Il caso del Generale Roberto Vannacci. Il ministro Crosetto dovrebbe scusarsi con lui e, pur non condividendo tutto, difenderlo dalle stupidaggini scritte da Repubblica. Qui un estratto dal suo libro “Il Mondo al Contrario”.

Contra Verbosos Noli Contendere Verbis: Sermo Datur Cunctis, Animi Sapientia Paucis.
(Non perdere tempo a combattere con gli sciocchi: la parola è concessa a tutti, ma la sapienza a pochi) Marco Porcio Catone. (Lo stesso di “Carthago Delenda Est”).

 

Il ministro Crosetto dovrebbe scusarsi con il Generale Vannacci e, pur non condividendo tutto, difenderlo dalle stupidaggini scritte da Repubblica.

Il generale Roberto Vannacci nasce a La Spezia, 20 ottobre 1968, ha studiato all’Accademia di Modena,
già comandante della Task Force 45 durante la Guerra in Afghanistan. Ha ricoperto i ruoli di comandante del 9º Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin”, comandante della Brigata Paracadutisti “Folgore” e comandante del contingente italiano nella Guerra civile in Iraq. Il suo medagliere è imponente.

Vannacci ha tre lauree di livello magistrale: in Scienze Strategiche (conseguita presso l’Università degli Studi di Torino), in Scienze Internazionali e Diplomatiche (presso l’Università di Trieste) e in Scienze Militari (presso l’Università di Bucarest). Ha conseguito, inoltre, il Master universitario di II livello in Scienze Strategiche presso l’Università di Torino e il Master di II livello in Studi Internazionali Strategico-Militari in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano e l’Università LUISS di Roma.

Sempre al comando di unità di Forze speciali, Vannacci ha partecipato a numerose operazioni militari. Da comandante di distaccamento operativo incursori prende parte alle operazioni in Somalia, Rwanda e Yemen. In particolare, durante la missione in Somalia, ha partecipato a operazioni speciali (denominate “Hillac”) finalizzate al sequestro dei depositi di armi e alla neutralizzazione dei miliziani di Mohammed Farah Aidid, noto come signore della guerra somalo. Nel 1994 Vannacci comanda uno dei due distaccamenti incursori incaricati di evacuare i civili italiani (e non solo) dal Rwanda, sconvolto dalla guerra civile (Operazione Ippocampo). È stato impiegato in Bosnia Erzegovina nella zona di Pale, sede del Parlamento della Republika Srpska e ancora dimora di Radovan Karadžić, in qualità di comandante di Compagnia incursori.

Tornato in Afghanistan, nel 2013, poco prima della transizione da ISAF a Resolute Support Mission (Operazione Sostegno Risoluto), Vannacci assume l’incarico di capo di stato maggiore delle Forze speciali della NATO (ISAF SOF HQ): si impegna nell’organizzazione dell’articolato Comando e nell’approvazione delle delicate operazioni che hanno visto il coinvolgimento di tutte le Forze speciali dell’Alleanza Atlantica. In riconoscimento dei risultati conseguiti, Vannacci è stato decorato dalle autorità statunitensi della Bronze Star Medal. Dal 2011 al 2013, Vannacci comanda il 9º Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”. In seguito, dal 2014 al 2016, ha assunto l’incarico di capo ufficio relazioni internazionali presso il III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa, dove ha consolidato la rete di cooperazione internazionale militare tra l’Italia e le nazioni alleate e amiche. Nel 2016, promosso generale di Brigata, Vannacci assume il comando della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Durante tale incarico, ha aggiornato tutte le procedure tecnico-tattiche-aviolancistiche della Grande unità.

Vannacci è stato al centro di un acceso dibattito in merito all’esposizione dei militari italiani ai rischi  durante il comando della missione Prima Parthica in Iraq (2017-2018), il Generale Vannacci ha presentato due esposti alla Procura militare e alla Procura ordinaria di Roma denunciando gravi e ripetute omissioni nella tutela della salute del contingente italiano. Sulla vicenda, il tenente colonnello incursore (Aus.) Fabio Filomeni ha pubblicato un libro dal titolo Baghdad, Ribellione di un Generale che ripercorre gli avvenimenti vissuti in prima persona durante la missione in Iraq in qualità di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione del contingente. Il generale Vannacci, nominato datore di lavoro negli ultimi mesi del suo comando in Iraq ha denunciato il pericolo di esposizione alle particelle di uranio impoverito all’interno del suo Documento di valutazione dei rischi (DVR) smentendo, de facto, i vertici del Ministero della Difesa che, per anni, hanno sostenuto l’inesistenza di tale minaccia per la salute.

Il suo posizionamento al Istituto Geografico Militare (dal quale è stato rimosso da on. Crosetto, che si è basato solo sulle distorsioni del giornale Repubblica, specializzato in questo genere di servizi) appare come una punizione. Un uomo con un tale Cursus Honorum avrebbe meritato ben altro. Forse è per questo che il generale ha voluto tirare un sasso in piccionaia, pubblicando il suo esplosivo libello?

