Mussolini in Giappone?

RECENSIONE DI AMBROGIO BIANCHI Angelo Paratico, storico e romanziere, nei prossimi giorni presenterà il suo ultimo libro, pubblicato dalla Gingko Edizioni e intitolato “Mussolini in Giappone”. Si tratta di un romanzo breve, contenente una notevole quantità di riferimenti storici. Viene così esposta, per la prima volta la possibilità, secondo noi non del tutto peregrina, che l’uomo ucciso a Giulino di Mezzegra, il 28 aprile 1945, non fu Benito Mussolini, ma un sosia.

Questo spiegherebbe l’incoerenza di certi suoi comportamenti, nei suoi ultimi giorni e tutti i misteri che ancora circondano le circostanze della sua fine. Pare inspiegabile la sua scarsa lucidità nel prendere decisioni dopo Como, e il fatto che il suo viso apparve sfigurato già all’arrivo a Piazzale Loreto. E non si capisce perché venne fucilato di nascosto e non portato sul lungolago di Dongo, distante solo pochi chilometri e lì giustiziato, in bella vista, assieme agli altri gerarchi e a uno sfortunato autostoppista.

A Milano, il 25 aprile 1945, Mussolini ebbe varie opportunità per mettersi in salvo, ma non volle coglierle. Prima fra tutte quella di chiudersi nel Castello Sforzesco e attendere l’arrivo degli Alleati. I partigiani non disponevano di armi pesanti e non sarebbero mai riusciti a espugnarlo. Un’altra via di fuga, caldeggiata da Vittorio Mussolini, fu una corsa sino all’aeroporto di Ghedi, per salire su di un SM79 che lo avrebbe portato in Spagna. La Svizzera, contrariamente a ciò che si crede, non fu mai un’opzione, Mussolini sapeva che non lo avrebbero mai lasciato passare.

Sul tavolo stava anche un’altra via di fuga, assai più complessa e per la quale la segretezza più assoluta era una condizione indispensabile. Questa prevedeva l’utilizzo di un sommergibile. Tale piano era stato approntato da Enzo Grossi (1908 -1960), un abilissimo e pluridecorato sommergibilista, che in Francia era stato a capo della base di Betasom. A tali preparativi accennò lo stesso comandante Grossi nelle sue memorie, ormai introvabili, intitolate “Dal Barbarigo a Dongo”.  Grossi fu un coraggioso uomo di mare che morì giovane, consumato dall’amarezza per essere stato ingiustamente accusato di aver imbrogliato le carte in cambio di due medaglie d’oro, una d’argento e due croci di guerra tedesche. Lo accusarono di aver mentito sull’affondamento di due corazzate americane, con il sommergibile Barbarigo da lui comandato, il 20 maggio 1942, al largo delle coste brasiliane.

Una commissione di ammiragli, dopo la guerra, discusse il suo caso, accusandolo di frode ma dimenticando di tenere conto dei diversi fusi orari. Come dimostrò Antonino Trizzino nel suo libro “Navi e poltrone” uscito nel 1952, Grossi affondò due grandi navi nemiche, ma non erano quelle che lui pensava. Viste dal periscopio d’un sommergibile, nel mezzo di una rischiosa azione e con il mare mosso, tutte le navi sono difficili da identificare.

Un decreto del Presidente della Repubblica lo privò delle sue decorazioni. Lui protestò con veemenza e, nell’ottobre del 1954, a causa di una sua lettera indirizzata al Presidente, fu condannato a  5 mesi e 10 giorni di reclusione per ‘vilipendio del capo dello Stato’.  Grossi aveva militato nella RSI, pur non avendo mai accettato la tessera del partito fascista ed era sposato con una donna ebrea, che non smise di praticare la propria religione. Riuscì a stento a sottrarla alle SS, che la rilasciarono, permettendole di tornare a casa dai loro bambini.

Nel capitolo XI del suo libro, intitolato “Un sommergibile per Mussolini”, Grossi racconta che Tullio Tamburini gli rivelò di essersi accordato con gli alleati giapponesi per approntare un grosso sommergibile, al fine di metterlo in salvo, e nei suoi piani sarebbe stato proprio lui a comandarlo, portandolo nel Pacifico. Tamburini accennò a Mussolini di quel piano, ma gli rispose che non ne voleva sapere. Questo fu confermato da Mussolini stesso quando incontrò Grossi, nel febbraio 1945 e lo ringraziò per i suoi sforzi. Poi aggiunse: “Non sono interessato a vivere come un uomo qualunque. Vedo che la mia stella è al tramonto e che la mia missione è conclusa…”.

