrare nel luogo dov’è il corpo del beato apostolo, ancor che vi fosse portato per dieci uomini, perché detto luogo non riceve alcuno di loro, per la virtù di quel corpo santo.

In questo regno non nasce alcuna biada, se non risi e susimani. Queste genti vanno alla battaglia con lancie e scudi, e sono nude, e sono genti vili e da poco, senz’alcuna prattica di guerra. Non ammazzano bestie alcune overo animali, ma quando vogliono mangiar carne di montoni o altre bestie overo uccelli, le fanno uccidere da saraceni e da altre genti che non osservano i costumi e leggi loro. Si lavano, così uomini come donne, due volte il giorno in acqua tutto il corpo, cioè la mattina e la sera, altrimenti non mangiariano né beveriano, se prima non fossero lavati: e quello che non si lavasse due volte il giorno saria tenuto come eretico. Ed è da sapere che nel suo mangiare adoperano solamente la mano destra, né toccariano cibo alcuno con la mano sinistra, e tutte le cose monde e belle operano e toccano con la mano destra, perché l’officio della mano sinistra è solamente circa le cose necessarie brutte e immonde, come saria far nette le parti vergognose e altre cose simili a queste. Item bevono solamente con boccali, e ciascuno col suo, né alcuno beveria col boccale d’un altro, e quando bevono non si mettono il boccale alla bocca, ma lo tengono elevato in alto e gettansi il vino in bocca, né toccariano il boccale con la bocca per modo alcuno, né dariano bere con quei boccali ad alcun forestiere; ma, se il forestiero non averà vaso proprio da bere, essi gli gettano del vino intra le mani ed egli berà con quelle, adoperando le mani in luogo d’una tazza.

In questo regno si fa grandissima e diligente giustizia di ciascun maleficio; e de’ debiti s’osserva tal ordine appresso di loro: s’alcun debitore sarà più volte richiesto dal suo creditore, ed ei vada con promissioni differendo di giorno in giorno, e il creditore lo possa toccare una volta, talmente ch’ei li possa designare un circolo a torno, il debitore non uscirà fuor di quel circolo fin che non avrà sodisfatto al creditore, overo gli darà una cauzione che sarà sodisfatto; altramente, uscendo fuori del circolo, come transgressore della ragione e giustizia sarà punito col supplicio della morte. E vidde il sopradetto messer Marco nel suo ritorno a casa, essendo nel detto regno, che, dovendo dare il re ad un mercante forestiero certa somma di denari, ed essendo più volte stato richiesto, lo menava con parole alla longa; un giorno, cavalcando per la terra il re, il mercante, trovata l’opportunità, li fece un circolo a torno, circuendo anco il cavallo: il che vedendo, il re non volse col cavallo andar più oltre, né di lì si mosse fin che ‘l mercante non fu sodisfatto. La qual cosa veduta dalle genti circonstanti, molto si maravigliarono, dicendo che giustissimo era il re, avendo ubbidito alla giustizia.

Detti popoli si guardano grandemente da bere vino fatto d’uva, e quello che ne bee non si riceve per testimonio, né quello che naviga per mare, perché dicono che chi naviga per mare è disperato, e però non lo ricevono in testimonio. Non reputano che la lussuria sia peccato. E vi è così gran caldo che gli è una cosa mirabile, e però vanno nudi; e non hanno pioggia se non solamente del mese di giugno, luglio e agosto, e se non fosse quest’acqua, che piove questi tre mesi, che dà refrigerio all’aria, non si potria vivere.

Ivi sono ancora molti savii in una scienzia che si chiama fisionomia, la quale insegna a conoscere la proprietà e qualità degli uomini che sono buoni o cattivi: e questo conoscono subito che veggono l’uomo e la donna. Conoscono anco quel che significa incontrandosi in uccelli o bestie, e danno mente al volare degli uccelli più di tutti gli uomini del mondo, e preveggono il bene e male. Item per ciascun giorno della settimana hanno un’ora infelice, qual chiamano choiach, come il giorno del lunedì l’ora di meza terza, il giorno del martedì l’ora di terza, il giorno di mercordì l’ora di nona, e così di tutti i giorni per tutto l’anno, li quali hanno descritti e determinati ne’ loro libri; e conoscono l’ore del giorno al conto de’ piedi che fa l’ombra dell’uomo quando sta ritto, e si guardano in tal ore di far mercati o altre facende di mercanzie, perché dicono che li riescono male. Item, quando nasce alcun fanciullo o fanciulla in questo regno, subito il padre o la madre fanno metter in scritto il giorno della sua natività e della luna il mese e l’ora: e questo fanno perché esercitano tutti i loro fatti per astrologia. E tutti quelli ch’hanno figliuoli mascoli, subito che sono in età d’anni tredici, li licenziano di casa, privandoli del vivere di casa, perché dicono che oramai sono in età di potersi acquistar il vivere, e far mercanzie e guadagnare: e a ciascuno danno venti o ventiquattro grossi, overo moneta di tanta valuta. Questi fanciulli non cessano tutto il giorno correre or qua or là, comprando una cosa e dopo vendendola; e al tempo che si pescano le perle corrono alli porti, e comprano dalli pescatori e da altri cinque o sei perle, secondo che possono, e le portano a’ mercanti che stanno nelle case per paura del sole, dicendoli: “A me costano tanto, datemi quello che vi piace di guadagno”, ed essi li danno qualche cosa di guadagno, oltre il prezzo che sono costate loro. E così s’esercitano in molte altre cose, facendosi ottimi e sottilissimi mercanti, e dopo portano a casa delle loro madri le cose necessarie, ed esse le cucinano e apparecchiano, ma non mangiano cosa alcuna a spese de’ padri loro.

Item in questo regno e per tutta l’India tutte le bestie e uccelli sono diversi da’ nostri, eccetto le quaglie, le quali s’assomigliano alle nostre; ma tutte l’altre cose sono diverse da quelle che abbiamo noi. Hanno pipistrelli grandi come sono astori, e gli astori negri come corbi, e molto maggiori de’ nostri, e volano velocemente e prendono uccelli.

Hanno ancora molti idoli ne’ loro monasterii, di forma di maschio e di femina, a’ quali i padri e le madri offeriscono le figliuole; e quando l’hanno offerte, ogni volta che li monachi di quel monasterio ricercano ch’elle venghino a dar solazzo agl’idoli, subito vanno, e cantano e suonano facendo gran festa: e dette donzelle sono in gran quantità e con gran compagnie, e portano molte volte la settimana a mangiare agl’idoli a’ quali sono offerte, e dicono che gl’idoli mangiano, e gli apparecchiano la tavola avanti di loro, con tutte le vettovaglie ch’hanno portato, e la lasciano apparecchiata per il spazio d’una buona ora, sonando e cantando continuamente e facendo gran sollazzo, qual dura tanto quanto un gentiluomo potria desinare a suo commodo. Dicono allora le donzelle che gli spiriti degl’idoli hanno mangiato ogni cosa, e loro poi si pongono a mangiare atorno gl’idoli, e dopo ritornan alle loro case. E la causa perché le fanno venire a fare queste feste è perché dicono i monachi che ‘l dio è turbato e adirato con la dea, né si congiungono l’uno con l’altro né si parlano, e che, se non faranno pace, tutte le facende loro andranno di male in peggio e non vi daranno la benedizione e grazia loro: e però fanno venir le dette donzelle al modo sopradetto, tutte nude, eccetto che si cuoprono la natura, e che cantino avanti il dio e la dea. E hanno opinione quelle genti che ‘l dio molte volte si solazza con quella, e che si congiungano insieme.