 

Riportiamo l’ultimo capitolo del suo libro, nel quale riassume il suo pensiero

 

CAPITOLO XI

“L’ANIMALISMO”

“Gli animali da fuori guardavano il maiale e poi l’uomo, poi l’uomo e ancora il maiale: ma era ormai impossibile dire chi era l’uno e chi l’altro”.
George Orwell

Quando mi sono proposto di affrontare l’animalismo volevo trattarlo all’interno della grande
tematica dell’ambientalismo perché, effettivamente, si tratta sempre di una questione molto sentita che ha attinenza con la difesa della natura e dell’habitat che ci circonda. Riflettendo, poi, sulla particolare piega che ha preso l’argomento, sulla sua rilevanza e sull’incidenza che provoca sul Mondo al Contrario mi sono convinto di articolare la questione in un capitolo dedicato. Sì, perché da quando esiste il sapiens gli animali fanno parte della nostra vita, ne hanno sempre favorito e condizionato lo svolgimento diventando un elemento insostituibile per lo sviluppo e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Se ci pensiamo,
sono rare le opere artistiche che ci sono state tramandate sin dall’antichità che non ritraggano animali rigorosamente a fianco a uomini. I simboli stessi del potere, delle società più evolute e delle civiltà più durature sono stati presi dalla fauna: il cane che personifica il Dio Anubi degli Egizi, il toro della civiltà minoica, la lupa di Roma, l’aquila delle legioni, il leone di Venezia, i destrieri rampanti, alati o inalberati di
tante statue e araldiche equestri sparse per il mondo.
Questo a riprova dell’evidenza, se ce ne fosse la necessità, che non vi è una separazione netta tra il genere umano ed il Creato, ma l’uno appartiene all’altro e ne costituisce una parte inseparabile. Ora, il ragionamento che andrebbe approfondito si focalizza sui rapporti e sulle relazioni che è opportuno e fruttuoso stabilire tra il genere umano ed il resto dell’Universo.

L’uomo, rispetto alle altre specie, si distingue inequivocabilmente per l’intelligenza che gli ha permesso di
progredire e di guadagnarsi la vetta della piramide sia alimentare che evolutiva. Questo fattore non esime il genere umano dalla necessità di continuare a lottare quotidianamente per la sopravvivenza, come ogni animale o vegetale del pianeta, ma gli ha permesso la conquista del benessere e della prosperità anche a spese di ciò che lo circonda. Il sapiens ha la grande colpa di essere stato la specie indubbiamente dominante degli ultimi 50.000 anni la cui evoluzione si è basata sullo sfruttamento dell’ambiente e sulla capacità di piegare le leggi della Natura in proprio favore. Anche se la parola non piace è sicuramente appropriata perché l’uomo sfrutta, come lo fanno tutti gli altri esseri del pianeta che cercano di massimizzare le qualità insite nella propria natura, anche collaborando tra di loro, per prevalere e per allargare i margini della propria capacità
di sopravvivenza.

