Le memorie di Edvige Mussolini

Edvige Mussolini (1888-1952) ha un posto prominente nel libro di Cristina Petit e di Albert Szego “A casa di Donna Mussolini”, pubblicato da Solferino nel 2023. Un libro bellissimo e commovente, che sta vendendo bene in Italia, come merita. Vi si racconta l’ospitalità offerta da Edvige a una famiglia di ebrei, gli Szego. Il terzo inquilino in quella abitazione era una sezione delle SS germaniche. Edvige mai salì quei pochi scalini e mai li denunciò. Suo fratello, Benito, informato dai servizi segreti fascisti, sapeva che li stava proteggendo e le disse: “La purità della razza in questo popolo sul quale sono passate tante invasioni e che ha assorbito tante genti dai quattro punti cardinali, non ha senso…So che tu e altre persone della tua famiglia aiutate gli ebrei, e non me ne dispiace, e penso che così potrete constatare l’assoluta labilità delle nostre leggi razziali”. Nella parte finale del libro “A casa di Donna Mussolini” leggiamo che, finita la guerra, gli Szego lessero il libro di memorie di Edvige, uscito postumo, con il titolo “Mio fratello, Benito”. E seppero del suo grande strazio materno: “Il 28 aprile 1945, giorno della morte di Benito Mussolini, veniva assassinato dai partigiani, a Rovetta, in comune di Bergamo, il mio diletto figliuolo Pino, appena ventenne, e a Padova, nello stesso giorno, sempre dai partigiani, il marito della mia prima figliuola, Pier Giovanni Ricci Crisolini”.
Dal 1957 non era più stato ristampato e ci ha pensato la Gingko Edizioni di Verona, a rimetterlo in circolazione. Vi si trovano molte informazioni relative alla famiglia Mussolini e sulle attività di socialista di primo piano del loro padre, Alessandro, che ai suoi bambini sul far della sera, invece che fiabe, leggeva pagine del “Capitale” di Karl Marx, di Nietzsche e di Sorel, e pronosticava per il suo primogenito un futuro da Primo ministro. Ecco come Edvige ci descrive il padre: “Alessandro Mussolini, nostro padre, non era certo un ideologo e nemmeno quello che si dice un uomo colto. Ebbe però cervello e passione e fu un autentico ‘proletario’, non tanto per le sue condizioni economiche che andarono soggette ad alti e bassi, quanto per il suo atteggiamento verso la società e lo Stato di allora in Italia. Contro l’una e contro l’altro egli lottò infatti, per così dire, senza esclusione di colpi, perché si sentiva proletario in Italia con la stessa mescolanza di profondo orgoglio e di esasperata ribellione con cui suo figlio, dopo aver capeggiato l’ala rivoluzionaria del partito socialista, si sentì, più tardi, italiano nel mondo. Questi furono, secondo me, i ‘valori primi’ trasmessi dal padre al figlio: il quale sapeva molto bene da dove gli venivano il suo tono perentorio e deciso e il suo impeto. Quando scrive di suo padre e dei socialisti di allora, gli ‘internazionalisti’, considerati come delinquenti ‘da segregare’, che usavano riunirsi nella casa di Alessandro Mussolini per uno scambio di idee, di affetti e di dolori, egli ha gli accenti commossi di chi torna in contatto con le proprie origini”.
Dopo la scomparsa di Arnaldo Mussolini, il 21 dicembre 1931: “In un pomeriggio di cruda e fitta nebbia, tornando egli, in Milano, dalla stazione alla sua casa (mi aveva accompagnata al treno; io avevo trascorso alcune settimane ospite sua e ora tornavo in Romagna) la morte lo abbatté” e, dunque, come racconta Edvige, del “vecchio ceppo” rimasero solo lei e Benito e per questo motivo il loro rapporto divenne strettissimo. Edvige non crede che Matteotti fu fatto uccidere dal fratello e questo punto lo accettò anche colui che fu da principio il suo più coraggioso accusatore: il giornalista Carlo Silvestri. Non crede neppure nella veracità dei “Diari” di Galeazzo Ciano, perché sostiene di apparire in un colloquio che ebbero e che lei dichiara senz’altro inventato. Si tratta di una nota che figura al 13 aprile 1942, dove Ciano parla di un lungo colloquio con Edvige. Dice che lei gli parlò della storia con Clara Petacci e di possedere prove che la sua famiglia stesse approfittando di questa relazione, sollevando molto scandalo. Edvige promette di affrontare suo fratello. Un altro colloquio, fra di loro, datato al 29 ottobre 1942, nel quale Edvige si dice preoccupata per la situazione interna e vedrebbe bene un incarico di Ciano come ministro degli Interni, che lui però non gradisce. Ecco, questo sarebbe tutto falso, secondo Edvige.
Alla fine del libro si discute del ritrovamento dei diari di Benito Mussolini, a Vercelli, negli anni Cinquanta. Erano dei falsi, e furono proprio quelli che poi trarranno in inganno anche Marcello Dell’Utri, che ne promosse la stampa. I veri diari esistevano ed erano stati per anni in custodia a casa di Edvige. Purtroppo, andarono perduti, come molte delle lettere che i due fratelli scambiarono, durante il trambusto dell’aprile 1945. “Mio fratello Benito” di Edvige Mussolini è un libro che andava ristampato, perché mostra l’altra faccia del duce del fascismo, quella familiare e umana. Sua sorella, Edvige, mostra di aver capito le ragioni profonde di alcune decisioni, altrimenti inspiegabili, da lui prese.

Ambrogio Bianchi

Per ordinarne una copia, scriveteci: direzione@gingkoedizioni.it

 

Confucio, per una società umana e giusta

Adottare Confucio per salvare la nostra civiltà, come suggerì Leibnitz?

Ecco una copertina e un titolo che non passano inosservati. Una foto con una sfilata di cinque presidenti statunitensi al funerale di Richard Nixon, il 27 aprile 1994, e il titolo: “Un manuale per il perfetto statista” edito da Gingko Edizioni di Verona.
Si tratta di una nuova edizione, commentata, del Lun Yu di Confucio (501-476 a.C.), noto anche come “Analecta” e “I dialoghi” e che, per millenni, è stato alla base dell’educazione di statisti, in Cina, Corea, Giappone e Vietnam, ed è stato descritto anche come “il libro più influente nella storia del genere umano” e il “libro moderno per eccellenza” contenente “il più antico ritratto intellettuale e spirituale di un uomo”.
Questo libro fece molta impressione sulle più brillanti menti europee, dopo che fu scoperto e tradotto in latino dai grandi padri gesuiti, missionari in Cina, ed ebbe anche un certo peso sull’evoluzione liberale dei governi europei nel XVIII secolo. Voltaire (1694-1778) dichiarò di essere un confuciano in materia di etica e di politica e Leibniz (1646-1716) arrivò a scrivere della possibilità di invitare missionari confuciani in Europa, per civilizzarla.

Tendiamo a vedere in Confucio una sorta di profeta, mentre egli fu un laico e tenne una scuola per aspiranti leader politici, ai quali passare il frutto del proprio studio, della propria esperienza e della propria sagacia. Pare un libro attuale e, dunque, profetico, ma solo perché esplora l’animo umano e, noi uomini moderni, siamo identici agli uomini di tremila anni fa, condividiamo le stesse passioni, le stesse paure, le stesse aspirazioni.