Gli uomini hanno le loro lettiere di canne leggierissime, e con tale artificio che, quando vi sono dentro e vogliono dormire, si tirano con corde appresso al solaro e quivi si fermano. Questo fanno per schifare le tarantole, le quali mordono grandemente, e per schifare i pulici e altri verminezzi, e per pigliar il vento, per mitigar il gran caldo che regna in quelle bande. La qual cosa non fanno tutti, ma solamente i nobili e grandi, però che gli altri dormono sopra le strade.

Nella provincia detta di Malabar v’è il corpo del glorioso messer san Tommaso apostolo, ch’ivi sostenne il martirio: ed è in una picciola città, alla qual vanno pochi mercanti, per non essere luogo a loro proposito; ma vi vanno infiniti cristiani e saraceni per devozione, perché dicono ch’egli fu gran profeta, e lo chiamano anania, cioè uomo santo. E li cristiani che vanno a questa divozione togliono della terra di quel luogo dov’egli fu ucciso, la qual è rossa, e portansela seco con riverenzia, e spesso fanno miracoli, perché, distemperata in acqua, la danno a bere agli ammalati e guariscono di diverse infermità. E nell’anno del Signore 1288 un gran principe di quella terra, nel tempo che si raccogliono le biade, avea raccolto grandissima quantità di risi, e non avendo case a bastanza dove potesse reponerli, li parve di metterli nelle case della chiesa di S. Tomaso, contra la volontà delle guardie di quelle, quali pregavano che non dovesse occupare le case dove alloggiavano li peregrini che venivano a visitar il corpo di quel glorioso santo; ma lui, ostinato, glieli fece mettere. Or la notte seguente questo santo apostolo apparve in visione al principe, tenendo una lancetta in mano, e ponendogliela sopra la gola gli disse: “Se non svoderai le case che m’hai occupato, io ti farò malamente morire”. Il principe, svegliatosi tutto tremante, immediate fece far quanto gli era stato comandato, e disse publicamente a tutti come egli aveva veduto in visione detto apostolo. E molti altri miracoli tutt’il giorno si veggono, per intercessione di questo beato apostolo. I cristiani che custodiscono detta chiesa hanno molti arbori che fanno le noci d’India, com’abbiamo scritto di sopra, quali li danno il vivere, e pagan ad un di questi re fratelli un grosso ogni mese per arbore. Dicono che quel santissimo apostolo fu morto in questo modo, ch’essendo lui in un romitorio in orazione, v’erano intorno molti pavoni, de’ quali quelle contrade sono tutte ripiene: un idolatro della generazione de’ gavi detti di sopra, passando di quivi né vedendo detto santo, tirò con una saetta ad un pavone, la qual andò a ferire nel costato di quel santissimo apostolo, qual, sentendosi ferito, referendo grazie al nostro Signor Iddio rese l’anima a quello.

In detta provincia di Malabar gli abitanti sono negri, ma non nascono così com’essi si fanno con artificio, perché reputano la negrezza per gran beltà, e però ogni giorno ungono li fanciullini tre volte con olio di susimani. Gli idolatri di questa provincia fanno le imagini de’ loro idoli tutte nere, e dipingon il diavolo bianco, dicendo che tutti li demoni sono bianchi. E quelli ch’adorano il bue, come vanno a combattere, portano seco del pelo del bue salvatico, e li cavallieri legano del detto pelo alle crene del cavallo, tenendolo che sia di tanta santità e virtù che ciascuno che n’ha sopra di sé sia sicuro da ogni pericolo: e per questa causa i peli de’ buoi salvatichi vagliono assai denari in quelle parti.

Capitolo 21

Del regno di Murphili, overo Monsul.

Il regno di Murphili si truova quando si parte da Malabar e si va per tramontana cinquecento miglia. Adorano gl’idoli e non danno tributo ad alcuno; vivono di risi, carne, latte, pesce e frutti. Ne’ monti di questo regno si truovano i diamanti, perché quando piove l’acqua descende da quelli con grand’impeto e ruina per le rupi e caverne, e poi ch’è scorsa l’acqua gli uomini li vanno cercando per li fiumi, e ne truovano molti. E fu detto al prefato messer Marco che la state, ch’è grandissimo caldo e non piove, montano sopra detti monti con gran fatica, e per la moltitudine de’ serpi che si trovano in quelli, e nelle sommità vi sono alcune valli circondate da grotte e caverne dove si truovano detti diamanti, e vi pratticano di continuo molte aquile e cicogne bianche, che si cibano de’ detti serpi. Quelli adunque che vogliono averne gettano, stando sopra le grotte, molti pezzi di carne in dette valli, e l’aquile e cicogne, vedendo le carni, le vanno a pigliare e portano a mangiare sopra le grotte overo sommità de’ monti, dove immediate corrono gli uomini e le discacciano, togliendoli le carni: e spesse fiate truovano attaccati in quelle i diamanti. E se l’aquile mangiano le carni, vanno al luogo dove dormono la notte, e truovano alle fiate de’ diamanti nel sterco e immondizie di quelle. In questo regno si fanno i migliori e più sottili boccascini che si truovino in tutta l’India.

Capitolo 22

Della provincia di Lac overo Loac e Lar.

Partendosi dal luogo dove è il corpo del glorioso apostolo s. Tommaso, e andando verso ponente, si truova la provincia di Lac. Di qui hanno origine li Bramini, che sono sparsi poi per tutta l’India: questi sono li migliori e più veridici mercanti che si truovino, né direbbono mai una bugia per qualunque cosa che dir si potesse, ancor se v’andasse la vita. Si guardano grandemente di robbare e tor la robba d’altrui; son ancora molto casti, perché si contentano d’una moglie sola. E se alcuno mercante forestiero e che non conosca li costumi della contrada si raccomandi a loro e li dia in salvo le sue mercanzie, questi Bramini le custodiscono, vendono e barattanle lealmente, procurando l’utilità del forestiero con ogni cura e sollicitudine, non li dimandando alcuna cosa per premio, se per sua gentilezza il mercante non gliene dona. Mangiano carne e bevono vino; non uccideriano alcun animale, ma lo fanno uccidere da’ saraceni. Si conoscono i Bramini per certo segnale che portano, che è un fil grosso di bambagio sopra la spalla, e leganlo sotto il braccio, di modo che quel filo appare avanti il petto e dopo le spalle. Hanno un re qual è molto ricco e potente, e che si diletta di perle e pietre preciose; e quando i mercanti di Malabar gliene possono portare qualcuna che sia bella, credendo alla parola del mercante, li dà due volte tanto quanto la gli costa: però li vengono portate infinite gioie. Sono grandi idolatri, e si dilettano d’indovinare, e massime negli augurii, e se vogliono comprare alcuna cosa, riguardano subito nel sole la sua propria ombra, e facendo le regole della sua disciplina procedono nella sua mercanzia. Sono molto astinenti nel mangiare e vivono lungamente; i suoi denti sono molto buoni, per certa erba che usano a masticare, la qual fa ben digerire ed è molto sana a’ corpi umani.