Per l’uomo, quindi, gli animali rientrano in questo costrutto e sono stati da sempre utilizzati come
fonte di cibo, di energia, di materie prime e di specifiche abilità.
Ora, nel progredito occidente il paradigma sembra cambiare e, nel pianeta sottosopra, molte anime sensibili
sono infastidite dalla distinzione tra uomo e animale perché, con l’assurgere di una mentalità falsamente inclusiva, odiosamente omogeneizzante ed ipocritamente antidiscriminatoria, si tende a limare all’inverosimile tutto ciò che evidenzia le anche palesi diversità tra un essere ed un altro. Così come uomo e donna sono uguali, e le apparenti differenze percepite non rappresentano che una mera, effimera e perversa “costruzione sociale”, le bestie assurgono ad avere caratteristiche umane, diventano portatrici di diritti a loro rigorosamente attribuiti dall’uomo, hanno una loro coscienza e cultura e vengono incluse nei nostri nuclei familiari alla stregua dei bambini.
Ce ne dobbiamo fare una ragione: l’uomo non è uguale alla donna; la bestia non è uguale all’uomo così come
un pesce non è uguale ad un mammifero, ad un uccello o ad un insetto: il comunismo cosmico non esiste e il tentativo di teorizzarlo rappresenta un’idiozia globale! Non si tratta di pareri ma di leggi dell’Universo perché, contrariamente a quanto affermano i sostenitori della parità delle forme di vita naturali, la Natura per prima è fortemente specista: mette in competizione tutte le diverse creature affinché, vincendo spietatamente quella che più si adatta alle condizioni ambientali del momento, venga garantita la
continuità della vita tramite l’evoluzione e l’adattamento. Si chiama “antagonismo” ed è quella relazione che si stabilisce quando un organismo trae beneficio dal danno che causa ad un altro essere. Esso può avvenire sia all’interno della stessa specie – sotto forma di cannibalismo, infanticidio o lotta all’ultimo sangue tra fratelli e sorelle – sia fra specie diverse – sotto la forma della predazione e del parassitismo. La verità sulle leggi della Natura a cui sono soggetti gli animali selvatici è molto diversa da quella che s’immaginano molte
persone e, soprattutto, gli animalisti più incalliti. Quello che ci viene propinato è che la fauna viva felice e serena in una sorta di Eden paradisiaco finché rimane in un ambiente non contaminato dall’uomo. In realtà, la maggior parte degli animali selvatici muore poco dopo essere venuta al mondo, e la loro vita contiene poco più del dolore della loro morte.
I pochi a sopravvivere affrontano incessantemente minacce alla loro esistenza e lesioni fisiche, malattie, malnutrizione, sete, stress psicologico e predazione fanno parte della loro esperienza quotidiana. Nelle cinque grandi estinzioni di massa che hanno preceduto l’era nella quale viviamo solo in pochi, solo gli eletti che hanno saputo adattarsi sono sopravvissuti e gli altri ci hanno tramandato il ricordo del loro passaggio attraverso i loro resti pietrificati in qualche roccia sedimentaria. Alla Natura non gliene poteva fregare
una cippa delle sofferenze e delle afflizioni che hanno preceduto la loro dipartita. Secondo le stesse leggi naturali, ogni specie tende istintivamente a conservarsi e preservarsi: i leoni non si mangiano fra di loro ma attaccano facoceri, gazzelle e zebre che sono di un’altra specie e così fanno lupi, falchi, squali e, generalmente, ogni altro essere vivente.
L’uomo non fa eccezione: tende a difendersi e, sfruttando intelligenza e collaborazione è diventato bravissimo a farlo vincendo epidemie, calamità naturali, malattie, carestie, condizioni meteorologiche estreme e, persino, concependo un sistema internazionale che, in teoria, dovrebbe evitare il flagello delle guerre. Essendo anche l’unico animale dotato di una coscienza complessa e produttore di cultura – anche quest’affermazione ha solide radici scientifiche – ha introdotto “la morale” nella propria vita ed attribuito maggiore valore alla propria esistenza rispetto a quella di tutti gli altri organismi del Creato. La cosiddetta “visione
antropocentrica” altro non è che lo sviluppo in senso intellettuale di un istinto primordiale tipico del regno
animale che tende, ai fini della sopravvivenza, a preservare la propria specie anche a scapito delle altre.
La coscienza ecologista e il rispetto della Natura e degli animali hanno proprio a che fare con questo principio
di salvezza: essendo un tutt’uno con ciò che lo circonda ed avendo finalmente sviluppato questa consapevolezza – complice anche l’esponenziale crescita della popolazione mondiale – l’uomo si è reso conto che non potrebbe sopravvivere e prosperare se degradasse oltremodo l’ecosistema. Diventa quindi cruciale raggiungere un equilibrio tra incremento del benessere umano e preservazione dell’ambiente che consente questa prosperità.
Anche per questo l’umanità, e solo essa, ha ideato i concetti di giusto e sbagliato, di etico e amorale, di bene e male e, per estensione, ha coniato le nozioni di diritti e doveri. La Natura, dal canto suo, non concepisce diritti semplicemente perché non è etica. Solo qualche giorno fa ho salvato un piccolo di merlo dagli attacchi e dalle beccate di due gazze che si erano avventate contro il nido dove il pulcino stava terminando la crescita. Una scena di una violenza e di una crudeltà raccapricciante interrotta solo dal mio brusco intercedere a difesa del giovanissimo volatile. Il mio umano sentimento di commiserazione nei confronti di un piccolo
essere ha interrotto il naturale decorso della vicenda che sarebbe terminata con la morte, probabilmente lenta e dolorosa del pennuto che sarebbe stato divorato ancora vivo. La Natura è questo, non conosce pietà né
compassione, non sa cosa siano i diritti degli infanti, dei deboli, i diritti civili o quelli sociali. Anzi, per la Natura i deboli devono perire e fare spazio ai forti e ai resistenti, ma da quando viviamo in asettici ambienti urbani e per far vedere un asino o una capra ai nostri figli li portiamo allo zoo, ci siamo dimenticati di questi semplici principi di funzionamento dell’Universo. I diritti sono stati inventati dall’uomo, sono un frutto dell’intelletto e della coscienza e non possono che essere rivolti ad un mondo prettamente umano. Un diritto è “umano, troppo umano” – per riprendere un’espressione di un famoso filosofo – e sostenere che gli animali siano soggetti morali e giuridici di diritti, a prescindere dalla decisione umana, è come negare la sfericità del pianeta. Non si può applicare un principio etico ad un sistema che non conosce morale in quanto dimensione prettamente umana. È come mettere in contrapposizione la scienza con la teologia: qualcuno lo