Il cancelliere tedesco Helmuth Kohl dichiarò che questo fu il suo ‘livre de chevet’ nei giorni drammatici della riunificazione fra Germania Est e Germania Ovest, nel 1990. Da allora è cambiato il mondo, ma questo testo pare essersi evoluto con il mondo.
Uno studioso confuciano ha recentemente dichiarato al New York Times: “Tutta la conoscenza umana è contenuta in questo libro. Se lo si legge con attenzione, non ne serve un altro”. Una affermazione, forse, esagerata, ma, senza dubbio, questo libro va messo fra i dieci più importanti nella storia dell’umanità.
Ogni suo capitolo è composto da una serie di detti, in un ordine che pare coerente, ma è piuttosto casuale. Il testo è chiaramente una silloge di diversi passi che sono stati raccolti dai suoi discepoli. Resta difficile stabilire quali parti del testo riportino davvero le parole di Confucio e quali appartengano invece a leggende cresciute intorno alla sua figura, dopo la sua morte. Eppure, certe frasi “bucano la carta” un po’ come per il “Memoriale di Sant’Elena” di Emmanuel de Las Cases, dove si può intuire quando ci parla Napoleone e quando, invece, lo fa il mediocre autore del libro.
La forma casuale del testo e il mistero sulle sue origini rendono il Lun Yu uno dei testi più emozionanti del mondo. Veniva fatto mandare a memoria ai bambini, pensando che poi, nel corso della loro vita, avrebbero capito il significato profondo di queste parole, forse nel momento del pericolo o nel momento del bisogno. Essenzialmente, il libro è imperniato sulla definizione dell’uomo superiore, chun tzu in cinese, ovvero, lo statista, il ministro, il sindaco, il capo villaggio che opereranno con onestà e dedizione per realizzare il bene comune. Si riferisce a chiunque, uomo o donna, che voglia agire per il bene della sua piccola o grande comunità. Confucio disapprova con forza chi vorrebbe separare moralità da etica, politica da onestà, le leggi dalla giustizia.

Nell’anno 551 prima di Cristo, nello stato di Lu, che occupava una parte dell’odierna provincia cinese dello Shandong, vide la luce uno straordinario bambino, che ancor oggi viene definito il “Saggio delle diecimila generazioni” e che noi chiamiamo Confucio. Il nome Confucio deriva dalla latinizzazione di K’ung fu-tzu o Fuzi, ossia Maestro Kung. I suoi discepoli lo chiamavano Maestro o più familiarmente Chung-ni.
I dati certi concernenti la sua vita sono pochi; gli unici testi attendibili ai fini biografici sono: il Lun Yu; il Menciù, scritto da Meng K’e (372-289 a.C.) e il Tso Chuan, un bollettino storico che narra gli avvenimenti dal 722 al 468 a.C.

Dotato di una intelligenza finissima e di grande capacità introspettiva, a trent’anni era già celebre per la sua sapienza in campo storico e morale, tant’è che nel 518 a.C. Meng Hsi-tzu, capo di una delle tre prominenti famiglie di Lu, sul suo letto di morte, raccomandò ai due figli di studiare alla sua scuola.
Nel 500 a.C. divenne un magistrato e fu poi promosso ministro della Giustizia, ma a causa di intrighi e gelosie, nel 497 a.C. fu costretto a lasciare lo Stato, seguito da alcuni discepoli, alla ricerca di un duca disposto ad affidargli incarichi di responsabilità nel proprio governo. La ricerca risultò vana. Nel 484 a.C. venne richiamato a Lu dal nuovo duca, quando aveva ormai 67 anni, ma fu costretto a dedicarsi all’insegnamento e al riordino di antichi testi, tralasciando la politica attiva. Nel 482 a.C. perse il suo unico figlio maschio e l’anno successivo il suo discepolo più brillante, Yen Yuan. Nel 479 a.C. anche Confucio morì, all’età di settantadue anni, convinto di non avere raggiunto lo scopo della sua esistenza: dare ordine e pace alla società nella quale viveva.

Un dettaglio notevole. Scrisse anche un libro sulla musica, che è andato perduto. E vogliamo qui rimarcare che nessun grande filosofo del passato ha mai attribuito tanta importanza alla musica, mentre egli ne accenna spesso nel libro, definendola uno strumento essenziale per la formazione dell’uomo e per la sua istruzione.

Il Primo Imperatore, Qin Shi Huang (259-210 a.C.) ordinò di bruciare tutti i documenti che si trovavano negli archivi, tranne quelli che lodavano gli imperatori. Tra gli obiettivi principali di questo ordine c’erano tutti i libri confuciani. Per fortuna non riuscì a distruggere tutto quanto era stato scritto in passato e certi testi sopravvissero, nascosti nei muri delle case.

Hollywood road, a Hong Kong, è nota in tutto il mondo per i negozi di antiquariato e dove si sono fatte delle scoperte straordinarie. Una di queste è accaduta pochi anni fa e potrebbe rivoluzionare lo studio dei classici cinesi. Su una bancarella furono ritrovati dei listelli di bambù, con dipinti degli ideogrammi, precedenti alle distruzioni ordinate dal Primo Imperatore. Erano inglobati entro a del fango indurito e provengono dal saccheggio di una tomba di uno storico, vissuto nello Stato di Chu, durante il periodo degli Stati Combattenti, intorno al 300 a.C. Si tratta di circa 2.500 striscioline di bambù, compresi i frammenti, alcuni lunghi fino a 46 centimetri. Didi Kirsten Tatlow, una ricercatrice americana, ha scritto sul New York Times: “I manoscritti che ora si trovano presso l’università di Tsinghua, a Pechino, comprendono la prima copia conosciuta del I Ching, l’antico libro di divinazione; poesie finora sconosciute del Libro dei Canti; alcune frasi di Confucio che non si trovano nelle versioni successive degli Analecta; la versione più antica del Dao De Jing di Laozi, e dei capitoli finora sconosciuti che includono una descrizione di un sistema politico alternativo al governo dinastico, che ha dominato la Cina per migliaia di anni: per esempio l’abdicazione per il bene comune, come miglior mezzo di successione politica. Un sovrano si dovrebbe ritirare dalla carica che occupa e lasciare il potere a una persona meritevole, che in teoria potrebbe essere chiunque. Questa idea dell’abdicazione come mezzo di successione politica era troppo minacciosa per le dinastie successive per poter sopravvivere”.

Davvero sorprendente anche la dedica che apre questo originale libro: “A Giorgia Meloni, nuova Teodolinda”.

Ambrogio Bianchi

 

 

 

 

 

Il sommergibile Cappellini reso celebre dal film “Il Comandante” riposa nelle acque giapponesi

Sia il Cappellini, dove servì il comandante Todaro, che il Torelli, che secondo Angelo Paratico, portò Mussolini in Giappone (dopo che a Dongo arrestarono un suo sosia) riposano in acque giapponesi. Destino strano che li accomuna. Con un equipaggio misto italo-giapponese continuarono a combattere nel Pacifico e R. Sanzio, con le mitragliere Breda da 13,2mm riuscì ad abbattere, il 22 agosto 1945, un bimotore da bombardamento USA a Kōbe.

Dopo la resa del Giappone i pochi marinai italiani superstiti vennero imprigionati dagli americani, mentre il Cappellini venne affondato nelle acque al largo di Kōbe il 16 aprile 1946. Il Torelli fu affondato dagli americani nel canale fra Honshu e Shikoku. Il Cappellini e il Torelli furono le uniche unità militari italiane ad aver combattuto sotto a tutte e tre le bandiere dell’Asse, Italia, Germania e Giappone.

Il sottomarino Comandante Cappellini.
Sommergibile Luigi Torelli

 

 

 

Il caso del Generale Roberto Vannacci. Il ministro Crosetto dovrebbe scusarsi con lui e, pur non condividendo tutto, difenderlo dalle stupidaggini scritte da Repubblica. Qui un estratto dal suo libro “Il Mondo al Contrario”.

Contra Verbosos Noli Contendere Verbis: Sermo Datur Cunctis, Animi Sapientia Paucis.
(Non perdere tempo a combattere con gli sciocchi: la parola è concessa a tutti, ma la sapienza a pochi) Marco Porcio Catone. (Lo stesso di “Carthago Delenda Est”).

 

Il ministro Crosetto dovrebbe scusarsi con il Generale Vannacci e, pur non condividendo tutto, difenderlo dalle stupidaggini scritte da Repubblica.

Il generale Roberto Vannacci nasce a La Spezia, 20 ottobre 1968, ha studiato all’Accademia di Modena,
già comandante della Task Force 45 durante la Guerra in Afghanistan. Ha ricoperto i ruoli di comandante del 9º Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin”, comandante della Brigata Paracadutisti “Folgore” e comandante del contingente italiano nella Guerra civile in Iraq. Il suo medagliere è imponente.