L’esistenza di questi piani fu confermata anche dal vicesegretario del Partito fascista repubblicano ed ex federale di Verona, Antonio Bonino, nelle sue memorie, intitolate “Mussolini mi ha detto” uscito in Argentina nel 1950.

Questo è quanto se ne sa ma, secondo Paratico, il meccanismo continuò a muoversi, indipendentemente dalla volontà degli  ideatori e fu adattato, affidando  il comando del sommergibile oceanico Luigi Torelli a un tedesco. Dunque, Mussolini, nel primo pomeriggio del 25 aprile 1945, sarebbe stato prelevato da un’auto guidata da un diplomatico giapponese che lo portò a Trieste, dove s’imbarcò sul sommergibile Torelli, che lo attendeva nel porto, dopo che era stato fatto rientrare dal Giappone, dove si trovava e dove effettivamente ritornò. Tale sommergibile fu affondato dagli americani nel settembre 1945, davanti alla baia di Kobe. dove ancora si trova.

Mettendo da parte la storia alternativa e passando al romanzo, dobbiamo dire che questo libro si legge bene e  me ne ha ricordato un altro, avente un tema e uno sviluppo simile, che lessi alcuni anni fa. L’autore fu il grande scrittore e sinologo belga, Simon Leys (Pierre Ryckmans), ed era intitolato: “La morte di Napoleone”. Il Leys immaginava la sostituzione con un sosia al Napoleone confinato a Sant’Elena e un suo ritorno, in incognito, in Francia. Dopo varie peripezie, Napoleone è costretto a una vita da “uomo qualunque” dividendo il letto con una ortolana parigina. E, intanto, fra i cavoli e gli ortaggi, lavorava segretamente per compiere le sue vendette, ma infine s’ammalò e morì. Tutti coloro che hanno studiano l’epopea napoleonica restano colpiti da questa bizzarra fantasia del Leys, che ha il merito di aggiunge una nuova sfaccettatura, un nuovo punto di meditazione, su questa figura storica.

Il Mussolini che l’autore descrive è segnato dal lutto e dai sensi di colpa, ha frequenti crisi di pianto. Ripensando alla sua giovinezza da anarchico e squattrinato socialista, pensa che avrebbe dovuto salire sulle montagne come partigiano e poi lottare contro al tedesco invasore, invece di assecondarlo. La sua sofferenza e i suoi rimpianti vengono solo parzialmente leniti fra le mura di un antico tempio buddista, a Nikko.

L’idea dell’autore è assai originale e mai prima esplorata. E con questo scarno libro mostra di possedere una profonda  conoscenza non solo di quell’uomo, ma anche dell’uomo.

Ambrogio Bianchi

 

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John Amery, un eccentrico patriota & traditore

Fermarono John Amery (1912-1945) e la sua compagna alla periferia di Como, era la notte del 25 aprile 1945 e in quel gruppo di partigiani c’era anche Gianni Rodari. John vestiva l’uniforme nera della Muti ed era accompagnato da un’affascinante brunetta francese con i pantaloni, lei si chiamava Michelle Thomas Avevano seguito in ritardo la colonna guidata da Benito Mussolini e quel ritardo fu loro fatale. I partigiani comunisti delle brigate Garibaldi volevano fucilarli sul posto, ma si lasciarono convincere da un inglese a trasferirli nel carcere di San Vittore a Milano. Fu lì che John incontrò Alan Whicker, un giovane giornalista e cineoperatore inquadrato nell’esercito britannico. Whicker era destinato a una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, e nei giorni successivi girò le celebri immagini che mostrano i corpi di Mussolini e degli altri fucilati a Dongo che pendono dal distributore di benzina di piazzale Loreto.
Amery accolse con sollievo quel giornalista e, forse per giustificarsi, gli disse che lui non aveva mai combattuto i propri concittadini britannici, ma il bolscevismo. Whicker ammise molti anni dopo che era vero. Nei giorni successive i britannici trasferirono i due in un campo di prigionia vicino a Terni. E fu a Terni che il sergente di Scotland Yard Leonard Burt interrogò John Amery.