Sono fra costoro in detta regione alcuni idolatri, quali sono religiosi e si chiamano tingui, e a reverenzia de’ loro idoli fanno una vita asprissima. Vanno nudi e non si cuoprono parte alcuna del corpo, dicendo che non si vergognano d’andare nudi, perché nacquero ancor nudi, e circa le parti vergognose dicono che, non facendo alcuno peccato con quelle, non si vergognano di mostrarle. Adorano il bue, e ne portan un picciolo di lattone o d’altro metallo indorato legato in mezo la fronte. Abbruciano ancor l’ossa de’ buoi e ne fanno polvere, con la quale fanno un’unzione che si ungono il corpo in più luoghi con gran riverenzia; e se incontrano alcuno che li facci buona cera, li mettono in mezo la fronte un poco di detta polvere. Non uccideriano animale alcuno, né mosche né pulici né pidocchi, perché dicono che hanno anima, né mangiariano d’animal alcuno, perché li pareria di commetter gran peccato. Non mangiano alcuna cosa verde, né erbe né radici, fino che non sono secche, perché tutte le cose verdi dicono che hanno anima. Non usano scodelle né taglieri, ma mettono le sue vivande sopra le foglie secche di pomi d’Adamo, che si chiamano pomi di paradiso. Quando vogliono alleggerire il ventre vanno al lido del mare, dove in la rena depongono il peso naturale, e subito lo dispergono in qua e là, acciò che ‘l non faccia vermini, che poi morirebbono di fame, e loro farebbono grandissimo peccato per la morte di tante anime. Vivono lungamente sani e gagliardi, perché alcuni di loro arrivano fino a cento e cinquanta anni, ancor che dormino sopra la terra: ma si pensa che sia per l’astinenzia e castità che servano; e come sono morti abbruciano i loro corpi.

Capitolo 23

Dell’isola di Zeilan.

Non voglio restare di scrivere alcune cose che ho lasciato di sopra quando ho parlato dell’isola di Zeilan, le quali intesi ritrovandomi in quei paesi quando ritornavo a casa. Nell’isola di Zeilan dicono esservi un monte altissimo, così dirupato nelle sue rupi e grotte che niuno vi può ascendere se non in questo modo, che da questo monte pendono molte catene di ferro, talmente ordinate che gli uomini possono per quelle ascendere fino alla sommità, dove dicono esservi il sepolcro d’Adamo primo padre. Questo dicono i saraceni, ma gl’idolatri dicono che vi è il corpo di Sogomonbarchan, che fu il primo uomo che trovasse gl’idoli, e l’hanno per un uomo santo. Costui fu figliuolo d’un re di quell’isola, e si dette alla vita solitaria, e non voleva né regno né alcuna altra cosa mondana, ancor che ‘l padre, con il mezo di bellissime donzelle, con tutte le delizie che imaginar si possa, si sforzasse di levarlo da questa sua ostinata opinione. Ma non fu mai possibile, di modo che ‘l giovane nascosamente si fuggì sopra questo altissimo monte, dove castamente e con somma astinenzia finì la vita sua: e tutti gl’idolatri lo tengono per santo. Il padre, disperato, ne ebbe grandissimo dolore, e fece far un’imagine a similitudine sua, tutta d’oro e di pietre preciose, e volse che tutti gli uomini di quella isola l’onorassero e adorassero come iddio: e questo fu principio dell’adorare gl’idoli, e gl’idolatri hanno questo Sogomonbarchan per il maggior di tutti gli altri, e vengono di molte parti lontane in peregrinaggio a visitare questo monte dove egli è sepolto. E quivi si conservano ancor de’ suoi capelli, denti e un suo catino, che mostrano con gran cerimonie. Li saraceni dicono che sono di Adam, e vi vanno ancor loro a visitarlo per devozione. E accadette che nel 1281 il gran Can intese, da saraceni ch’erano stati sopra detto monte, come vi si truovano le cose sopradette del nostro padre Adam, per il che li venne tanto desiderio di averne ch’ei fu forzato di mandar ambasciatori al detto re di Zeilan a dimandargliene; quali vennero dopo gran cammino e giornate al re, e impetrorono duoi denti mascellari, ch’erano grandi e grossi, e un catino, ch’era di porfido molto bello, e ancora delli capelli. E inteso il gran Can come li suoi ambasciatori ritornavano con le dette reliquie, li mandò ad incontrare fuori della città da tutto il popolo di Cambalù, e furono condotte alla sua presenzia con gran festa e onore.

E avendo parlato di questo monte di Zeilan, ritorniamo al regno di Malabar e alla città di Cael.

Capitolo 24

Della città di Cael.

Cael è una nobile e gran città, la quale signoreggia Astiar, un di quattro fratelli, re della provincia di Malabar, qual è molto ricco d’oro e gioie, e mantiene il suo paese in gran pace; e li mercanti forestieri vi capitano volentieri, per essere da quel re ben visti e trattati. Tutte le navi che vengono di ponente, Ormus, Chisti, Adem, e di tutta l’Arabia, cariche di mercanzie e cavalli, fanno porto in questa città, per essere posta in buon luogo per mercadantare. Ha questo re ben trecento moglie, le quali mantiene con grandissima pompa.

Tutte le genti di questa città e anco di tutta l’India hanno un costume, che di continuo portano in bocca una foglia chiamata tembul, per certo abito e delettazione, e vannola masticando, e sputano la spuma che la fa. I gentiluomini, signori e re hanno dette foglie acconcie con canfora e altre specie odorifere, ed eziandio con calcina viva mescolata: e mi fu detto che questo li conservava molto sani. E se alcuno vuol far ingiuria ad un altro o villaneggiarlo, come l’incontra gli sputa nel viso di quella foglia o spuma, e subito costui corre al re e dice l’ingiuria che gli è stata fatta e ch’ei vuol combattere: e il re li dà l’armi, che è una spada e rotella, e tutto il popolo vi concorre, e qui combattono fin che un di loro resta morto. Non possono menare di punta, perché gli è proibito dal re.

Capitolo 25

Del regno di Coulam.

Coulam è un regno che si truova partendosi dalla provincia di Malabar verso garbin cinquecento miglia. Adorano gl’idoli; vi sono anco cristiani e giudei, che hanno parlare da per sé. Il re di questo regno non dà tributo ad alcuno. Vi nasce verzino molto buono e pevere in grande abondanzia, perché in tutte le foreste e campagne se ne truova. Lo raccolgono nel mese di maggio, giugno e luglio, e gli arbori che lo producono sono domestichi. Hanno ancora endego molto buono e in grande abondanzia, qual fanno d’erbe alle quali, levateli le radici, pongono in mastelli grandi pieni di acqua, dove le lassano star fin che si putrefanno, e poi di quelle esprimono fuor il sugo; qual post’al sole bolle tanto che si disecca e fassi come una pasta, qual poi si taglia in pezzi, al modo che si vede che viene condotta a noi. Qui è grandissimo caldo in alcuni mesi, che a pena si può sopportare; pur li mercanti vi vengono di diverse parti del mondo, come del regno di Mangi e dell’Arabia, per il gran guadagno che truovano delle mercanzie che portano dalla loro patria e di quelle che riportano con le loro navi di questo regno.

Vi si truovano molte bestie diverse dall’altre del mondo, perché vi sono leoni tutti negri, e pappagalli di più sorte, alcuni bianchi come neve con li piedi e becco rosso, altri rossi e azzurri e alcuni picciolissimi. Hanno anco pavoni, più belli e maggiori de’ nostri e di altra forma e statura, e le loro galline sono molto diverse dalle nostre; e il simile è in tutti li frutti che nascono appresso di costoro: la causa dicono che sia per il gran caldo che regna in quelle parti. Fanno vino di un zucchero di palma, qual è molto buono e fa imbriacare più di quello d’uva. Hanno abondanzia di tutte le cose necessarie al vivere umano, eccetto che di biave, perché non vi nasce se non riso, ma quello in gran quantità. Hanno molti astrologhi e medici che sanno ben medicare; e tutti, così uomini come donne, sono neri e vanno nudi, eccetto che si pongono alcuni belli drappi avanti la natura. Sono molto lussuriosi, e pigliano per mogli le parenti germane, le matrigne (se ‘l padre è morto), e le cognate: e questo s’osserva, per quello ch’io intesi, per tutta l’India.