Vannacci ha tre lauree di livello magistrale: in Scienze Strategiche (conseguita presso l’Università degli Studi di Torino), in Scienze Internazionali e Diplomatiche (presso l’Università di Trieste) e in Scienze Militari (presso l’Università di Bucarest). Ha conseguito, inoltre, il Master universitario di II livello in Scienze Strategiche presso l’Università di Torino e il Master di II livello in Studi Internazionali Strategico-Militari in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano e l’Università LUISS di Roma.

Sempre al comando di unità di Forze speciali, Vannacci ha partecipato a numerose operazioni militari. Da comandante di distaccamento operativo incursori prende parte alle operazioni in Somalia, Rwanda e Yemen. In particolare, durante la missione in Somalia, ha partecipato a operazioni speciali (denominate “Hillac”) finalizzate al sequestro dei depositi di armi e alla neutralizzazione dei miliziani di Mohammed Farah Aidid, noto come signore della guerra somalo. Nel 1994 Vannacci comanda uno dei due distaccamenti incursori incaricati di evacuare i civili italiani (e non solo) dal Rwanda, sconvolto dalla guerra civile (Operazione Ippocampo). È stato impiegato in Bosnia Erzegovina nella zona di Pale, sede del Parlamento della Republika Srpska e ancora dimora di Radovan Karadžić, in qualità di comandante di Compagnia incursori.

Tornato in Afghanistan, nel 2013, poco prima della transizione da ISAF a Resolute Support Mission (Operazione Sostegno Risoluto), Vannacci assume l’incarico di capo di stato maggiore delle Forze speciali della NATO (ISAF SOF HQ): si impegna nell’organizzazione dell’articolato Comando e nell’approvazione delle delicate operazioni che hanno visto il coinvolgimento di tutte le Forze speciali dell’Alleanza Atlantica. In riconoscimento dei risultati conseguiti, Vannacci è stato decorato dalle autorità statunitensi della Bronze Star Medal. Dal 2011 al 2013, Vannacci comanda il 9º Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”. In seguito, dal 2014 al 2016, ha assunto l’incarico di capo ufficio relazioni internazionali presso il III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa, dove ha consolidato la rete di cooperazione internazionale militare tra l’Italia e le nazioni alleate e amiche. Nel 2016, promosso generale di Brigata, Vannacci assume il comando della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Durante tale incarico, ha aggiornato tutte le procedure tecnico-tattiche-aviolancistiche della Grande unità.

Vannacci è stato al centro di un acceso dibattito in merito all’esposizione dei militari italiani ai rischi  durante il comando della missione Prima Parthica in Iraq (2017-2018), il Generale Vannacci ha presentato due esposti alla Procura militare e alla Procura ordinaria di Roma denunciando gravi e ripetute omissioni nella tutela della salute del contingente italiano. Sulla vicenda, il tenente colonnello incursore (Aus.) Fabio Filomeni ha pubblicato un libro dal titolo Baghdad, Ribellione di un Generale che ripercorre gli avvenimenti vissuti in prima persona durante la missione in Iraq in qualità di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione del contingente. Il generale Vannacci, nominato datore di lavoro negli ultimi mesi del suo comando in Iraq ha denunciato il pericolo di esposizione alle particelle di uranio impoverito all’interno del suo Documento di valutazione dei rischi (DVR) smentendo, de facto, i vertici del Ministero della Difesa che, per anni, hanno sostenuto l’inesistenza di tale minaccia per la salute.

Il suo posizionamento al Istituto Geografico Militare (dal quale è stato rimosso da on. Crosetto, che si è basato solo sulle distorsioni del giornale Repubblica, specializzato in questo genere di servizi) appare come una punizione. Un uomo con un tale Cursus Honorum avrebbe meritato ben altro. Forse è per questo che il generale ha voluto tirare un sasso in piccionaia, pubblicando il suo esplosivo libello?

 

Riportiamo l’ultimo capitolo del suo libro, nel quale riassume il suo pensiero

 

CAPITOLO XI

“L’ANIMALISMO”

“Gli animali da fuori guardavano il maiale e poi l’uomo, poi l’uomo e ancora il maiale: ma era ormai impossibile dire chi era l’uno e chi l’altro”.
George Orwell

Quando mi sono proposto di affrontare l’animalismo volevo trattarlo all’interno della grande
tematica dell’ambientalismo perché, effettivamente, si tratta sempre di una questione molto sentita che ha attinenza con la difesa della natura e dell’habitat che ci circonda. Riflettendo, poi, sulla particolare piega che ha preso l’argomento, sulla sua rilevanza e sull’incidenza che provoca sul Mondo al Contrario mi sono convinto di articolare la questione in un capitolo dedicato. Sì, perché da quando esiste il sapiens gli animali fanno parte della nostra vita, ne hanno sempre favorito e condizionato lo svolgimento diventando un elemento insostituibile per lo sviluppo e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Se ci pensiamo,
sono rare le opere artistiche che ci sono state tramandate sin dall’antichità che non ritraggano animali rigorosamente a fianco a uomini. I simboli stessi del potere, delle società più evolute e delle civiltà più durature sono stati presi dalla fauna: il cane che personifica il Dio Anubi degli Egizi, il toro della civiltà minoica, la lupa di Roma, l’aquila delle legioni, il leone di Venezia, i destrieri rampanti, alati o inalberati di
tante statue e araldiche equestri sparse per il mondo.
Questo a riprova dell’evidenza, se ce ne fosse la necessità, che non vi è una separazione netta tra il genere umano ed il Creato, ma l’uno appartiene all’altro e ne costituisce una parte inseparabile. Ora, il ragionamento che andrebbe approfondito si focalizza sui rapporti e sulle relazioni che è opportuno e fruttuoso stabilire tra il genere umano ed il resto dell’Universo.

L’uomo, rispetto alle altre specie, si distingue inequivocabilmente per l’intelligenza che gli ha permesso di
progredire e di guadagnarsi la vetta della piramide sia alimentare che evolutiva. Questo fattore non esime il genere umano dalla necessità di continuare a lottare quotidianamente per la sopravvivenza, come ogni animale o vegetale del pianeta, ma gli ha permesso la conquista del benessere e della prosperità anche a spese di ciò che lo circonda. Il sapiens ha la grande colpa di essere stato la specie indubbiamente dominante degli ultimi 50.000 anni la cui evoluzione si è basata sullo sfruttamento dell’ambiente e sulla capacità di piegare le leggi della Natura in proprio favore. Anche se la parola non piace è sicuramente appropriata perché l’uomo sfrutta, come lo fanno tutti gli altri esseri del pianeta che cercano di massimizzare le qualità insite nella propria natura, anche collaborando tra di loro, per prevalere e per allargare i margini della propria capacità
di sopravvivenza.