Secondo il rapporto di Burt, Amery non cercò mai di nascondere nulla sulle sue passate attività, ma le ammise con grande candore. Per questo pensava che lo si potesse impiccare subito senza neppure perdere tempo con un processo.
Amery raccontò a Burt che aveva combattuto in Spagna contro i bolscevichi, inquadrato fra i volontari fascisti ma questa era solo una sua fantasia che riappare di tanto in tanto in articoli che lo riguardano. A Burt, John Amery disse queste parole, che poi ripeté anche al suo processo: “In Italia parlai in italiano agli italiani seguendo la rete repubblicana e senza nessuna censura. Feci dei discorsi a Genova, Torino, Biella, Cremona e Milano. Almeno in Italia, con Mussolini che intendeva stabilire un nuovo governo a Milano, sembrò che stessimo compiendo progressi. Mussolini lo incontrai a Milano il 23 aprile 1945. Era chiaro che la situazione militare era degenerata e a quel punto la sola opzione che ci restava era di salire sulle montagne dove un grande deposito di cibo, munizioni, apparecchi radio ecc. era stato preparato. Dovevamo spostarci nella zona di Como, seguendo la tortuosa via che costeggia la Svizzera fino allo Stelvio e che scende davanti a Bergamo e Lecco e nuovamente Como. Si diceva che era una linea puramente difensiva, per mostrare al mondo che esisteva un numero sufficiente di idealisti pronti a sacrificarsi per ottenere la formazione di un grande fronte anti-comunista, uomini che non si sarebbero mai arresi senza condizioni e tanto meno ai comunisti locali. Mussolini mi offrì un posto di comando nelle Brigate Nere. Gli dissi che non potevo accettare, perché accettando mi sarei trovato nella necessità di sparare sui miei concittadini e questo io non lo volevo fare, ma gli dissi che lo avrei seguito, vestendomi in modo che la mia posizione sarebbe stata chiara. Egli pensava che il fronte sul Po avrebbe tenuto ancora per tre o quattro settimane e non mostrava fretta di abbandonare Milano, sebbene la mia opinione e quella di Colombo della Muti era che la difesa di Milano non fosse possibile. Mussolini, comunque, decise di andare a Como per dare un’occhiata e vedere che stava accadendo. Proprio per questo lasciò Milano nella notte del 25 aprile ma giunto all’autostrada di Como fui circondato da partigiani e fatto prigioniero”.

Ci pare che la storia di John Amery sia poco conosciuta in Italia e poco si sappia di cosa fece e dove visse, ma sappiamo che incontrò varie volte Benito Mussolini e che i due si parlarono per ore.
In Gran Bretagna la sua memoria è stata rispolverata con il libro di Rebecca West The meaning of Treason del 1949 in cui parla anche di lui e, in tempi a noi più vicini, grazie a una commedia scritta da Ronald Harwood e intitolata ‘An English Tragedy’ e che fu rappresentata con un certo successo nel 2008.
John Amery da giovane fu uno scapestrato che ispirò a Evelyn Waugh il carattere di Sebastian Flyte, in Brideshead Revisited.

In Gran Bretagna il padre di John Amery fu un uomo molto potente. Si chiamava Leopold S. Amery (1873 – 1955) e fu uno statista di grande peso, mentre il fratello più giovane di John, Julian Amery (1919 – 1996) seguì le orme del padre, divenendo ministro per l’aviazione dal 1962 al 1964. La vita di Samuel Amery parve, fino a un certo punto, specchiarsi in quella di Winston S. Churchill. Parlava quindici lingue, compreso l’italiano e dissero di lui che per soffiare il posto a Churchill nel 1940 difettava di due sole cose: una spanna di statura e la capacità di togliare mezz’ora dai propri discorsi. Samuel Amery e Winston Churchill s’erano conosciuti ad Harrow in circostanze singolari. Il passatempo del bulletto Churchill in quegli anni giovanili era di spingere nel fiume gli studenti più piccoli di lui ma un giorno, inavvertitamente, spinse Amery che era sì piccolo di statura, ma era anche un ginnasta perfetto, soprannominato dai compagni ‘Ercole tascabile’. A grandi bracciate Samuel uscì dall’acqua, acciuffò il futuro primo ministro inglese che aveva invano tentato la fuga scagliandolo a sua volta dentro al canale. Come Churchill, anche Samuel Amery, iniziò la sua carriera come giornalista; fu successivamente primo Lord del Mare e segretario di Stato per le colonie. Incontrò Adolf Hitler, ma non ne fu affatto impressionato, intuendone la sua natura luciferina. Oltretutto Amery aveva un segreto da proteggere, che non aveva mai rivelato a nessuno e che uscì solo dopo la sua morte: sua madre era ebrea. Non ne accennerà neppure nelle sue memorie, anche perché l’antisemitismo nella società britannica di quegli anni era fortissimo e gli avrebbe impedito di far carriera. Tutto sommato anche questo è un punto d’incontro con Churchill, che per parte di madre aveva un’antenata pellerossa ereditata dalla madre americana, alla quale accennavano furtivamente in famiglia, chiamandola ‘toro seduto’. Forse per togliersi Samuel Amery dai piedi Churchill lo convinse a diventare segretario della corona per l’India, un Paese che doveva essere la chiave per la vittoria britannica nella seconda guerra mondiale. L’ingrato compito assegnato ad Amery era di tenerla sotto al tallone di ferro britannico, impedendo una sua rivolta a favore dell’Asse, che effettivamente Mussolini cercò di favorire in tutti i modi, aiutando il leader nazionalista indiano Subhas Chandra Bose. Gli italiani diedero il proprio supporto logistico a Bose, per permettergli d’arrivare sano e salvo sino a Berlino usando falsi documenti che lo qualificavano come un nostro diplomatico. Ma con Hitler, che condivideva gli stessi pregiudizi razziali di Churchill sugli indiani, non cavò un ragno dal buco. Churchill temeva Bose al punto di aver autorizzato il SOE (Special Operations Executive) di assassinarlo, cosa che riuscirono a fare, mettendo una bomba sul suo aereo, che precipitò sopra a Taiwan. L’altro compito di Amery era di spremere tutte le possibili risorse da quel povero Paese, sia minerarie che alimentari. Una cosa che, sia pur di malavoglia, egli fece, ma ben conoscendo le conseguenze in termini di perdite di vite umane e di odio che le sue azioni avrebbero generato. Queste decisioni politiche provocarono la morte per fame di un numero di indiani che varia dai 3 ai 5 milioni. Un genocidio in stile Khmer Rouge, per il quale sia lui che Winston Churchill andrebbero postumamente processati, sia pure solo a livello storico. I dettagli di questa vicenda li si possono leggere in un eccellente libro recentemente pubblicato negli Stati Uniti: Madhusree Mukerjee Churchill’s secret war. The British Empire and the ravaging of India during world war II Basic Books, New York 2010.