aveva fatto allestendo inquisizioni, roghi e patiboli con garrota. Ciò detto, possiamo comunque ammettere che l’uomo abbia delle responsabilità nei confronti del Creato riferendo queste obbligazioni sempre ad altri uomini e non alla Natura stessa. Fare divieto di bruciare una foresta non significa che la foresta abbia il diritto di non essere arsa, anche perché il rogo potrebbe avere luogo per cause prettamente naturali. Il divieto tutela il diritto di altri uomini di godere dei benefici di quella foresta. Peraltro, se noi attribuissimo valori morali agli animali, per il solo fatto di eseguire tale operazione affermeremmo, ancora una volta,
quello che gli animalisti vogliono escludere, ovvero la superiorità della specie umana sulle altre specie del Creato.
Al riguardo, pur non essendo un entusiasta nel definire l’essere umano come la creatura necessariamente
superiore a tutto ciò che lo circonda, non ho dubbi nell’attribuire un indiscusso maggiore valore alla vita umana rispetto a quella di qualsiasi altro animale. Le ventimila nutrie ed i molti tassi, volpi, e istrici, i cui numeri non sono stati “contenuti” e hanno scavato le gallerie corresponsabili del cedimento degli argini durante l’ultima alluvione della Romagna non valgono, neanche lontanamente, una sola delle 15 vite umane che purtroppo sono andate perse durante la recente calamità. A dire la verità, non valgono neanche i miliardi di danni materiali che l’esondazione ha causato e che distoglieranno fondi che avrebbero potuto
essere destinati a uomini poveri che non se la passano bene.
Se per costruire una strada che migliorerà la vita dei residenti e diminuirà l’inquinamento cittadino è necessario sloggiare i nidi di passeri e falchi e disturbare il quieto intercedere di rospi e tritoni sono convinto che l’opera debba essere realizzata, magari integrando tutti quegli
accorgimenti per mitigare l’impatto sulla fauna e sulla flora.
Mi oppongo categoricamente alla distruzione delle dighe dalle quali ricaviamo energia elettrica pulita per consentire il libero accesso a salmoni, trote, anguille ed altri pesci che risalgono la corrente. Anche perché tutta questa propaganda che asserirebbe il decadere preoccupante della
Natura a causa delle attività umane è pura ideologia basata su falsità. Nel nostro paese la condizione degli animali e delle aree verdi non è mai stata così florida e salutare negli ultimi 200 anni e le popolazioni di molte specie selvatiche sono cresciute anche per via dell’abbandono di vaste aree che sono tornate alla loro naturalità. L’Italia non è stata mai così verde negli ultimi secoli estendendo di quasi seicentomila ettari il proprio patrimonio silvestre solo negli ultimi dieci anni. Oggi, i boschi e le aree verdi coprono il 40% del territorio nazionale realizzando un incremento percentuale del 75% negli ultimi 80 anni. Volpi, cinghiali,
lupi, lepri, tassi, istrici, cervi, camosci, nutrie e una moltitudine di esseri appartenenti alla fauna selvatica
ripopola i boschi e le aree agricole superando spesso la densità biologica dell’area.
Un chiaro esempio di quanto asserito è l’invasione dei cinghiali, i cui nefandi effetti si sono manifestati tra la
fine del 2022 e l’inizio di quest’anno, e che ha fomentato un altro teatro di scontro tra l’animalismo più ideologico ed il sano buonsenso. Il fatto incontrovertibile è che la popolazione di questi ungulati in Italia è cresciuta a dismisura nell’ultimo decennio comportando malaugurate conseguenze nei settori dell’agricoltura, della salute e della sicurezza. Da tempo gli agricoltori si lamentano dei danni che le intere famiglie di maiali selvatici causano alle coltivazioni andando ad erodere i margini già minimali di
profitti che l’attività agricola garantisce. La sovrappopolazione della specie ha portato, inoltre, al
diffondersi e al moltiplicarsi di malattie, come la peste suina e la tubercolosi, che rischiano di essere trasmesse anche agli allevamenti di suini domestici che, per questa ragione, devono essere isolati totalmente dall’ambiente esterno.
Complice la grande antropizzazione del nostro territorio, inoltre, i grufolanti si riversano nei nostri centri urbani in cerca di cibo causando seri problemi sia di sicurezza sia di convivenza con la cittadinanza. Molti gli incidenti stradali, anche mortali, causati da questa ormai incontrollata fauna selvatica a cui si aggiungono occasionali ma deliberati attacchi a persone con esiti a volte fatali. Sconcertanti, poi, le immagini dei cinghiali in piena città: come a Roma dove famiglie intere di ungulati sono state riprese nella periferia Nord della metropoli a nutrirsi di rifiuti e a scorrazzare tra macchine e parcheggi. Ora, non si tratta di disquisire di
colpe perché la Natura, come ho già sostenuto, non ragiona in termini di bene e male e di colpevolezza e innocenza, ma non vi è dubbio che una soluzione al problema vada trovata. In sintesi, si tratta di controllare la popolazione e di ricondurla a numeri che siano compatibili con la “densità biologica”, cioè con l’armonico rapporto con il territorio. Si è dunque avanzata l’ipotesi di ricorrere ad abbattimenti selezionati anche attraverso l’impiego di specifiche unità all’interno delle zone urbane ovvero a cacciatori laddove
l’attività venatoria fosse consentita. Dalla carne di questi animali è possibile inoltre ricavare molti prodotti
commestibili che possono alimentare un mercato che, in periodo di crisi, potrebbe contribuire al rilancio economico ed alla diminuzione della povertà. Alla sola anticipazione di questa proposta schiere di animalisti si sono inalberate avanzando accuse di crudeltà, scarso rispetto della Natura,
inutili maltrattamenti e, addirittura, di inefficacia della tipologia di soluzione. Durante la trasmissione