Per l’uomo, quindi, gli animali rientrano in questo costrutto e sono stati da sempre utilizzati come
fonte di cibo, di energia, di materie prime e di specifiche abilità.
Ora, nel progredito occidente il paradigma sembra cambiare e, nel pianeta sottosopra, molte anime sensibili
sono infastidite dalla distinzione tra uomo e animale perché, con l’assurgere di una mentalità falsamente inclusiva, odiosamente omogeneizzante ed ipocritamente antidiscriminatoria, si tende a limare all’inverosimile tutto ciò che evidenzia le anche palesi diversità tra un essere ed un altro. Così come uomo e donna sono uguali, e le apparenti differenze percepite non rappresentano che una mera, effimera e perversa “costruzione sociale”, le bestie assurgono ad avere caratteristiche umane, diventano portatrici di diritti a loro rigorosamente attribuiti dall’uomo, hanno una loro coscienza e cultura e vengono incluse nei nostri nuclei familiari alla stregua dei bambini.
Ce ne dobbiamo fare una ragione: l’uomo non è uguale alla donna; la bestia non è uguale all’uomo così come
un pesce non è uguale ad un mammifero, ad un uccello o ad un insetto: il comunismo cosmico non esiste e il tentativo di teorizzarlo rappresenta un’idiozia globale! Non si tratta di pareri ma di leggi dell’Universo perché, contrariamente a quanto affermano i sostenitori della parità delle forme di vita naturali, la Natura per prima è fortemente specista: mette in competizione tutte le diverse creature affinché, vincendo spietatamente quella che più si adatta alle condizioni ambientali del momento, venga garantita la
continuità della vita tramite l’evoluzione e l’adattamento. Si chiama “antagonismo” ed è quella relazione che si stabilisce quando un organismo trae beneficio dal danno che causa ad un altro essere. Esso può avvenire sia all’interno della stessa specie – sotto forma di cannibalismo, infanticidio o lotta all’ultimo sangue tra fratelli e sorelle – sia fra specie diverse – sotto la forma della predazione e del parassitismo. La verità sulle leggi della Natura a cui sono soggetti gli animali selvatici è molto diversa da quella che s’immaginano molte
persone e, soprattutto, gli animalisti più incalliti. Quello che ci viene propinato è che la fauna viva felice e serena in una sorta di Eden paradisiaco finché rimane in un ambiente non contaminato dall’uomo. In realtà, la maggior parte degli animali selvatici muore poco dopo essere venuta al mondo, e la loro vita contiene poco più del dolore della loro morte.
I pochi a sopravvivere affrontano incessantemente minacce alla loro esistenza e lesioni fisiche, malattie, malnutrizione, sete, stress psicologico e predazione fanno parte della loro esperienza quotidiana. Nelle cinque grandi estinzioni di massa che hanno preceduto l’era nella quale viviamo solo in pochi, solo gli eletti che hanno saputo adattarsi sono sopravvissuti e gli altri ci hanno tramandato il ricordo del loro passaggio attraverso i loro resti pietrificati in qualche roccia sedimentaria. Alla Natura non gliene poteva fregare
una cippa delle sofferenze e delle afflizioni che hanno preceduto la loro dipartita. Secondo le stesse leggi naturali, ogni specie tende istintivamente a conservarsi e preservarsi: i leoni non si mangiano fra di loro ma attaccano facoceri, gazzelle e zebre che sono di un’altra specie e così fanno lupi, falchi, squali e, generalmente, ogni altro essere vivente.
L’uomo non fa eccezione: tende a difendersi e, sfruttando intelligenza e collaborazione è diventato bravissimo a farlo vincendo epidemie, calamità naturali, malattie, carestie, condizioni meteorologiche estreme e, persino, concependo un sistema internazionale che, in teoria, dovrebbe evitare il flagello delle guerre. Essendo anche l’unico animale dotato di una coscienza complessa e produttore di cultura – anche quest’affermazione ha solide radici scientifiche – ha introdotto “la morale” nella propria vita ed attribuito maggiore valore alla propria esistenza rispetto a quella di tutti gli altri organismi del Creato. La cosiddetta “visione
antropocentrica” altro non è che lo sviluppo in senso intellettuale di un istinto primordiale tipico del regno
animale che tende, ai fini della sopravvivenza, a preservare la propria specie anche a scapito delle altre.
La coscienza ecologista e il rispetto della Natura e degli animali hanno proprio a che fare con questo principio
di salvezza: essendo un tutt’uno con ciò che lo circonda ed avendo finalmente sviluppato questa consapevolezza – complice anche l’esponenziale crescita della popolazione mondiale – l’uomo si è reso conto che non potrebbe sopravvivere e prosperare se degradasse oltremodo l’ecosistema. Diventa quindi cruciale raggiungere un equilibrio tra incremento del benessere umano e preservazione dell’ambiente che consente questa prosperità.
Anche per questo l’umanità, e solo essa, ha ideato i concetti di giusto e sbagliato, di etico e amorale, di bene e male e, per estensione, ha coniato le nozioni di diritti e doveri. La Natura, dal canto suo, non concepisce diritti semplicemente perché non è etica. Solo qualche giorno fa ho salvato un piccolo di merlo dagli attacchi e dalle beccate di due gazze che si erano avventate contro il nido dove il pulcino stava terminando la crescita. Una scena di una violenza e di una crudeltà raccapricciante interrotta solo dal mio brusco intercedere a difesa del giovanissimo volatile. Il mio umano sentimento di commiserazione nei confronti di un piccolo
essere ha interrotto il naturale decorso della vicenda che sarebbe terminata con la morte, probabilmente lenta e dolorosa del pennuto che sarebbe stato divorato ancora vivo. La Natura è questo, non conosce pietà né
compassione, non sa cosa siano i diritti degli infanti, dei deboli, i diritti civili o quelli sociali. Anzi, per la Natura i deboli devono perire e fare spazio ai forti e ai resistenti, ma da quando viviamo in asettici ambienti urbani e per far vedere un asino o una capra ai nostri figli li portiamo allo zoo, ci siamo dimenticati di questi semplici principi di funzionamento dell’Universo. I diritti sono stati inventati dall’uomo, sono un frutto dell’intelletto e della coscienza e non possono che essere rivolti ad un mondo prettamente umano. Un diritto è “umano, troppo umano” – per riprendere un’espressione di un famoso filosofo – e sostenere che gli animali siano soggetti morali e giuridici di diritti, a prescindere dalla decisione umana, è come negare la sfericità del pianeta. Non si può applicare un principio etico ad un sistema che non conosce morale in quanto dimensione prettamente umana. È come mettere in contrapposizione la scienza con la teologia: qualcuno lo
aveva fatto allestendo inquisizioni, roghi e patiboli con garrota. Ciò detto, possiamo comunque ammettere che l’uomo abbia delle responsabilità nei confronti del Creato riferendo queste obbligazioni sempre ad altri uomini e non alla Natura stessa. Fare divieto di bruciare una foresta non significa che la foresta abbia il diritto di non essere arsa, anche perché il rogo potrebbe avere luogo per cause prettamente naturali. Il divieto tutela il diritto di altri uomini di godere dei benefici di quella foresta. Peraltro, se noi attribuissimo valori morali agli animali, per il solo fatto di eseguire tale operazione affermeremmo, ancora una volta,
quello che gli animalisti vogliono escludere, ovvero la superiorità della specie umana sulle altre specie del Creato.
Al riguardo, pur non essendo un entusiasta nel definire l’essere umano come la creatura necessariamente
superiore a tutto ciò che lo circonda, non ho dubbi nell’attribuire un indiscusso maggiore valore alla vita umana rispetto a quella di qualsiasi altro animale. Le ventimila nutrie ed i molti tassi, volpi, e istrici, i cui numeri non sono stati “contenuti” e hanno scavato le gallerie corresponsabili del cedimento degli argini durante l’ultima alluvione della Romagna non valgono, neanche lontanamente, una sola delle 15 vite umane che purtroppo sono andate perse durante la recente calamità. A dire la verità, non valgono neanche i miliardi di danni materiali che l’esondazione ha causato e che distoglieranno fondi che avrebbero potuto
essere destinati a uomini poveri che non se la passano bene.
Se per costruire una strada che migliorerà la vita dei residenti e diminuirà l’inquinamento cittadino è necessario sloggiare i nidi di passeri e falchi e disturbare il quieto intercedere di rospi e tritoni sono convinto che l’opera debba essere realizzata, magari integrando tutti quegli
accorgimenti per mitigare l’impatto sulla fauna e sulla flora.
Mi oppongo categoricamente alla distruzione delle dighe dalle quali ricaviamo energia elettrica pulita per consentire il libero accesso a salmoni, trote, anguille ed altri pesci che risalgono la corrente. Anche perché tutta questa propaganda che asserirebbe il decadere preoccupante della
Natura a causa delle attività umane è pura ideologia basata su falsità. Nel nostro paese la condizione degli animali e delle aree verdi non è mai stata così florida e salutare negli ultimi 200 anni e le popolazioni di molte specie selvatiche sono cresciute anche per via dell’abbandono di vaste aree che sono tornate alla loro naturalità. L’Italia non è stata mai così verde negli ultimi secoli estendendo di quasi seicentomila ettari il proprio patrimonio silvestre solo negli ultimi dieci anni. Oggi, i boschi e le aree verdi coprono il 40% del territorio nazionale realizzando un incremento percentuale del 75% negli ultimi 80 anni. Volpi, cinghiali,
lupi, lepri, tassi, istrici, cervi, camosci, nutrie e una moltitudine di esseri appartenenti alla fauna selvatica