Capitolo 26

De Cumari.

Cumari è una provincia nell’India, della quale si vede un poco della stella della nostra tramontana, la quale non si può vedere dall’isola della Giava fino a questo luogo, dal quale, andando in mare trenta miglia, si vede un cubito di sopra l’acqua. Questa contrada non è molto domestica, ma salvatica, e vi sono bestie di diverse maniere, specialmente simie, di tal sorte fatte e così grandi che pareno uomini. Vi sono ancora gatti maimoni, molto differenti in grandezza e piccolezza dagli altri; hanno leoni, leonpardi e lupi cervieri in grandissimo numero.

Capitolo 27

Del regno di Dely.

Partendosi dalla provincia di Cumari e andando verso ponente per trecento miglia si truova il regno di Dely, che ha proprio re e favella; non dà tributo ad alcuno. Questa provincia non ha porto, ma un fiume grandissimo che ha buone bocche. Gli abitatori adorano gl’idoli. Questo non è potente in moltitudine o vero valore delli suoi popoli, ma è sicuro per la fortezza de’ passi della regione, che sono di tal sorte che li nimici non vi possono andare ad assaltare. Vi è abondanza di pevere e gengero che vi nasce, e altre speciarie. Se alcuna nave venisse ad alcuna di queste bocche del detto fiume o vero porto per qualche accidente e non per propria volontà, li togliono tutto quello che hanno in nave di mercanzie, dicendo: “Voi volevate andare altrove, e il nostro dio vi ha condutto qui accioché abbiamo le robbe vostre”. Le navi di Mangi vengono per la estate e si cargano per ventura in otto giorni, e più tosto che possono si partono, perché non vi è molto buon stare, per essere la spiaggia tutta di sabbione e molto pericolosa, ancor che le dette navi portino assai ancore di legno, così grandi che in ogni gran fortuna ritengono le navi. Vi sono leoni e molte altre bestie feroci e salvatiche.

Capitolo 28

Di Malabar.

Malabar è un regno grandissimo nell’India maggiore verso ponente, del quale non voglio restare di dire ancora alcune altre particularità, le cui genti hanno re e lingua propria; non danno tributo ad alcuno. Da questo regno appare la stella della tramontana sopra la terra due braccia. Sono in questo reame e in quello di Guzzerat, qual è poco lontano, molti corsari, i quali vanno in mare ogni anno con più di cento navilii, e prendono e rubano le navi di mercanti che passano per quei luoghi. Detti corsari menano in mare le lor mogli e figliuoli, e grandi e piccioli, e vi stanno tutta la state. E accioché non vi possi passar nave alcuna che non la prendino, si mettono in ordinanza, cioè che un navilio sta sorto con l’ancora per cinque miglia lontano un dall’altro, sì che venti navilii occupano il spazio di cento miglia; e subito che veggono una nave fanno segno con fuoco o con fumo, e così tutti si ragunano insieme e pigliano la nave che passa. Non gli offendono nella persona, ma, svaligiata la nave, mettono quelli sopra il lito, dicendoli: “Andate a guadagnare dell’altra robba; forsi che passerete di qua di nuovo, dove ne arrichirete”.

In questa regione v’è grandissima copia di pevere, zenzero e cubebe e noci d’India. Fanno ancora boccascini, i più belli e più sottili che si trovino al mondo. E le navi di Mangi portano del rame per saorna delle navi, e appresso panni d’oro, di seda, veli e oro e argento, e molte sorti di specie che non hanno quelli di Malabar, e queste tal cose contracambiano con le mercanzie della detta provincia. Si truovano poi mercanti che le conducono in Adem, e di lì vengono portate in Alessandria.

E avendo parlato di questo regno di Malabar, diremo di quello di Guzzerati, che è vicino. E sappiate che, se vogliamo parlare di tutte le città de’ regni d’India, saria cosa troppo longa e tediosa, ma toccheremo solamente quelli delli quali abbiamo avuto qualche informazione.

Capitolo 29

Del regno di Guzzerat.

Il reame di Guzzerati ha proprio re e propria lingua; è appresso il mare d’India verso l’occidente. Quivi appare la stella tramontana alta sei braccia. Vi sono in questo reame li maggior corsari che si possino imaginare, perché vanno fuori con li suoi navilii e, come prendono alcuno mercante, subito li fanno bere un poco di acqua di mare mescolata con tamarindi, che li muove il corpo e fa andar da basso: e la causa è questa, perché li mercanti, vedendo venire i corsari, inghiottono le perle e gioie che hanno per asconderle, e costoro gliele fanno uscir fuori del corpo.

Quivi è grand’abbondanza di zenzeri, pevere ed endego; hanno bambagio in gran quantità, perché hanno gli arbori che lo producono, quali sono d’altezza di sei passa, e durano anni venti: ma il bambagio che si cava di quelli così vecchi non è buon da filare, ma solamente per coltre, ma quello che fanno fino a dodici anni è perfettissimo per far veli sottili e altre opere. In questo regno s’acconciano gran quantità di pelli di becchi, buffali, buoi salvatichi, leocorni e di molte altre bestie, e se n’acconcia tante che se ne cargano le navi e si portano verso li regni d’Arabia. Si fanno in questo regno molte coperte di letto di cuoio rosso e azzurro, sottilmente lavorate e cucite con fil d’oro e d’argento: e sopra quelle li saraceni dormono volentieri. Fanno ancora cussini tessuti d’oro tirato, con pitture d’uccelli e bestie, che sono di gran valuta, perché ve ne sono di quelli che vagliono ben sei marche d’argento l’uno. Quivi si lavora meglio d’opere da cucire, e più sottilmente e con maggior artificio, che in tutt’il resto del mondo.

Or, procedendo più oltre, diremo d’un regno detto Canam.

Capitolo 30

Del regno di Canam.

Canam è un grande e nobil regno verso ponente, e intendasi verso ponente perché allora messer Marco veniva di verso levante, e secondo il suo cammino si tratta delle terre che lui trovava. Questo ha re e non rende tributo ad alcuno; le genti adorano gli idoli, e hanno lingua da per sé. Quivi non nasce pevere né zenzero, ma incenso in gran quantità, qual non è bianco ma è come nero. Vi vanno molte navi per levare di quello, e di molte altre mercanzie che quivi si truovano. Si cavano molte mercanzie, e massime di cavalli per tutta l’India, alla qual ne portano gran quantità.

Capitolo 31

Del regno di Cambaia.

Questo è un gran regno verso ponente, il qual ha re e favella da per sé; non danno tributo ad alcuno; adorano le genti gl’idoli. E da questo regno si vede la stella della tramontana più alta, perché quanto più si va verso maestro tanto meglio ella si vede. Si fanno quivi molte mercanzie, e v’è endego molto e in grand’abbondanza; hanno boccascini e bambagio in gran copia. Si traggono di questo regno molti cuoi ben lavorati per altre provincie, e da quelle si riportano per il più oro, argento, rame e tucia.

E non v’essendo altre cose degne da essere intese, procederò a dir del regno di Servenath.

Capitolo 32

Del regno di Servenath.

Servenath è un regno verso ponente, le cui genti adorano gl’idoli e hanno re e favella da per sé; non danno tributo ad alcuno, e sono buona gente. Vivono delle loro mercanzie e arti, e vi vanno ben de’ mercanti con le loro robbe, e riportano di quelle del regno. Mi fu detto che quelli che servono agl’idoli e tempii sono i più crudeli e perfidi che abbi il mondo.

Or passaremo ad un regno detto Chesmacoran.

Capitolo 33

Del regno di Chesmacoran.