“Controcorrente” la “donna lupo” Loredana Cannata, nota attrice ed attivista vegana, si lancia in una spiegazione a suo dire “scientifica”, sostenendo la futilità degli abbattimenti che sarebbero, sempre secondo questa accertata teoria, controproducenti. Secondo la sensuale artista gli animali, quando percepiscono il pericolo per la sopravvivenza della specie, incrementano esponenzialmente la loro fertilità rendendo ogni attività di soppressione vana ai fini di controllarne le popolazioni. Avanti con i “metodi etici”, dunque. Gli fa sponda l’onnipresente deputato dei verdi Angelo Bonelli che, portando ad esempio la guerra agli emù combattuta dall’esercito australiano contro il grosso volatile agli inizi del secolo a suon di raffiche di mitragliatrice, conferma l’inutilità di sistemi che si basino sull’abbattimento degli animali. Eccola la classica, ed allo stesso tempo assurda, espressione del Mondo al Contrario e del pensiero unico che si serve di tesi al limite del ridicolo per affermare l’opposto di quello che il buonsenso, la logica, l’esperienza ed il raziocinio consiglierebbero. Se fosse come sostengono i due animalisti, infatti, saremmo invasi da leoni, tigri, elefanti e rinoceronti e i mari pullulerebbero di balene e capodogli. Questi poveri esseri, ormai da decenni sterminati da cacciatori e pescatori, in base alla minaccia percepita avrebbero dovuto diventare così fertili e
riprodursi così in fretta da sovrappopolare il continente africano e i mari della terra. Anche la guerra agli emù, condotta da circa 100 soldati che hanno sparato 10.000 proiettili di mitragliatrice, non ha avuto i risultati sperati considerata l’esiguità delle risorse messe in campo rapportate all’immensità del territorio – l’intera Australia – e l’inadeguatezza delle armi impiegate. Quando gli Australiani hanno dato mano libera agli agricoltori locali incentivando la caccia ed implementando il sistema delle ricompense, la presenza del tacchinaceo è drasticamente diminuita. I due o non sapevano di cosa stessero parlando oppure, più probabilmente, facevano leva su ragionamenti e spettatori che basano i propri pensieri sulla fede piuttosto
che sulla realtà e sulla scienza, proprio come la religione animalista pretende. Anche sui metodi “etici” evocati dalla Cannata ci sarebbe poi da riflettere. Gli attivisti amici dell’attrice, infatti, si sono organizzati in gruppi da “combattimento” che si danno appuntamenti clandestini per distruggere o sabotare le gabbie di contenimento piazzate nei parchi e nelle riserve naturali al fine di arginare la sovrappopolazione di ungulati con una strategia meno cruenta dell’abbattimento. Evidentemente, anche questa metodologia non era considerata sufficientemente “etica” dagli estremisti della fauna che, probabilmente, volevano
estendere gli amati concetti di accoglienza, inclusività, parità di diritti e ius soli ai grufolanti selvatici.
Quello che invece è da evidenziare è che il rispetto degli animali e della Natura è direttamente proporzionale
alla ricchezza. Più siamo benestanti e più ci occupiamo del prossimo e abbiamo tempo per dedicarci ad altre attività che non siano attinenti alla mera sopravvivenza. Nei paesi poveri le foreste vengono bruciate per far posto ad attività produttive, a coltivazioni di palme da cui si ricava olio, a pascoli e gli animali selvatici vengono uccisi senza remore se non giudicati necessari per l’accrescimento della
prosperità. Le proteste degli animalisti si dovrebbero trasferire in Brasile, in Cina, in Bangladesh, in Cambogia in Indonesia poiché l’animalismo, come l’ambientalismo, il vegetarismo e molte altre preoccupazioni moderne, è figlio del benessere e dell’agiatezza superflua che l’uomo si è conquistato proprio anche sfruttando gli animali e la Natura. Tutte queste nuove tendenze sono possibili grazie alla ricchezza: non ho incontrato neanche un animalista in Somalia, in Iraq, in Costa d’avorio, in Libia o in Afghanistan, dove agnelli e capre vengono sgozzati per strada e dove la presenza di carne sulle tavole è solo saltuaria
e, per questo, motivo di festa. Quindi, se dovessimo assumere decisioni che facessero diminuire il nostro grado di prosperità rischieremmo di arrecare danno alla Natura stessa invece di proteggerla.
Una delle prime follie degli animalisti consiste nel cercare di far passare il concetto che gli animali, come e più degli uomini, abbiano il diritto di non essere uccisi. Nella loro visione la caccia viene proscritta e colpevolizzata come un’attività criminale, gli allevamenti si trasformano in campi di tortura, i macellai sono assimilati ai boia e, chi mangia una bistecca, una salsiccia o una coscia di pollo diventa complice
colpevole di chi razzia e fa stragi nel mondo animale.
Questo assioma ha ispirato il veganismo etico di quelli che si rifiutano di mangiare carne per una sorta di obbligo morale nei confronti della fauna. “Come fate a mangiare cadaveri?” – irrompono gli estremisti che tendono a sovvertire un principio ben chiaro a tutti gli antropologi.
L’introduzione di un’alimentazione basata sulla carne cotta è stata, infatti, all’origine dello sviluppo e dell’evoluzione dell’uomo. Sostengono anche che la carne faccia male e sia disgustosa, salvo poi cercare di ricrearne il gusto, le sembianze e la succulenza con hamburger di soia e bistecche al tofu. S’innamorano della carne sintetica senza pensare che l’ecosistema si difende preservando la catena alimentare naturale e il cibo genuino e non buttandosi fra le braccia delle multinazionali del becchime prodotto in catena
di montaggio.
Altra incoerenza è data dal principio animalista che si applicherebbe solo al genere umano, ovvero, secondo
questa setta radicale solo l’uomo dovrebbe rinunciare alla carne e ridursi a cibarsi di lattuga e cavolfiori perché orsi, lupi, barbagianni, volpi e tutta la fauna selvatica onnivora o carnivora ne sarebbe esentata. Qui traspare l’altro concetto bacato che vedrebbe l’uomo e l’attività umana negativa e deleteria a prescindere da contrapporsi, invece, a tutto quanto appartiene al regno animale che rappresenterebbe il colmo della bontà. Nella maggioranza dei casi, poi, gli incontestati amici degli animali estenderebbero questo velo di protezione solo ad alcune specie: soprattutto agli animali domestici e da cortile; probabilmente a tutti i mammiferi;
alcuni salverebbero anche gli uccelli…ma quasi nessuno se la sentirebbe di manifestare a favore degli insetti,
soprattutto se si tratta di zanzare, blatte, pulci, pappataci o larve parassite dall’apparenza ributtante. Eppure, secondo logica, anche loro, in quanto appartenenti al regno animale, sarebbero soggetti giuridici dello stesso diritto. Ho sentito parlare di alcune popolazioni del Nepal che la mattina pregano chiedendo perdono per le formiche che inconsapevolmente schiacceranno durante la giornata, ma nel ricco occidente non ho ancora incontrato seguaci di tali consorterie.