ripopola i boschi e le aree agricole superando spesso la densità biologica dell’area.
Un chiaro esempio di quanto asserito è l’invasione dei cinghiali, i cui nefandi effetti si sono manifestati tra la
fine del 2022 e l’inizio di quest’anno, e che ha fomentato un altro teatro di scontro tra l’animalismo più ideologico ed il sano buonsenso. Il fatto incontrovertibile è che la popolazione di questi ungulati in Italia è cresciuta a dismisura nell’ultimo decennio comportando malaugurate conseguenze nei settori dell’agricoltura, della salute e della sicurezza. Da tempo gli agricoltori si lamentano dei danni che le intere famiglie di maiali selvatici causano alle coltivazioni andando ad erodere i margini già minimali di
profitti che l’attività agricola garantisce. La sovrappopolazione della specie ha portato, inoltre, al
diffondersi e al moltiplicarsi di malattie, come la peste suina e la tubercolosi, che rischiano di essere trasmesse anche agli allevamenti di suini domestici che, per questa ragione, devono essere isolati totalmente dall’ambiente esterno.
Complice la grande antropizzazione del nostro territorio, inoltre, i grufolanti si riversano nei nostri centri urbani in cerca di cibo causando seri problemi sia di sicurezza sia di convivenza con la cittadinanza. Molti gli incidenti stradali, anche mortali, causati da questa ormai incontrollata fauna selvatica a cui si aggiungono occasionali ma deliberati attacchi a persone con esiti a volte fatali. Sconcertanti, poi, le immagini dei cinghiali in piena città: come a Roma dove famiglie intere di ungulati sono state riprese nella periferia Nord della metropoli a nutrirsi di rifiuti e a scorrazzare tra macchine e parcheggi. Ora, non si tratta di disquisire di
colpe perché la Natura, come ho già sostenuto, non ragiona in termini di bene e male e di colpevolezza e innocenza, ma non vi è dubbio che una soluzione al problema vada trovata. In sintesi, si tratta di controllare la popolazione e di ricondurla a numeri che siano compatibili con la “densità biologica”, cioè con l’armonico rapporto con il territorio. Si è dunque avanzata l’ipotesi di ricorrere ad abbattimenti selezionati anche attraverso l’impiego di specifiche unità all’interno delle zone urbane ovvero a cacciatori laddove
l’attività venatoria fosse consentita. Dalla carne di questi animali è possibile inoltre ricavare molti prodotti
commestibili che possono alimentare un mercato che, in periodo di crisi, potrebbe contribuire al rilancio economico ed alla diminuzione della povertà. Alla sola anticipazione di questa proposta schiere di animalisti si sono inalberate avanzando accuse di crudeltà, scarso rispetto della Natura,
inutili maltrattamenti e, addirittura, di inefficacia della tipologia di soluzione. Durante la trasmissione
“Controcorrente” la “donna lupo” Loredana Cannata, nota attrice ed attivista vegana, si lancia in una spiegazione a suo dire “scientifica”, sostenendo la futilità degli abbattimenti che sarebbero, sempre secondo questa accertata teoria, controproducenti. Secondo la sensuale artista gli animali, quando percepiscono il pericolo per la sopravvivenza della specie, incrementano esponenzialmente la loro fertilità rendendo ogni attività di soppressione vana ai fini di controllarne le popolazioni. Avanti con i “metodi etici”, dunque. Gli fa sponda l’onnipresente deputato dei verdi Angelo Bonelli che, portando ad esempio la guerra agli emù combattuta dall’esercito australiano contro il grosso volatile agli inizi del secolo a suon di raffiche di mitragliatrice, conferma l’inutilità di sistemi che si basino sull’abbattimento degli animali. Eccola la classica, ed allo stesso tempo assurda, espressione del Mondo al Contrario e del pensiero unico che si serve di tesi al limite del ridicolo per affermare l’opposto di quello che il buonsenso, la logica, l’esperienza ed il raziocinio consiglierebbero. Se fosse come sostengono i due animalisti, infatti, saremmo invasi da leoni, tigri, elefanti e rinoceronti e i mari pullulerebbero di balene e capodogli. Questi poveri esseri, ormai da decenni sterminati da cacciatori e pescatori, in base alla minaccia percepita avrebbero dovuto diventare così fertili e
riprodursi così in fretta da sovrappopolare il continente africano e i mari della terra. Anche la guerra agli emù, condotta da circa 100 soldati che hanno sparato 10.000 proiettili di mitragliatrice, non ha avuto i risultati sperati considerata l’esiguità delle risorse messe in campo rapportate all’immensità del territorio – l’intera Australia – e l’inadeguatezza delle armi impiegate. Quando gli Australiani hanno dato mano libera agli agricoltori locali incentivando la caccia ed implementando il sistema delle ricompense, la presenza del tacchinaceo è drasticamente diminuita. I due o non sapevano di cosa stessero parlando oppure, più probabilmente, facevano leva su ragionamenti e spettatori che basano i propri pensieri sulla fede piuttosto
che sulla realtà e sulla scienza, proprio come la religione animalista pretende. Anche sui metodi “etici” evocati dalla Cannata ci sarebbe poi da riflettere. Gli attivisti amici dell’attrice, infatti, si sono organizzati in gruppi da “combattimento” che si danno appuntamenti clandestini per distruggere o sabotare le gabbie di contenimento piazzate nei parchi e nelle riserve naturali al fine di arginare la sovrappopolazione di ungulati con una strategia meno cruenta dell’abbattimento. Evidentemente, anche questa metodologia non era considerata sufficientemente “etica” dagli estremisti della fauna che, probabilmente, volevano
estendere gli amati concetti di accoglienza, inclusività, parità di diritti e ius soli ai grufolanti selvatici.
Quello che invece è da evidenziare è che il rispetto degli animali e della Natura è direttamente proporzionale
alla ricchezza. Più siamo benestanti e più ci occupiamo del prossimo e abbiamo tempo per dedicarci ad altre attività che non siano attinenti alla mera sopravvivenza. Nei paesi poveri le foreste vengono bruciate per far posto ad attività produttive, a coltivazioni di palme da cui si ricava olio, a pascoli e gli animali selvatici vengono uccisi senza remore se non giudicati necessari per l’accrescimento della
prosperità. Le proteste degli animalisti si dovrebbero trasferire in Brasile, in Cina, in Bangladesh, in Cambogia in Indonesia poiché l’animalismo, come l’ambientalismo, il vegetarismo e molte altre preoccupazioni moderne, è figlio del benessere e dell’agiatezza superflua che l’uomo si è conquistato proprio anche sfruttando gli animali e la Natura. Tutte queste nuove tendenze sono possibili grazie alla ricchezza: non ho incontrato neanche un animalista in Somalia, in Iraq, in Costa d’avorio, in Libia o in Afghanistan, dove agnelli e capre vengono sgozzati per strada e dove la presenza di carne sulle tavole è solo saltuaria
e, per questo, motivo di festa. Quindi, se dovessimo assumere decisioni che facessero diminuire il nostro grado di prosperità rischieremmo di arrecare danno alla Natura stessa invece di proteggerla.
Una delle prime follie degli animalisti consiste nel cercare di far passare il concetto che gli animali, come e più degli uomini, abbiano il diritto di non essere uccisi. Nella loro visione la caccia viene proscritta e colpevolizzata come un’attività criminale, gli allevamenti si trasformano in campi di tortura, i macellai sono assimilati ai boia e, chi mangia una bistecca, una salsiccia o una coscia di pollo diventa complice
colpevole di chi razzia e fa stragi nel mondo animale.
Questo assioma ha ispirato il veganismo etico di quelli che si rifiutano di mangiare carne per una sorta di obbligo morale nei confronti della fauna. “Come fate a mangiare cadaveri?” – irrompono gli estremisti che tendono a sovvertire un principio ben chiaro a tutti gli antropologi.
L’introduzione di un’alimentazione basata sulla carne cotta è stata, infatti, all’origine dello sviluppo e dell’evoluzione dell’uomo. Sostengono anche che la carne faccia male e sia disgustosa, salvo poi cercare di ricrearne il gusto, le sembianze e la succulenza con hamburger di soia e bistecche al tofu. S’innamorano della carne sintetica senza pensare che l’ecosistema si difende preservando la catena alimentare naturale e il cibo genuino e non buttandosi fra le braccia delle multinazionali del becchime prodotto in catena
di montaggio.
Altra incoerenza è data dal principio animalista che si applicherebbe solo al genere umano, ovvero, secondo
questa setta radicale solo l’uomo dovrebbe rinunciare alla carne e ridursi a cibarsi di lattuga e cavolfiori perché orsi, lupi, barbagianni, volpi e tutta la fauna selvatica onnivora o carnivora ne sarebbe esentata. Qui traspare l’altro concetto bacato che vedrebbe l’uomo e l’attività umana negativa e deleteria a prescindere da contrapporsi, invece, a tutto quanto appartiene al regno animale che rappresenterebbe il colmo della bontà. Nella maggioranza dei casi, poi, gli incontestati amici degli animali estenderebbero questo velo di protezione solo ad alcune specie: soprattutto agli animali domestici e da cortile; probabilmente a tutti i mammiferi;
alcuni salverebbero anche gli uccelli…ma quasi nessuno se la sentirebbe di manifestare a favore degli insetti,
soprattutto se si tratta di zanzare, blatte, pulci, pappataci o larve parassite dall’apparenza ributtante. Eppure, secondo logica, anche loro, in quanto appartenenti al regno animale, sarebbero soggetti giuridici dello stesso diritto. Ho sentito parlare di alcune popolazioni del Nepal che la mattina pregano chiedendo perdono per le formiche che inconsapevolmente schiacceranno durante la giornata, ma nel ricco occidente non ho ancora incontrato seguaci di tali consorterie.