Questo è un regno grande, e ha re e favella da sua posta. Alcune di quelle genti adorano gl’idoli, ma la maggior parte sono saraceni. Vivono di mercanzie e arti, e il loro vivere è riso e frumento, carne, latte, che hanno in gran quantità. Quivi vengono molti mercanti per mare e per terra. E questa è l’ultima provincia dell’India maggiore andando verso ponente maestro, perché partendosi da Malabar quivi la finisce: della quale India maggiore abbiamo parlato solamente delle provincie e città che sono sopra il mare, perché a parlare di quelle che sono fra terra saria stata l’opera troppo prolissa.

Ora parleremo d’alcune isole, una delle quali si chiama Mascola, l’altra Femina.

Capitolo 34

Dell’isola Mascola e Femina.

Oltre il Chesmacoran a cinquecento miglia in alto mare verso mezodì vi sono due isole, l’una vicina all’altra trenta miglia: e in una dimorano gli uomini senza femine, e si chiama isola Mascolina; nell’altra stanno le femine senza gli uomini, e si chiama isola Feminina. Quelli che abitano in dette due isole sono una cosa medesima, e sono cristiani battezzati. Gli uomini vanno all’isola delle femine e dimorano con quelle tre mesi continui, cioè marzo, aprile e maggio, e ciascuno abita in casa con la sua moglie, e dopo ritorna all’isola Mascolina, dove dimorano tutt’il resto dell’anno facendo le loro arti senza femina alcuna. Le femine tengono seco i figliuoli fino a’ dodici anni, e dopo li mandano alli loro padri; se ella è femina la tengono fin ch’ella è da marito, e poi la maritano negli uomini dell’isola. E par che quell’aere non patisca che gli uomini continuino a stare appresso le femine, perché moririano. Hanno il loro vescovo, qual è sottoposto a quello dell’isola di Soccotera. Gli uomini proveggono al vivere delle loro mogli, perché seminano le biave, e le donne lavorano le terre, e raccogliono il grano e molti altri frutti che nascono di diverse sorti. Vivono di latte, carne, risi e pesci, e sono buoni pescatori, e pigliano infiniti pesci: de’ freschi e salati vendono a’ mercanti che vengono a comprarli, e massime dell’ambra, che qui se ne truova assai.

Capitolo 35

Dell’isola di Soccotera.

Partendosi da dette isole verso mezodì, dopo cinquecento miglia si truova l’isola di Soccotera, la quale è molto grande e abbondante del vivere. Trovasi per gli abitanti alle rive di quest’isola molto ambracano, che vien fuori del ventre delle balene, e per esser gran mercanzia s’ingegnano d’andarle a prendere, con alcuni ferri ch’hanno le barbe che, ficcati nella balena, non si possono più cavare, alli quali è attaccata una corda longhissima con una bottesella che va sopra il mare, accioché, come la balena è morta, la sappino dove trovare, e la conducono al lito, dove li cavano fuori del ventre l’ambracano e della testa assai botte d’olio. Vanno tutti nudi, sì mascoli come femine, solamente coperti davanti e da drieto, come fanno gl’idolatri; e non hanno altre biade se non risi, delli quali vivono, e di carne e latte. Sono cristiani battezzati, e hanno un arcivescovo, ch’è come signore, qual non è sottoposto al papa di Roma, ma ad un zatolia che dimora nella città di Baldach, ch’è quello che l’elegge, overo, se quelli dell’isola lo fanno, lui lo conferma. Arrivano a quella isola molti corsari con la robba ch’hanno guadagnata, la quale questi abitatori comprano, però che dicono ch’ella era d’idolatri e saraceni, e la possono tenere licitamente. Vengono quivi tutte le navi che vogliono andare alla provincia d’Adem, e di pesci e d’ambracano (che ne hanno gran copia) si fanno di gran mercanzie. Lavorano quivi ancora panni di bambagio di diverse sorti e in quantità, quali vengono levati per i mercanti. Sono gli abitanti di detta isola i maggiori incantatori e venefici che si possano trovare al mondo, ancor che ‘l suo arcivescovo non glielo permetta, e che gli scommunichi e maledisca. Pur non curano cosa alcuna, percioché, s’una nave di corsari facesse danno ad alcuno di loro, constringono ch’ella non si possi partire se non sodisfanno i danneggiati, conciosiacosaché, se ‘l vento li fosse prospero e in poppa, loro fariano venire un altro vento che la ritorneria all’isola al suo dispetto. Fanno il mare tranquillo, e quando vogliono fanno venir tempeste, fortune, e molte altre cose maravigliose che non accade a parlarne.

Ma diremo dell’isola di Magastar.

Capitolo 36

Della grand’isola di Magastar, ora detta di San Lorenzo.

Partendosi dall’isola di Soccotera, e navigando verso mezodì e garbino per mille miglia, si truova la grand’isola di Magastar, qual è delle maggiori e più ricche che siano al mondo. Il circuito di quest’isola è di tremila miglia; gli abitatori sono saraceni e osservano la legge di Macometto. Hanno quattro siechi, che vuol dire in nostra lingua vecchi, che hanno il dominio dell’isola e quella governano. Vivono questi popoli di mercanzie e arti, e sopra l’altre vendono infinita quantità di denti d’elefanti, per la moltitudine grande che vi nasce di detti animali: ed è cosa incredibile il numero che si cava di questa isola e di quella di Zenzibar. Quivi si mangia tutto l’anno per la maggior parte carne di cameli, ancor che ne mangiano di tutti gli altri animali, ma di cameli sopra gli altri, per averla provata ch’ella è più sana e più saporita carne che si possa trovare in quella regione. Vi sono boschi grandi d’arbori di sandali rossi, e per la gran quantità sono in picciol prezio. Hanno ancora molto ambracano, qual le balene gettano, e il mare lo fa andare al lito e loro lo raccolgono. Prendono anco lupi cervieri, leoni, leonze, e infiniti altri animali, come cervi, caprioli, daini, e molte cacciagioni di diverse bestie e uccelli diversi da’ nostri. E vanno a quest’isola molte navi di diverse provincie con mercanzie di varie sorti, con panni d’oro, di seta, e con sete di diverse maniere: e quelle vendono overo barattano co’ mercanti dell’isola, e caricano poi delle mercanzie dell’isola, e sempre fanno gran profitto e guadagno. Non si naviga ad altre isole verso mezodì, le quali sono in gran moltitudine, se non a questa e a quella di Zenzibar, perché il mare corre con grandissima velocità verso mezodì, di sorte che non potriano ritornare più adietro. E le navi che vanno da Malabar a quest’isola fanno il viaggio in venti overo venticinque giorni, ma nel ritorno penano da tre mesi, tanta è la correntia dell’acque che di continuo caricano verso mezogiorno.

Dicono quelle genti che a certo tempo dell’anno vengono di verso mezodì una maravigliosa sorte d’uccelli, che chiamano ruch, qual è della simiglianza dell’aquila, ma di grandezza incomparabilmente grande: ed è di tanta grandezza e possanza ch’egli piglia con l’unghie de’ piedi un elefante e, levatolo in alto, lo lascia cadere, qual more, e poi, montatoli sopra il corpo, si pasce. Quelli ch’hanno veduto detti uccelli riferiscono che, quando aprono l’ali, da una punta all’altra vi sono da sedici passa di larghezza, e le sue penne sono longhe ben otto passa, e la grossezza è corrispondente a tanta longhezza. E messer Marco previous hit Polo next hit, credendo che fossero griffoni, che sono dipinti mezi uccelli e mezi leoni, interrogò questi che dicevano d’averli veduti, i quali li dissero la forma de’ detti esser tutta d’uccello, come saria dir d’aquila. E avendo il gran Can inteso di simil cose maravigliose, mandò suoi nunzii alla detta isola, sotto pretesto di far rilasciar un suo servitore, che quivi era stato ritenuto; ma la verità era per investigare la qualità di detta isola, e delle cose maravigliose ch’erano in quella. Costui di ritorno portò (sì come intesi) al gran Can una penna di detto uccello ruch, la qual li fu affermato che, misurata, fu trovata da nonanta spanne, e che la canna della detta penna volgea due palmi, ch’era cosa maravigliosa a vederla: e il gran Can n’ebbe un estremo piacere, e fece gran presenti a quello che gliela portò. Li fu portato ancor un dente di cinghiale, che nascono grandissimi in detta isola, come buffali, qual fu pesato e si trovò di quattordici libre. Vi sono ancor giraffe, asini e altre sorti d’animali salvatichi molto diversi da’ nostri.