John Amery fin da bambino fu un grosso problema per i genitori. La sua balia si lamentò che già a due anni era intrattabile. A cinque anni venne definito anormale dal suo insegnante. A dieci anni disegnava figure oscene sui muri di casa, per imbarazzare le domestiche. Fu uno studente ribelle, psicotico e paranoico. Il suo insegnante lo definì un imbecille. Era cocciuto e chiuso in se stesso, si lavava poco, rubava ai compagni, usava costantemente un linguaggio osceno e accusò i propri insegnanti di averlo violentato, per poi buttarla sul ridere davanti ai giudici. Portava al night club il suo orsetto e ordinava champagne anche per lui. Nel 1929 decise di tentare l’esame per l’ammissione a Oxford e, sorprendentemente, ottenne dei voti altissimi ma poi ci ripensò e non ci volle andare. Attirava le donne con i suoi tratti da attore e i suoi soldi, ma queste poi fuggivano non appena si rendevano conto che non aveva scrupoli di alcun genere. Apparentemente non aveva alcun codice morale e come disse un suo conoscente: “Non possiede neppure il senso morale di un gangster.” Cercò di far fortuna in campo cinematografico, ma rimediò un fallimento dopo l’altro. All’età di 21 anni, in Grecia, sposò una prostituta, Una Wing, dalla quale poi si separò per sposarne una seconda, che poi morì a Parigi, ubriaca e soffocata dal suo vomito e infine una terza, quella Michelle Thomas della quale accennavamo qui sopra e che sarà al suo fianco in Italia sino alla fine. Era bisessuale e da ragazzo si prostituiva con degli uomini e poi fece di tutto per contrariare il suo celebre padre, basti dire che a vent’anni aveva già 73 denunce pendenti sul proprio capo.

Nel 1936 lasciò definitivamente la Gran Bretagna per sfuggire a un fallimento e si trasferì in Francia, dove divenne amico del leader fascista francese Jacques Doriot. Girarono insieme per la Germania e per l’Italia, che John aveva già visitato da ragazzo. Allo scoppio della II guerra mondiale scrisse una lettera su un giornale francese per protestare contro i bombardamenti britannici e questa lettera fu notata dai nazisti, che sapevano bene chi fossero i suoi genitori. Lo accolsero in Germania nel 1942 e John suggerì di formare una brigata di combattenti britannici da inquadrare nelle SS e, allo stesso tempo, iniziò a far propaganda nazista a radio Berlino. I suoi tentativi di arruolare i propri concittadini, detenuti nei campi di concentramento non portarono a nulla, ma continuò con le sue trasmissioni radiofoniche. Fu solo verso la fine del 1944 che decise di scendere in Italia, dove cominciò nuovamente a parlare alla radio e dove tenne dei discorsi ai fascisti italiani. I Nazisti avevano capito che costava loro casse di champagne e caviale e in termini pratici non era utilizzabile. Non destò molta impression neppure in Italia fra I fascisti, anche perché lo pensavano una spia nazista.