In ultimo, vi è il paradosso dei paradossi: se tutta la popolazione umana diventasse vegana, seguendo le
auspicate degli animalisti e mantenendo in vita fino alla loro morte naturale tutti gli animali della zootecnia, la superficie terrestre attualmente dedicata all’agricoltura non basterebbe più per sfamare bestie e sapiens. Eliminando gli alimenti di origine animale, inoltre, dovremmo cibarci ancora più di cereali, soia, e surrogati della carne sui quali, non a caso, le stesse Multinazionali odiate dagli ambiento-animalisti stanno investendo alacremente perché intravedono grandi guadagni in futuro. L’abbandono degli allevamenti porterebbe, inoltre, ad una perdita della biodiversità che nei pascoli si mantiene grazie al calpestio e al brucare dei
ruminanti. Al contrario di quanto sostengono gli amanti dei quadrupedi un mondo vegano non migliorerebbe affatto la condizione degli animali che morirebbero in natura per malattie, infezioni o tra mille sofferenze conseguenti all’attività predatoria ma, in compenso, ci porterebbe verso il degrado ecologico, l’incremento dell’industrializzazione e il dilagare della povertà.
Oltre al diritto incontestato alla vita, gli animali sarebbero anche titolari del diritto a non essere sfruttati o
adoperati sotto nessuna forma e per nessun motivo. Anche in questo caso, benché ormai quasi nessuno nel progredito occidente impieghi più la forza animale per il lavoro della terra, i maggiori colpevoli sarebbero quelli che praticano l’equitazione o i vetturini che si guadagnano da vivere proponendo giri in carrozza ottocentesca ai turisti che visitano le nostre città. Anche gli addestratori di cani salgono sul banco degli imputati, rei di sottoporre a sofferenze inaudite e ad angherie le povere bestiole a suon di scariche elettriche e bastonate. Un mio collaboratore, proprietario di un bellissimo e richiestissimo cane “molecolare”, è stato preso a malaparole da alcuni forsennati perché la bestiola, educatissima, lo ha aspettato senza
guinzaglio, senza muoversi e in posizione “seduta” all’ingresso di un negozio mentre lui faceva la spesa. “Chissà quali sofferenze gli hai inflitto per condizionarlo in tale modo” – lo accusavano animosamente gli attivisti. I circensi, dal canto loro, assurgerebbero al rango di aguzzini spietati poiché non solo fanno soffrire gli animali privandoli della libertà, ma strappano loro anche la dignità obbligandoli ad esibirsi in spettacoli contrari alla loro natura. Ma quelli che prendono posto nel peggiore girone dell’inferno animalista sono gli
scienziati ed i ricercatori che sperimentano farmaci salvavita e terapie contro le peggiori malattie che affliggono il genere umano impiegando cavie tratte dal regno animale. Anche gli allevamenti di bestiame sarebbero da proscriversi, poiché la sola idea di crescere degli animali al fine di alimentarsene o di sfruttarne la produzione di latte o uova avrebbe un carattere odiosamente strumentale che nessun essere del
Creato meriterebbe. Che dire poi dei produttori di pellicce e di capi in pelle che andrebbero condannati senza processo.
Peccato, tuttavia, che uno delle principali testate rosa titola: “Il guardaroba femminile dell’Autunno-Inverno 2022/2023 si veste di un tessuto principale: pelle. Letteralmente dalla testa ai piedi”.
Insomma, basta usare gli animali, noi umani la dobbiamo smettere ed è venuto il momento di lasciarli in
pace rinunciando semplicemente a tutti i vantaggi che negli ultimi 10.000 anni si sono basati anche sullo sfruttamento della fauna oltre che dell’ambiente in generale.
Il fenomeno, tuttavia, sarebbe più che trascurabile se rientrasse nella sfera della pura e libera espressione delle proprie opinioni che, proprio perché frutto del libero pensiero, meritano sempre rispetto anche quando
rappresentano delle idee inverosimili e contraddittorie. La libertà d’opinione, insieme all’uguaglianza formale, è alla base della nostra civiltà giuridica, della nostra libertà e, persino del nostro benessere, perché non avremmo avuto progresso tecnologico senza libertà di pensiero e di ricerca scientifica. D’altra parte, le pagine di alcuni social, blog e di certi siti del web sono popolate dai commenti di centinaia di sostenitori dei fatti e delle cospirazioni più assurde che spaziano dalle scie chimiche ai rapimenti da parte degli alieni
includendo il terrapiattismo e la stregoneria. Analogamente, vi sono migliaia di altri luoghi dove vengono proposti riti apotropaici per allontanare il malocchio, per vincere alla lotteria o, semplicemente, per ritrovare l’amore e, benché, queste pratiche siano semplicemente antitetiche a qualsiasi scienza, non vengono sottoposte alla censura o dichiarate fuorilegge secondo il codice dei reati d’opinione tanto caro
a certe frange politiche. Il problema, al solito, sorge quando queste minoranze vogliono imporre il proprio pensiero e le proprie convinzioni agli altri, che rappresentano la maggioranza, esercitando pressioni ed influenze con modalità ed artifici spesso violenti ed intransigenti. Ecco, allora, che si assistono alle azioni degli attivisti amanti delle bestie che bloccano macelli e mattatoi invocando “l’olocausto animale”. Nel 2018 fece scalpore il Blitz all’evento di “Woolrich John Rich & Bros” durante la settimana della Moda Uomo Milano: i deliranti fermarono la fiera manifestando contro ogni produttore che impiegasse per il
confezionamento dell’abbigliamento prodotti di origine animale. Quindi, non solo pellicce e scamosciati sarebbero da proscrivere ma guanti, cinture, borsette, divani, poltrone, la totalità delle calzature, oltre a moltissimi altri suppellettili, dovrebbero ormai essere confezionati solo con materiale sintetico, per la grande gioia del pianeta. Sempre nello stesso periodo assurse alla ribalta delle cronache l’assalto
agli allevamenti Green Hill presi di mira dagli animalisti che “liberarono” centinaia di Beagle. Poco tempo dopo il tribunale competente categorizzò l’azione come “furto aggravato e danneggiamento” condannando gli autori che l’avevano compiuta. Entriamo nell’ambito dello scabroso, poi, quando udiamo le notizie di alcune neo-mamme che, convinte delle loro idee rivoluzionarie circa l’alimentazione umana ed in contrasto con qualsiasi indicazione medica, impongono ai loro inconsapevoli neonati una dieta totalmente vegana riducendo i poppanti in fin di vita. Il carattere impositivo delle richieste, inoltre, traspare
prepotentemente dalle istanze di alcuni genitori che vorrebbero un’alimentazione vegana per i loro pargoletti
che vanno a scuola ma non sono soddisfatti della semplice possibilità di scelta fra cibi che non contengono carne…
No, vorrebbero che nessuno la mangiasse, la carne, per non fare sentire i loro piccoli vegani discriminati. Della stessa caratura la vera e propria operazione psicologica messa in atto, ormai regolarmente, a ridosso della Pasqua. Su tutte le piattaforme dominano immagini di timidi agnellini trucidati a colpi di mannaia e tendenti generare un senso di colpa collettiva e a dissuadere il pubblico più vasto ed impressionabile dal cibarsi di carne ovina, come una tradizione millenaria vorrebbe. Come se cibarsi di un agnello fosse più crudele che mangiare un’ostrica che, peraltro, s’ingerisce viva.
Non ti piace il circo? Non andarci! Ritieni che cibarsi di carne sia oltre che crudele anche insalubre?