In ultimo, vi è il paradosso dei paradossi: se tutta la popolazione umana diventasse vegana, seguendo le
auspicate degli animalisti e mantenendo in vita fino alla loro morte naturale tutti gli animali della zootecnia, la superficie terrestre attualmente dedicata all’agricoltura non basterebbe più per sfamare bestie e sapiens. Eliminando gli alimenti di origine animale, inoltre, dovremmo cibarci ancora più di cereali, soia, e surrogati della carne sui quali, non a caso, le stesse Multinazionali odiate dagli ambiento-animalisti stanno investendo alacremente perché intravedono grandi guadagni in futuro. L’abbandono degli allevamenti porterebbe, inoltre, ad una perdita della biodiversità che nei pascoli si mantiene grazie al calpestio e al brucare dei
ruminanti. Al contrario di quanto sostengono gli amanti dei quadrupedi un mondo vegano non migliorerebbe affatto la condizione degli animali che morirebbero in natura per malattie, infezioni o tra mille sofferenze conseguenti all’attività predatoria ma, in compenso, ci porterebbe verso il degrado ecologico, l’incremento dell’industrializzazione e il dilagare della povertà.
Oltre al diritto incontestato alla vita, gli animali sarebbero anche titolari del diritto a non essere sfruttati o
adoperati sotto nessuna forma e per nessun motivo. Anche in questo caso, benché ormai quasi nessuno nel progredito occidente impieghi più la forza animale per il lavoro della terra, i maggiori colpevoli sarebbero quelli che praticano l’equitazione o i vetturini che si guadagnano da vivere proponendo giri in carrozza ottocentesca ai turisti che visitano le nostre città. Anche gli addestratori di cani salgono sul banco degli imputati, rei di sottoporre a sofferenze inaudite e ad angherie le povere bestiole a suon di scariche elettriche e bastonate. Un mio collaboratore, proprietario di un bellissimo e richiestissimo cane “molecolare”, è stato preso a malaparole da alcuni forsennati perché la bestiola, educatissima, lo ha aspettato senza
guinzaglio, senza muoversi e in posizione “seduta” all’ingresso di un negozio mentre lui faceva la spesa. “Chissà quali sofferenze gli hai inflitto per condizionarlo in tale modo” – lo accusavano animosamente gli attivisti. I circensi, dal canto loro, assurgerebbero al rango di aguzzini spietati poiché non solo fanno soffrire gli animali privandoli della libertà, ma strappano loro anche la dignità obbligandoli ad esibirsi in spettacoli contrari alla loro natura. Ma quelli che prendono posto nel peggiore girone dell’inferno animalista sono gli
scienziati ed i ricercatori che sperimentano farmaci salvavita e terapie contro le peggiori malattie che affliggono il genere umano impiegando cavie tratte dal regno animale. Anche gli allevamenti di bestiame sarebbero da proscriversi, poiché la sola idea di crescere degli animali al fine di alimentarsene o di sfruttarne la produzione di latte o uova avrebbe un carattere odiosamente strumentale che nessun essere del
Creato meriterebbe. Che dire poi dei produttori di pellicce e di capi in pelle che andrebbero condannati senza processo.
Peccato, tuttavia, che uno delle principali testate rosa titola: “Il guardaroba femminile dell’Autunno-Inverno 2022/2023 si veste di un tessuto principale: pelle. Letteralmente dalla testa ai piedi”.
Insomma, basta usare gli animali, noi umani la dobbiamo smettere ed è venuto il momento di lasciarli in
pace rinunciando semplicemente a tutti i vantaggi che negli ultimi 10.000 anni si sono basati anche sullo sfruttamento della fauna oltre che dell’ambiente in generale.
Il fenomeno, tuttavia, sarebbe più che trascurabile se rientrasse nella sfera della pura e libera espressione delle proprie opinioni che, proprio perché frutto del libero pensiero, meritano sempre rispetto anche quando
rappresentano delle idee inverosimili e contraddittorie. La libertà d’opinione, insieme all’uguaglianza formale, è alla base della nostra civiltà giuridica, della nostra libertà e, persino del nostro benessere, perché non avremmo avuto progresso tecnologico senza libertà di pensiero e di ricerca scientifica. D’altra parte, le pagine di alcuni social, blog e di certi siti del web sono popolate dai commenti di centinaia di sostenitori dei fatti e delle cospirazioni più assurde che spaziano dalle scie chimiche ai rapimenti da parte degli alieni
includendo il terrapiattismo e la stregoneria. Analogamente, vi sono migliaia di altri luoghi dove vengono proposti riti apotropaici per allontanare il malocchio, per vincere alla lotteria o, semplicemente, per ritrovare l’amore e, benché, queste pratiche siano semplicemente antitetiche a qualsiasi scienza, non vengono sottoposte alla censura o dichiarate fuorilegge secondo il codice dei reati d’opinione tanto caro
a certe frange politiche. Il problema, al solito, sorge quando queste minoranze vogliono imporre il proprio pensiero e le proprie convinzioni agli altri, che rappresentano la maggioranza, esercitando pressioni ed influenze con modalità ed artifici spesso violenti ed intransigenti. Ecco, allora, che si assistono alle azioni degli attivisti amanti delle bestie che bloccano macelli e mattatoi invocando “l’olocausto animale”. Nel 2018 fece scalpore il Blitz all’evento di “Woolrich John Rich & Bros” durante la settimana della Moda Uomo Milano: i deliranti fermarono la fiera manifestando contro ogni produttore che impiegasse per il