Or, avendo parlato di quell’isola, parlaremo di quella di Zenzibar.

Capitolo 37

Dell’isola di Zenzibar.

Dopo questa di Magastar, si truova quella di Zenzibar, la qual, per quel che s’intese, volge a torno duemila miglia. Gli abitatori adorano gl’idoli, e hanno favella da sua posta, e non rendono tributo ad alcuno. Hanno il corpo grosso, ma la longhezza di quello non corrisponde alla grossezza secondo saria conveniente, perché, s’ella fosse corrispondente, pareriano giganti. Sono nondimeno molto forti e robusti, e un solo porta tanto carico quanto fariano quattro di noi altri, e mangiano per cinque. Sono neri e vanno nudi, si cuoprono la natura con un drappo, e hanno li capelli così crespi che a pena con l’acqua si possono distendere, e hanno la bocca molto grande, e il naso elevato in suso verso il fronte, l’orecchie grandi, e occhi grossi e spaventevoli, che paiono demonii infernali. Le femine similmente sono brutte, la bocca grande, il naso grosso e gli occhi, ma le mani sono fuor di misura grosse, e le tette grossissime. Mangiano carne, latte, risi e dattali; non hanno vigne, ma fanno vino di risi con zucchero e d’alcune lor delicate specie, ch’è molto buono al gusto e imbriaca come fa quel d’uva.

Vi nascono in detta isola infiniti elefanti, e de’ denti ne fanno gran mercanzia; de’ quali elefanti non voglio restar di dire che, quando il maschio vuol giacere con la femina, cava una fossa in terra quanto conveniente li pare, e in quella distende la femina col corpo in suso a modo d’una donna, perché la natura della femina è molto verso il ventre, e poi il maschio vi monta sopra come fa l’uomo. Hanno delle giraffe, ch’è bel animale a vederlo: il busto suo è assai giusto, le gambe davanti longhe e alte, quelle da dietro basse, il collo molto longo, la testa picciola; ed è quieto animale. Tutta la persona è bianca e vermiglia a rodelle, e giungeria alto con la testa passa tre. Hanno montoni molto differenti da’ nostri, perché sono tutti bianchi, eccettuando il capo ch’è negro; e così sono fatti tutti i cani di detta isola, e così l’altre bestie sono dissimili dalle nostre. Vi vengono molte navi con mercanzie, quali barattano con quelle della detta isola, e sopra l’altre co’ denti d’elefanti e con ambracano, che gran copia ne truovano sopra i liti dell’isola, per esservi in quei mari assai balene.

Alcune fiate li signori di quest’isola vengono fra loro alla guerra, e gli abitanti sono franchi combattitori e valorosi in battaglia, perché non temono morire. Non hanno cavalli, ma combattono sopra elefanti e camelli, sopra i quali fanno castelli, e in quelli vi stanno quindeci o venti, con spade, lancie e pietre; e a questo modo combattono, e quando vogliono entrare in battaglia danno a bere del loro vino agli elefanti, perché dicono che quello li fa più gagliardi e furiosi nel combattere.

Capitolo 38

Della moltitudine dell’isole nel mare d’India.

Ancor ch’abbi scritto delle provincie dell’India, non ho però scritto se non delle più famose e principali, e il simile ho fatto dell’isole, le quali sono in tanta moltitudine ch’alcuno non lo potria credere, perché, come ho inteso da’ marinari e gran pilotti di quelle regioni, e come ho veduto per scrittura da quelli ch’hanno compassato quel mare d’India, se ne ritruovano da dodicimila e settecento fra le abitate e deserte. E detta India maggior comincia da Malabar fino al regno di Chesmacoran, nel quale sono tredici regni grandissimi, e noi n’abbiamo nominati dieci. E l’India minore comincia da Ziambi fino a Murfili, nella quale sono otto regni, eccettuando quelli dell’isole, che sono in gran quantità.

Ora parleremo dell’India seconda overo mezana, che si chiama Abascia.

Capitolo 39

Dell’India seconda overo mezana, detta Abascia.

Abascia è una gran provincia, e si chiama India mezana overo seconda. Il maggior re di quella è cristiano; gli altri re sono sei, cioè tre cristiani e tre saraceni, subditi pure al sopradetto. Mi fu detto che li cristiani, per essere conosciuti, li fanno tre segnali, cioè un in fronte e un per gota: e sono fatti con ferro caldo, e dopo il battesimo d’acqua questo è il secondo con fuoco. Li saraceni n’hanno un solo, cioè nel fronte fino a mezo il naso; e perché vi sono assai giudei, ancor loro sono segnati con due, cioè uno per gota. Il maggior re cristiano sta nel mezo di detta provincia, e li re saraceni hanno i loro reami verso la provincia d’Adem. Il venire di detti popoli alla fede cristiana fu in questo modo, che, avendo il glorioso apostolo s. Tommaso predicato nel regno di Nubia e fattolo cristiano, venne poi in Abascia, dove con le prediche e miracoli fece il simile. Poi andò ad abitare nel regno di Malabar, dove, dopo l’aver convertite infinite genti, come abbiamo detto, fu coronato di martirio, e ivi sta sepolto. Sono questi popoli abiscini molto valenti nell’armi e gran guerrieri, perché di continuo combattono col soldano d’Adem e co’ popoli di Nubia e con molti altri che sono ne’ loro confini; e per il continuo esercitarsi sono reputati i miglior uomini da guerra di tutte le provincie dell’India.

Or nel 1288, sì come mi fu narrato, accadé che questo gran signore d’Abiscini avea deliberato d’andare a visitar il sepolcro di Cristo in Ierusalem in persona, perché ogn’anno ve ne vanno infiniti de’ detti popoli a questa devozione, ma fu disconfortato da tutti i suoi baroni di non lo fare, per il pericolo grande che v’era, dovendo passar per tanti luoghi e terre di saraceni suoi nemici. E però deliberò di mandarvi un vescovo, ch’era reputato uomo di buona e santa vita, quale andatovi e fatte le sue orazioni in Ierusalem, e offerte che gli avea ordinato il re, nel ritorno capitò nella città d’Adem, dove il soldano di quella lo fece venire alla sua presenza, e quivi con minaccie lo voleva constringere a farsi macomettano. Ma lui stando constante e ostinato di non voler lasciare la fede cristiana, il soldano lo fece circuncidere, in dispregio del re d’Abiscini, e lo licenziò. Costui tornato e narrato al suo signore il dispregio e villania che li era stata fatta, subito comandò che ‘l suo esercito si mettesse ad ordine, e con quello andò a destruzione e ruina del soldano d’Adem; qual, intesa la venuta di questo re grande d’Abiscini, fece venire in suo aiuto due gran re saraceni suoi vicini, con infinita gente da guerra. Ma, azzuffatosi insieme, il re d’Abiscini fu vincitore e prese la città d’Adem e li diede il guasto, per vendetta del dispregio ch’era stato fatto al suo vescovo.