Mangia rucola e rapanelli! Non ti piace la caccia? Non praticarla e non comprare prodotti che possano provenire dall’attività venatoria! Pensi che allevare una mucca per il suo latte sia più improponibile che confinare un cane tra quattro mura domestiche e portarlo a spasso al guinzaglio? Rimpiazza i latticini con la soia! Eh no, troppo semplice, non lo deve fare nessuno! Quello che stona, e che configura quella che può risultare una semplice e legittima scelta individuale in una religione che deve allargare i ranghi dei
suoi proseliti, è la necessità di imporre agli altri gli assiomi ideologici nei quali pochi adepti credono. Ancora più abietta è la metodologia non democratica e fortemente prevaricatoria con la quale si vorrebbe attuare la
conversione. Questo è il meccanismo che ha dato visibilità alle correnti animaliste: non il consociativismo teso a riunire chi la pensa allo stesso modo, ma l’arroganza di voler affermare la propria condotta quale unica moralmente accettabile e quindi, da estendere forzosamente a tutta la comunità. Se io non mangio carne non lo devi fare neanche tu; se io voglio portare il mio irrequieto cane al ristorante se lo deve sopportare anche il mio vicino di tavolo a cui, magari, l’alito, l’odore animale e i guaiti danno fastidio soprattutto se aveva pianificato una cena a lume di candela con la propria metà; se il proprietario di casa non intende
affittare il proprio appartamento a chi ospita animali domestici diventa un esecrabile e crudele razzista istigatore dell’odio.
Parimenti, l’antropomorfismo risiede alla base di un bieco e distorto animalismo da salotto. Se continuiamo
ad attribuire caratteristiche umane a ciò che umano non è, interpretiamo la realtà secondo un prisma che ce la fa apparire totalmente distorta e falsata. Questo fa l’animalismo religioso che vorrebbe trasformare la specie umana in una varietà vegana e che mette sullo stesso piano la vita degli animali con quella degli uomini. Sempre di più dilaga la convinzione che le bestie si sentano meglio se le mettiamo nelle condizioni di vita a cui noi umani siamo avvezzi. Cani e gatti stanno meglio in un piccolo appartamento, invece che liberi nei campi o sui tetti delle nostre case; sono più belli ed eleganti quando sfoggiano cappottini dai colori appariscenti e collari tempestati di brillanti e riteniamo raggiungano il massimo della felicità quando, invece di acquattarsi in una cuccia in cortile, si stendono sulle bianche lenzuola del nostro letto in una
camera riscaldata. Riteniamo gioiscano quando li portiamo a spasso al guinzaglio e gli concediamo di fare i loro bisogni in ristrette porzioni dei nostri agglomerati urbani, o che si compiacciano per l’ultima toelettatura alla moda che qualche zoo-igienista ha loro inflitto. Invece di accettare la realtà che l’attaccamento maniacale di alcune persone alle bestie nasca da una necessità prettamente umana che priva di molte libertà essenziali gli animali oggetto di tali premure, preferiamo attribuire sembianze umane a chi appartiene ad
un mondo totalmente differente. Anche il cosiddetto “amore per gli animali” rappresenta una sorta di rifugio e, spesso, di rimpiazzo giacché è molto più semplice dell’amore per gli uomini. Fra i membri della comunità
umana l’amore implica corresponsione, capacità di rapportarsi all’altro, comunicazione, sacrificio, possibilità di rifiuto e di tradimento oltre che essere antitetico al concetto stesso di possesso. Quello che invece da molti viene classificato come amore per gli animali nasce spesso dal possesso degli stessi che vengono comprati, acquisiti o prelevati dal loro habitat, relegati in piccoli spazi, privati di quelle che sono le loro caratteristiche essenziali – prima fra tutte la libertà – e ricondotti a vivere una vita senza alternative al cospetto del loro “amorevole” padroncino. La stessa castrazione degli animali domestici passa per un gesto amorevole agli occhi di chi non vuole accettare la diversità tra i comportamenti della fauna e quelli degli uomini. Poi c’è
l’industria, gli affari ed il commercio che entrano prepotentemente in campo per convincerci che per meglio
dimostrare l’intensità dei nostri sentimenti nei confronti delle nostre bestiole dobbiamo spendere per farle
assomigliare sempre di più a quello che noi vorremmo che fossero. Il fatturato complessivo del settore della pet economy in Italia si aggira attorno ai 3,5 miliardi di euro annuali in costante crescita e, cosa ancora più sbalorditiva, gli Italiani spendono quasi un miliardo di euro all’anno per il mantenimento dei propri cuccioli, contro i 633 milioni destinati ai bambini.
Nel Belpaese, il numero di animali domestici supera quello degli stessi abitanti. Nel privilegiato Occidente,
mentre si rinviano sempre più in là i matrimoni e si concepiscono sempre meno figli si predilige la compagnia degli amici a quattro zampe. All’avvicinarsi dell’estate, poi, si incrementano gli appelli e le giustissime invocazioni a non abbandonare gli animali, ma quello che a me fa riflettere è che le stesse animose campagne non vengono condotte per contrastare l’abbandono dei nostri anziani, padri o nonni alla loro misera sorte o, quando va bene, al loro parcheggio in squallide case di cura. Infine, nonostante la tanto
declamata crisi generale, l’impoverimento della popolazione, la crisi abitativa e la distribuzione iniqua della
ricchezza si garantiscono sempre di più agli animali tutti i beni di cui necessitano, anche e soprattutto quelli superflui: Pitti Uomo interpreta la tendenza e dedica uno spazio esclusivo agli accessori e al lifestyle pensati per gli amici pelosi che ci sono più vicini.
Lungi dal voler proscrivere o criticare un comportamento così viscerale nei confronti degli amici a
quattro zampe ne evidenzio solo la stravaganza ed il carattere abbastanza contraddittorio, ferma restando la
convinzione che qualsiasi azione che non interferisca con la libertà altrui sia assolutamente lecita e consentita. Ben vengano quindi collari-gioiello, guinzagli che sembrano cinture, abiti come cappotti sartoriali e ciotole che appaiono come stoviglie per i pelosi domestici, ma altrettanto lecito è il sentimento di molti che considerano invece svilita la dignità dell’animale stesso che, agghindato come un pagliaccio, assume le sembianze più di un oggetto da salotto che di una creatura vivente a cui la Natura ha assegnato
determinate sembianze.
Dal canto mio adoro gli animali, li rispetto dal profondo e credo che vadano difesi e preservati come esseri
del Creato, ma sono altrettanto convinto che tra la specie umana e le bestie sussistano differenze sostanziali che rientrano nell’ordine naturale delle cose: se permettete vengono prima gli uomini. Sono altrettanto convinto che se questo ragionamento lo facesse un polpo o un ragno gli octopodi e gli aracnidi sarebbero al vertice della piramide delle preoccupazioni. Gli allevamenti sono necessari, ma non per questo si devono trasformare in luoghi di sofferenza; l’abbattimento deve avvenire procurando il dolore minore per le bestie; bene la caccia, purché sia regolamentata e al solo scopo di alimentazione anche perché il cacciatore è solitamente il primo che preserva gli ecosistemi; avanti con le sperimentazioni sugli animali quando si rendono necessarie e solo dopo aver superato le prescrizioni dei comitati etici; nessuna limitazione agli
animali domestici purché non siano molesti e pericolosi, non invadano i luoghi pubblici e non interferiscano con le libertà di chi non si sente a proprio agio in prossimità dei pelosi. Nulla di strano, quindi, semplice ragionevolezza, buonsenso e moderazione che in un mondo in cui le minoranze tendono a prevaricare le moltitudini sembrano costituire sempre più una rarità.