confezionamento dell’abbigliamento prodotti di origine animale. Quindi, non solo pellicce e scamosciati sarebbero da proscrivere ma guanti, cinture, borsette, divani, poltrone, la totalità delle calzature, oltre a moltissimi altri suppellettili, dovrebbero ormai essere confezionati solo con materiale sintetico, per la grande gioia del pianeta. Sempre nello stesso periodo assurse alla ribalta delle cronache l’assalto
agli allevamenti Green Hill presi di mira dagli animalisti che “liberarono” centinaia di Beagle. Poco tempo dopo il tribunale competente categorizzò l’azione come “furto aggravato e danneggiamento” condannando gli autori che l’avevano compiuta. Entriamo nell’ambito dello scabroso, poi, quando udiamo le notizie di alcune neo-mamme che, convinte delle loro idee rivoluzionarie circa l’alimentazione umana ed in contrasto con qualsiasi indicazione medica, impongono ai loro inconsapevoli neonati una dieta totalmente vegana riducendo i poppanti in fin di vita. Il carattere impositivo delle richieste, inoltre, traspare
prepotentemente dalle istanze di alcuni genitori che vorrebbero un’alimentazione vegana per i loro pargoletti
che vanno a scuola ma non sono soddisfatti della semplice possibilità di scelta fra cibi che non contengono carne…
No, vorrebbero che nessuno la mangiasse, la carne, per non fare sentire i loro piccoli vegani discriminati. Della stessa caratura la vera e propria operazione psicologica messa in atto, ormai regolarmente, a ridosso della Pasqua. Su tutte le piattaforme dominano immagini di timidi agnellini trucidati a colpi di mannaia e tendenti generare un senso di colpa collettiva e a dissuadere il pubblico più vasto ed impressionabile dal cibarsi di carne ovina, come una tradizione millenaria vorrebbe. Come se cibarsi di un agnello fosse più crudele che mangiare un’ostrica che, peraltro, s’ingerisce viva.
Non ti piace il circo? Non andarci! Ritieni che cibarsi di carne sia oltre che crudele anche insalubre?
Mangia rucola e rapanelli! Non ti piace la caccia? Non praticarla e non comprare prodotti che possano provenire dall’attività venatoria! Pensi che allevare una mucca per il suo latte sia più improponibile che confinare un cane tra quattro mura domestiche e portarlo a spasso al guinzaglio? Rimpiazza i latticini con la soia! Eh no, troppo semplice, non lo deve fare nessuno! Quello che stona, e che configura quella che può risultare una semplice e legittima scelta individuale in una religione che deve allargare i ranghi dei
suoi proseliti, è la necessità di imporre agli altri gli assiomi ideologici nei quali pochi adepti credono. Ancora più abietta è la metodologia non democratica e fortemente prevaricatoria con la quale si vorrebbe attuare la
conversione. Questo è il meccanismo che ha dato visibilità alle correnti animaliste: non il consociativismo teso a riunire chi la pensa allo stesso modo, ma l’arroganza di voler affermare la propria condotta quale unica moralmente accettabile e quindi, da estendere forzosamente a tutta la comunità. Se io non mangio carne non lo devi fare neanche tu; se io voglio portare il mio irrequieto cane al ristorante se lo deve sopportare anche il mio vicino di tavolo a cui, magari, l’alito, l’odore animale e i guaiti danno fastidio soprattutto se aveva pianificato una cena a lume di candela con la propria metà; se il proprietario di casa non intende
affittare il proprio appartamento a chi ospita animali domestici diventa un esecrabile e crudele razzista istigatore dell’odio.
Parimenti, l’antropomorfismo risiede alla base di un bieco e distorto animalismo da salotto. Se continuiamo
ad attribuire caratteristiche umane a ciò che umano non è, interpretiamo la realtà secondo un prisma che ce la fa apparire totalmente distorta e falsata. Questo fa l’animalismo religioso che vorrebbe trasformare la specie umana in una varietà vegana e che mette sullo stesso piano la vita degli animali con quella degli uomini. Sempre di più dilaga la convinzione che le bestie si sentano meglio se le mettiamo nelle condizioni di vita a cui noi umani siamo avvezzi. Cani e gatti stanno meglio in un piccolo appartamento, invece che liberi nei campi o sui tetti delle nostre case; sono più belli ed eleganti quando sfoggiano cappottini dai colori appariscenti e collari tempestati di brillanti e riteniamo raggiungano il massimo della felicità quando, invece di acquattarsi in una cuccia in cortile, si stendono sulle bianche lenzuola del nostro letto in una
camera riscaldata. Riteniamo gioiscano quando li portiamo a spasso al guinzaglio e gli concediamo di fare i loro bisogni in ristrette porzioni dei nostri agglomerati urbani, o che si compiacciano per l’ultima toelettatura alla moda che qualche zoo-igienista ha loro inflitto. Invece di accettare la realtà che l’attaccamento maniacale di alcune persone alle bestie nasca da una necessità prettamente umana che priva di molte libertà essenziali gli animali oggetto di tali premure, preferiamo attribuire sembianze umane a chi appartiene ad
un mondo totalmente differente. Anche il cosiddetto “amore per gli animali” rappresenta una sorta di rifugio e, spesso, di rimpiazzo giacché è molto più semplice dell’amore per gli uomini. Fra i membri della comunità