Dopo l’arresto in Italia fu riportato a Londra dal sergente Burt e il processo si svolse il 28 novembre 1945. Il giudice Humphreys, dopo aver letto i sei gravissimi capi di accusa, primo fra tutti quello di alto tradimento, gli chiese se si reputava colpevole o innocente. Fra la sorpresa generale Amery scelse il suicidio, dicendosi colpevole. Humphreys, volendo essere sicuro che aveva capito bene, gli chiese se si rendeva conto delle conseguenze della sua ammissione, che lo avrebbero portavano dritto all’impiccagione. John Amery con grande freddezza rispose che lo sapeva. Il giudice si pose un fazzoletto nero sul capo e lo condannò a morte, concludendo con queste parole: “Ora sei qui di fronte a noi e ammetti d’essere un traditore del tuo re e della tua patria. Così facendo hai rinunziato al tuo diritto di vivere.”

Il processo durò otto minuti e per trovare un altro caso d’un cittadino britannico accusato di tradimento dal proprio governo e che ammette la propria colpevolezza, bisogna risalire al 1654, con un tale chiamato Somerset Fox.
I suoi genitori riuscirono a far uscire dalla prigione italiana anche la sua compagna e a farla arrivare in aereo nella capitale britannica, accogliendola come una figlia. Poi tutta la famiglia Amery incontrò John in carcere. Suo padre, che non lo vedeva da cinque anni, lo trovò completamente cambiato. Non era più un play boy, ma un uomo maturato dalla sofferenza e dalla guerra. Restarono tutti impressionati dalla sua maturità, dal suo buon umore e dalla sua pacatezza molto ‘British’. Suo padre tornò poi a trovarlo varie volte in carcere e i due si riconciliarono. Parlarono di Chandra Bose e di Mussolini e John gli passò un messaggio che gli aveva affidato il Duce. Mussolini gli aveva detto che se Samuel Amery fosse stato ministro degli esteri forse si sarebbe trovata la via per una pace negoziata. Nel dire addio al figlio, abbracciandolo, Samuel Amery gli disse che ammirava il coraggio che stava dimostrando nell’andare incontro alla morte. Lui risposta che John gli diede lo scosse profondamente, gli disse semplicemente: “Ma papà, io sono tuo figlio!”

Jan Smuts, primo ministro del Sud Africa, inviò un messaggio al primo ministro britannico Clement Attlee il 14 dicembre 1945, chiedendo clemenza e scrivendo: “Abbiamo avuto casi simili in Sud Africa, nei quali non è mai stata inflitta la pena capitale, dato che tali azioni sono più di carattere ideologico che criminale. Sono commosso, stimo Leo Amery e sua moglie. Entrambi meritano il rispetto della Nazione.” Alte parole che non sortirono l’effetto sperato. Fu impiccato la mattina del 19 dicembre 1945 nella prigione di Wandsworth dal boia Albert Pierrepoint. Suo fratello Julian, in alta uniforme e con le decorazioni appuntate sul petto, attese fuori dal carcere. I suoi genitori, a casa, leggevano la Bibbia. Quando John Amery vide entrare il boia, gli disse con humour tipicamente anglosassone: “Ah, signor Pierrepoint, ho sempre desiderato conoscerla, ma certamente non in tali circostanze!”.
Si strinsero la mano e Pierrepoint poi dichiarò che John Amery era stato: “L’uomo più coraggioso che mi sia mai capitato d’impiccare. Ci siamo parlati a lungo ed ebbi la sensazione che ci conoscessimo da una vita.” Questo racconto, che il boia fece a un giornalista, fu colpito da censura e il governo britannico ne proibì la pubblicazione.

Si dice che la madre di John non riuscì più a sorridere da quel giorno e che le fu proibito di portare fiori sulla sua tomba, posta dentro al carcere. Il vecchio Samuel Amery compose un commovente epitaffio per suo figlio. Eccolo:

At end of wayward days he found a cause
“T’was not his Country’s” – Only time can tell
If the defiance of our ancient laws
Was treason o foreknowledge. He sleeps well.

Al termine di giorni tortuosi trovò una causa.
“Non era quella la sua Patria” – Solo il tempo potrà dire,
se il disprezzo delle nostre leggi antiche,
fu tradimento o chiaroveggenza. Dorme bene.

Solo nel 1966 permisero a suo fratello di riavere le sue spoglie mortali togliendole dal cimitero del carcere e poi di cremarle. Le ceneri di John Amery, seguendo la sua volontà, furono sparse in Francia.