La gente di questo reame d’Abiscini vive di frumento, risi, carne, latte, e fanno olio di susimani, e hanno abbondanza d’ogni sorte di vettovaglie. Hanno elefanti, leoni, giraffe e altri animali di diverse maniere, e similmente uccelli e galline molto diverse, e altri infiniti animali, cioè simie, gatti mamoni, che paiono uomini. Ed è provincia molto ricchissima d’oro, e quivi se ne truova assai, e li mercanti vi vanno volentieri con le loro mercanzie, perché riportano gran guadagno.

Or parleremo della provincia di Adem.

Capitolo 40

Di Adem provincia.

La provincia d’Adem ha un re, qual chiamano soldano; gli abitatori sono tutti saraceni, e odiano infinitamente li cristiani. In questa provincia vi sono molte città e castella, e v’è un bellissimo porto, dove arrivano tutte le navi che vengono d’India con speciarie. E li mercanti che le comprano per condur in Alessandria le cavano delle navi e mettono in altre navi più picciole, con le quali attraversano un colfo di mare per venti giornate, o più o manco, secondo il tempo che fa; e giunti in un porto le caricano sopra cameli e le fanno portar per terra per trenta giornate fino al fiume Nilo, dove le caricano in navilii piccioli, chiamati zerme, e con quelle vengono a seconda del fiume fino al Cairo, e de lì per una fossa fatta a mano detta calizene fino in Alessandria: e questa è la via più facile e più breve che possino far i mercanti che d’Adem vogliono condur le speciarie d’India in Alessandria. Similmente li mercanti in questo porto d’Adem caricano infiniti cavalli d’Arabia, e li conducono per tutti li regni e isole d’India, dove cavano grandissimo prezio o guadagno. E il soldan d’Adem è ricchissimo di tesoro, per la grandissima utilità che trae de’ dretti delle mercanzie che vengono d’India, e similmente di quelle che si cavano del suo porto per India, perché questa è la maggior scala che sia in tutte quelle regioni per contrattare mercanzie, e ognun vi concorre con le sue navi. E nel 1200, che soldano di Babilonia andò la prima volta col suo esercito sopra la città d’Acre e la prese, mi fu detto che questo d’Adem vi mandò da trentamila cavalli e quarantamila camelli, per l’odio grande che portava a’ cristiani.

Or parleremo della città d’Escier.

Capitolo 41

Della città d’Escier.

Il signor di questa città è macomettano, e mantiene la sua città con gran giustizia, ed è sottoposto al soldan d’Adem, ed è lontana da Adem da quaranta miglia verso scirocco. Ha molte città e castella sotto di sé; e questa città ha un buon porto, dove capitano molte navi d’India con mercanzie, e di qui traggono assai cavalli buoni ed eccellenti, che sono di gran valuta e prezio nell’India.

In questa regione nasce grandissima copia d’incenso bianco molto buono, il quale a goccie a goccie scorre giù da alcuni arbori piccioli simili all’albedo. Gli abitatori alcune volte forano overo tagliano le scorze di quelli, e da’ tagli overo buchi scorron fuori goccie dell’incenso; e ancor che non si facciano detti tagli, pur questo liquore non resta di venir fuori da detti arbori, per il grandissimo caldo che vi fa, e poi s’indurisce. Sono quivi molti arbori di palme, che fanno buoni dattali in abbondanza; non vi nascono biade, se non risi e miglio, e bisogna che vi siano condotte delle biade d’altre regioni. Non hanno vino d’uva, ma lo fanno di risi, zucchero e dattali, ch’è delicato da bere. Hanno montoni piccioli, li quali non hanno l’orecchie dove hanno gli altri, ma vi sono due cornette, e più a basso verso il naso hanno due buchi in luogo dell’orecchie.

Sono questi popoli gran pescatori, e quivi si truovan infiniti pesci tonni, che per la grande abbondanza se n’averiano due per un grosso veneziano, e ne seccano. E perché pel gran caldo tutto il paese è come abbruciato, né vi si truova erba verde, però hanno assuefatto li loro animali, cioè buoi, montoni, cameli e poledri, a mangiar pesci secchi, e gliene danno di continuo, e li mangiano volentieri. E detti pesci sono d’una sorte picciolini, quali prendono il mese di marzo, aprile e maggio in grandissima quantità, e secchi ripongono in casa, dove per tutto l’anno ne danno a mangiare alle bestie, le quali eziandio ne mangiano de’ freschi come li secchi, ancor che siano più avezzi a’ secchi. E per la carestia delle biade fanno anco detti popoli biscotto di pesci grandi, in questo modo, che li tagliano minutamente in pezzi, e con certa farina fanno un liquor che li fa tenire insieme a modo di pasta, e ne formano pani che nell’ardente sole s’asciugano e induriscono, e così riposti in casa li mangiano tutto l’anno come biscotto. L’incenso che abbiamo detto di sopra è tanto buon mercato che ‘l signor lo compra per dieci bisanti il cantaro, e poi lo rivende a’ mercanti, che poi lo danno per 40 bisanti: e questo fa egli ad instanzia del soldano di Adem, qual piglia tutto l’incenso che nasce nel suo territorio per il detto prezio, e poi lo rivende al modo detto di sopra, onde ne conseguisce grandissimo utile e guadagno.

Altro non v’essendo da dire, procederò a parlar della città di Dulfar.

Capitolo 42

Di Dulfar città.

Dulfar è una città nobile e grande, qual è discosto dalla città d’Escier venti miglia verso scirocco. Le sue genti sono macomettane, e il suo signor è sott’il soldan d’Adem. Questa città è posta sopra il mare e ha buon porto, dove vengon assai navi; e quivi si conducono assai cavalli arabi d’altre contrade fra terra, e li mercanti li levano e conducono in India, per il grandissimo guadagno che ne conseguiscono. Ha sotto di sé città e castella, e nasce nel suo territorio assai incenso, qual vien condotto via per li mercanti.

E altre cose non v’essendo da dire, diremo del colfo di Calaiati.

Capitolo 43

Di Calaiati città.

Calaiati è una città grande, ed è nel colfo che medesimamente si dimanda di Calatu; è discosto dal Dulfar cinquecento miglia verso scirocco. Osservano la legge di Macometto; è sottoposta al melich d’Ormus, e ogni fiata che ‘l detto ha guerra con alcuno re, ricorre a questa città, perché è molto forte e posta in forte luogo, di modo che non teme d’alcuno. Non ha biade di sorte alcuna, ma le traggono d’altri luoghi. E questa città ha un buon porto, e molti mercanti vi vengono dell’India con gran numero di navi, e vendono le lor robbe e speciarie benissimo, perché da questa città si portano fra terra a molte città e castella. Si cavano ancora di questo porto per l’India molti cavalli, e ne guadagnano grandemente. Questa città è posta nell’entrata e bocca del detto colfo di Calatu, di modo che niuna nave non può entrare in quello né uscire senza sua licenzia. E molte volte che ‘l melich di questa città, qual ha patti e obligazione col re di Chermain e li è subdito, non lo vuol obedire, perché ‘l detto gl’impone qualche dazio oltre l’ordinario ed esso ricusa di pagarlo, subito il re li manda un esercito per constringerli per forza; lui si parte d’Ormus e viene a questa città di Calaiati, dove stando non lascia entrare né passar alcuna nave: dal che advien che ‘l re di Chermain perde i suoi dretti e, ricevendo gran danno, è necessitato a far patto col detto melich. Ha un castello molto forte, che tiene a modo di dir serrato il colfo e il mare, perché discuopre tutte le navi da ogni tempo che passano. Le genti di questa contrata vivono di dattali e di pesci freschi e salati, perché d’ambedue n’hanno di continuo gran copia; ma li gentiluomini e ricchi vivono di biade, che vengono condotte d’altri paesi.