umana l’amore implica corresponsione, capacità di rapportarsi all’altro, comunicazione, sacrificio, possibilità di rifiuto e di tradimento oltre che essere antitetico al concetto stesso di possesso. Quello che invece da molti viene classificato come amore per gli animali nasce spesso dal possesso degli stessi che vengono comprati, acquisiti o prelevati dal loro habitat, relegati in piccoli spazi, privati di quelle che sono le loro caratteristiche essenziali – prima fra tutte la libertà – e ricondotti a vivere una vita senza alternative al cospetto del loro “amorevole” padroncino. La stessa castrazione degli animali domestici passa per un gesto amorevole agli occhi di chi non vuole accettare la diversità tra i comportamenti della fauna e quelli degli uomini. Poi c’è
l’industria, gli affari ed il commercio che entrano prepotentemente in campo per convincerci che per meglio
dimostrare l’intensità dei nostri sentimenti nei confronti delle nostre bestiole dobbiamo spendere per farle
assomigliare sempre di più a quello che noi vorremmo che fossero. Il fatturato complessivo del settore della pet economy in Italia si aggira attorno ai 3,5 miliardi di euro annuali in costante crescita e, cosa ancora più sbalorditiva, gli Italiani spendono quasi un miliardo di euro all’anno per il mantenimento dei propri cuccioli, contro i 633 milioni destinati ai bambini.
Nel Belpaese, il numero di animali domestici supera quello degli stessi abitanti. Nel privilegiato Occidente,
mentre si rinviano sempre più in là i matrimoni e si concepiscono sempre meno figli si predilige la compagnia degli amici a quattro zampe. All’avvicinarsi dell’estate, poi, si incrementano gli appelli e le giustissime invocazioni a non abbandonare gli animali, ma quello che a me fa riflettere è che le stesse animose campagne non vengono condotte per contrastare l’abbandono dei nostri anziani, padri o nonni alla loro misera sorte o, quando va bene, al loro parcheggio in squallide case di cura. Infine, nonostante la tanto
declamata crisi generale, l’impoverimento della popolazione, la crisi abitativa e la distribuzione iniqua della
ricchezza si garantiscono sempre di più agli animali tutti i beni di cui necessitano, anche e soprattutto quelli superflui: Pitti Uomo interpreta la tendenza e dedica uno spazio esclusivo agli accessori e al lifestyle pensati per gli amici pelosi che ci sono più vicini.
Lungi dal voler proscrivere o criticare un comportamento così viscerale nei confronti degli amici a
quattro zampe ne evidenzio solo la stravaganza ed il carattere abbastanza contraddittorio, ferma restando la
convinzione che qualsiasi azione che non interferisca con la libertà altrui sia assolutamente lecita e consentita. Ben vengano quindi collari-gioiello, guinzagli che sembrano cinture, abiti come cappotti sartoriali e ciotole che appaiono come stoviglie per i pelosi domestici, ma altrettanto lecito è il sentimento di molti che considerano invece svilita la dignità dell’animale stesso che, agghindato come un pagliaccio, assume le sembianze più di un oggetto da salotto che di una creatura vivente a cui la Natura ha assegnato
determinate sembianze.
Dal canto mio adoro gli animali, li rispetto dal profondo e credo che vadano difesi e preservati come esseri
del Creato, ma sono altrettanto convinto che tra la specie umana e le bestie sussistano differenze sostanziali che rientrano nell’ordine naturale delle cose: se permettete vengono prima gli uomini. Sono altrettanto convinto che se questo ragionamento lo facesse un polpo o un ragno gli octopodi e gli aracnidi sarebbero al vertice della piramide delle preoccupazioni. Gli allevamenti sono necessari, ma non per questo si devono trasformare in luoghi di sofferenza; l’abbattimento deve avvenire procurando il dolore minore per le bestie; bene la caccia, purché sia regolamentata e al solo scopo di alimentazione anche perché il cacciatore è solitamente il primo che preserva gli ecosistemi; avanti con le sperimentazioni sugli animali quando si rendono necessarie e solo dopo aver superato le prescrizioni dei comitati etici; nessuna limitazione agli
animali domestici purché non siano molesti e pericolosi, non invadano i luoghi pubblici e non interferiscano con le libertà di chi non si sente a proprio agio in prossimità dei pelosi. Nulla di strano, quindi, semplice ragionevolezza, buonsenso e moderazione che in un mondo in cui le minoranze tendono a prevaricare le moltitudini sembrano costituire sempre più una rarità.

Ringraziamenti

Il mio primo grazie va ai lettori, che si sono sorbiti questo libro
con una pazienza degna di Giobbe.
Altro sentito ringraziamento va alla mia famiglia, che ho indubbiamente trascurato per venire a capo di quest’elaborato.
Sono inoltre estremamente grato agli amici, colleghi e conoscenti che hanno accettato con entusiasmo l’idea che io scrivessi un libro e che, molto spesso, sono stati fonte d’illuminazione con i loro discorsi, con gli accesi dibattiti davanti ad una birra gelata, con i loro post inseriti sui social e con i loro scritti a cui mi sono
indegnamente ispirato.
Ultimo grazie a tutti quelli che prenderanno spunto da questi mei bislacchi pensieri e si cimenteranno insieme nel titanico sforzo di raddrizzarlo, questo mondo sottosopra, fissandolo bene con zeppe, tiranti e picchetti affinché sia molto più tenace e resistente a contrastare i continui tentativi delle minoranze che lo
preferiscono a testa in giù.