Or, partendosi da Calaiati, si va trecento miglia verso greco e tramontana, e si truova l’isola d’Ormus.

Capitolo 44

Di Ormus.

L’isola d’Ormus ha una bella e gran città, posta sopra il mare; ha un melich, ch’è nome di dignità come saria a dire marchese, qual ha molte città e castella sotto il suo dominio. Gli abitanti sono saraceni, tutti della legge di Macometto. Vi regna grandissimo caldo, e per questa causa in tutte le case hanno ordinate le sue ventiere, per le qual fanno venire il vento in tutte le loro stanzie e camere dove li piace, ch’altramente non potriano vivere. Or di questo non diremo altro, perché di sopra nel libro abbiamo parlato di Chisi e Chermain.

Poi che s’ha scritto a bastanza delle provincie e terre dell’India maggiore che sono appresso il mare, e d’alcune regioni di popoli d’Etiopia, che noi chiamiamo India mezana, avanti che facciamo fine al libro, ritornerò a narrare d’alcune regioni che sono vicine alla tramontana, delle quali io lasciai di dire ne’ libri di sopra. Per tanto è da sapere che nelle parti vicine alla tramontana v’abitano molti Tartari, ch’hanno re nominato Caidu, il qual è della stirpe di Cingis Can, e parente prossimo di Cublai gran Can; non è subdito ad alcuno. Questi Tartari osservano l’usanza e modi degli antichi suoi predecessori, e vengono reputati veri Tartari. E questo re col suo popolo non abita in castelli né fortezze né città, ma sta sempre alla campagna in pianure e valli e nelle foreste di quella regione, che sono in grandissima moltitudine. Non hanno biade di sorte alcuna, ma vivono di carne e latte, e in grandissima pace, perché il loro re non procura mai altro (al quale tutti obediscono) se non di conservarli in pace e unione, ch’è il proprio carico di re. Hanno moltitudine grande di cavalli, buoi, pecore e altri animali; quivi si truovan orsi tutti bianchi, grandi e longhi la maggior parte venti palmi. Hanno volpi tutte nere e molto grandi, e asini salvatichi in gran copia, e alcuni animali piccioli, chiamati rondes, ch’hanno la pelle delicatissima, ch’appresso di noi si chiamano zibellini; item vari arcolini, e di quelli che si chiamano sorzi di faraon, e ve n’è tanta copia ch’è cosa incredibile: e questi Tartari li sanno pigliar così destramente e con tant’arte ch’alcuno non può scampar dalle lor mani. E perché, avanti che s’arrivi dove abitano detti Tartari, v’è una pianura longa il cammino di quattordici giornate, tutta disabitata e come un deserto, e la causa è perché vi sono infinite lagune e fontane che l’inonda, e per il gran freddo stanno quasi di continuo agghiacciati, eccettuando alcuni mesi dell’anno che ‘l sole le disfà, e v’è tanto fango che più difficilmente vi si può passar a quel tempo che quando v’è il ghiaccio: e però detti popoli, accioché li mercanti possano andare a comprar le loro pelli, ch’è la sola mercanzia che si truovi appresso di loro, s’hanno ingegnato di far che questo deserto si possa passare, in questo modo, che in capo d’ogni giornata v’hanno fabricate case di legname alte da terra, dove commodamente vi possano star le persone che ricevono i mercanti, e che poi li conducono la seconda giornata all’altra posta overo casa; e così di posta in posta se ne vanno fino alla fine di detto deserto. E per esser i ghiacci grandi hanno fatto una sorte di carri, che quelli ch’abitano appresso di noi sopra monti aspri e inaccessibili li sogliono usare, e si chiamano tragule, che sono senza ruote, piani nei fondi, e si vengono alzando da’ capi a modo di un semicirculo, e scorrono per sopra la ghiaccia facilmente. Hanno per condur dette carrette preparata una sorte d’animali simili a’ cani, e quasi che si possono chiamar cani, grandi come asini, fortissimi e usati a tirare, de’ quali ne ligano sotto al carro sei a due a due, e il carrettier li governa, e sopra detto carro non vi sta altro che lui e il mercante con le dette pelli. E, camminato ch’hanno una giornata, mettono giù il carro e li cani, e a questo modo di giorno in giorno mutando carri e cani, e così passano detto deserto, conducendo fuori la mercanzia di dette pelli, che poi si vendono in tutte le parti nostre.

Capitolo 45

Della regione detta delle Tenebre.

Nell’ultime parti del reame di questi Tartari, dove si truovano le pelli sopradette, v’è un’altra regione che s’estende fino nell’estreme parti di settentrione, la qual è chiamata dall’oscurità, perché la maggior parte de’ mesi dell’inverno non v’apparisce il sole, e l’aere è tenebroso o al modo che gli è avanti che si faccia l’alba del giorno, che si vede e non si vede. Gli uomini di queste regioni sono belli e grandi, ma molto pallidi; non hanno re né principe alla cui iurisdizione siano sottoposti, ma vivono senza costumi e a modo di bestie. Sono d’ingegno grosso e come stupidi. Li Tartari spesse fiate vanno ad assaltare detta regione, rubbandoli il bestiame e li beni di quelli, e li vanno ne’ mesi ch’hanno questa oscurità, per non esser veduti; e perché non saperiano tornare a casa con la preda, però cavalcano cavalle che abbiano poledri, quali menano seco fino a’ confini, e li fanno tenere alle guardie nell’entrare di detta regione; e poi che hanno rubbato in quelle tenebre e vogliono ritornare alla regione della luce, lasciano le briglie alle cavalle, che possano andare liberamente in qualunque parte le vogliono, e le cavalle, sentendo l’usta de’ poledri, se ne vengono al dritto dove li lasciarono: e a questo modo ritornano a casa.

Gli abitatori di questa regione delle Tenebre pigliano la state (che hanno di continuo giorno e luce) gran moltitudine di detti armellini, vari, arcolini, volpi e altri simili animali, che hanno le pelli molto più delicate e preciose e di maggior valore che non sono quelle de’ Tartari, quali per questa causa le vanno a rubbare. Detti popoli conducono la state le loro pelli a’ paesi vicini, dove si vendono, e ne fanno grandissimo guadagno. E per quello che mi fu detto vengono di dette pelli fino nella provincia di Rossia, della qual parleremo, mettendo fine al nostro libro.

Capitolo 46

Della provincia di Rossia.

La provincia di Rossia è grandissima e divisa in molte parti, e guarda verso la parte di tramontana, dove si dice essere questa regione delle Tenebre. Li popoli di quella sono cristiani, e osservano l’usanza de’ Greci nell’officio della Chiesa. Sono bellissimi uomini, bianchi e grandi, e similmente le loro femine bianche e grandi, co’ capelli biondi e longhi; e rendono tributo al re de’ Tartari detti di ponente, col quale confinano nella parte di loro regione che guarda il levante. In questa provincia si truovano abbondanza grande di pelli d’armellini, arcolini, zibellini, vari, volpi, e cera molta; vi sono ancora molte minere, dove si cava argento in gran quantità. La Rossia è regione molto fredda, e mi fu affermato ch’ella s’estende fino sopra il mare Oceano, nel quale (come abbiamo detto di sopra) si prendono li girifalchi, falconi pellegrini in gran copia, che vengono portati in diverse regioni e provincie.

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