Ringraziamenti

Il mio primo grazie va ai lettori, che si sono sorbiti questo libro
con una pazienza degna di Giobbe.
Altro sentito ringraziamento va alla mia famiglia, che ho indubbiamente trascurato per venire a capo di quest’elaborato.
Sono inoltre estremamente grato agli amici, colleghi e conoscenti che hanno accettato con entusiasmo l’idea che io scrivessi un libro e che, molto spesso, sono stati fonte d’illuminazione con i loro discorsi, con gli accesi dibattiti davanti ad una birra gelata, con i loro post inseriti sui social e con i loro scritti a cui mi sono
indegnamente ispirato.
Ultimo grazie a tutti quelli che prenderanno spunto da questi mei bislacchi pensieri e si cimenteranno insieme nel titanico sforzo di raddrizzarlo, questo mondo sottosopra, fissandolo bene con zeppe, tiranti e picchetti affinché sia molto più tenace e resistente a contrastare i continui tentativi delle minoranze che lo
preferiscono a testa in giù.

 

 

Mussolini in Giappone?

RECENSIONE DI AMBROGIO BIANCHI Angelo Paratico, storico e romanziere, nei prossimi giorni presenterà il suo ultimo libro, pubblicato dalla Gingko Edizioni e intitolato “Mussolini in Giappone”. Si tratta di un romanzo breve, contenente una notevole quantità di riferimenti storici. Viene così esposta, per la prima volta la possibilità, secondo noi non del tutto peregrina, che l’uomo ucciso a Giulino di Mezzegra, il 28 aprile 1945, non fu Benito Mussolini, ma un sosia.

Questo spiegherebbe l’incoerenza di certi suoi comportamenti, nei suoi ultimi giorni e tutti i misteri che ancora circondano le circostanze della sua fine. Pare inspiegabile la sua scarsa lucidità nel prendere decisioni dopo Como, e il fatto che il suo viso apparve sfigurato già all’arrivo a Piazzale Loreto. E non si capisce perché venne fucilato di nascosto e non portato sul lungolago di Dongo, distante solo pochi chilometri e lì giustiziato, in bella vista, assieme agli altri gerarchi e a uno sfortunato autostoppista.

A Milano, il 25 aprile 1945, Mussolini ebbe varie opportunità per mettersi in salvo, ma non volle coglierle. Prima fra tutte quella di chiudersi nel Castello Sforzesco e attendere l’arrivo degli Alleati. I partigiani non disponevano di armi pesanti e non sarebbero mai riusciti a espugnarlo. Un’altra via di fuga, caldeggiata da Vittorio Mussolini, fu una corsa sino all’aeroporto di Ghedi, per salire su di un SM79 che lo avrebbe portato in Spagna. La Svizzera, contrariamente a ciò che si crede, non fu mai un’opzione, Mussolini sapeva che non lo avrebbero mai lasciato passare.

Sul tavolo stava anche un’altra via di fuga, assai più complessa e per la quale la segretezza più assoluta era una condizione indispensabile. Questa prevedeva l’utilizzo di un sommergibile. Tale piano era stato approntato da Enzo Grossi (1908 -1960), un abilissimo e pluridecorato sommergibilista, che in Francia era stato a capo della base di Betasom. A tali preparativi accennò lo stesso comandante Grossi nelle sue memorie, ormai introvabili, intitolate “Dal Barbarigo a Dongo”.  Grossi fu un coraggioso uomo di mare che morì giovane, consumato dall’amarezza per essere stato ingiustamente accusato di aver imbrogliato le carte in cambio di due medaglie d’oro, una d’argento e due croci di guerra tedesche. Lo accusarono di aver mentito sull’affondamento di due corazzate americane, con il sommergibile Barbarigo da lui comandato, il 20 maggio 1942, al largo delle coste brasiliane.

Una commissione di ammiragli, dopo la guerra, discusse il suo caso, accusandolo di frode ma dimenticando di tenere conto dei diversi fusi orari. Come dimostrò Antonino Trizzino nel suo libro “Navi e poltrone” uscito nel 1952, Grossi affondò due grandi navi nemiche, ma non erano quelle che lui pensava. Viste dal periscopio d’un sommergibile, nel mezzo di una rischiosa azione e con il mare mosso, tutte le navi sono difficili da identificare.

Un decreto del Presidente della Repubblica lo privò delle sue decorazioni. Lui protestò con veemenza e, nell’ottobre del 1954, a causa di una sua lettera indirizzata al Presidente, fu condannato a  5 mesi e 10 giorni di reclusione per ‘vilipendio del capo dello Stato’.  Grossi aveva militato nella RSI, pur non avendo mai accettato la tessera del partito fascista ed era sposato con una donna ebrea, che non smise di praticare la propria religione. Riuscì a stento a sottrarla alle SS, che la rilasciarono, permettendole di tornare a casa dai loro bambini.

Nel capitolo XI del suo libro, intitolato “Un sommergibile per Mussolini”, Grossi racconta che Tullio Tamburini gli rivelò di essersi accordato con gli alleati giapponesi per approntare un grosso sommergibile, al fine di metterlo in salvo, e nei suoi piani sarebbe stato proprio lui a comandarlo, portandolo nel Pacifico. Tamburini accennò a Mussolini di quel piano, ma gli rispose che non ne voleva sapere. Questo fu confermato da Mussolini stesso quando incontrò Grossi, nel febbraio 1945 e lo ringraziò per i suoi sforzi. Poi aggiunse: “Non sono interessato a vivere come un uomo qualunque. Vedo che la mia stella è al tramonto e che la mia missione è conclusa…”.

L’esistenza di questi piani fu confermata anche dal vicesegretario del Partito fascista repubblicano ed ex federale di Verona, Antonio Bonino, nelle sue memorie, intitolate “Mussolini mi ha detto” uscito in Argentina nel 1950.

Questo è quanto se ne sa ma, secondo Paratico, il meccanismo continuò a muoversi, indipendentemente dalla volontà degli  ideatori e fu adattato, affidando  il comando del sommergibile oceanico Luigi Torelli a un tedesco. Dunque, Mussolini, nel primo pomeriggio del 25 aprile 1945, sarebbe stato prelevato da un’auto guidata da un diplomatico giapponese che lo portò a Trieste, dove s’imbarcò sul sommergibile Torelli, che lo attendeva nel porto, dopo che era stato fatto rientrare dal Giappone, dove si trovava e dove effettivamente ritornò. Tale sommergibile fu affondato dagli americani nel settembre 1945, davanti alla baia di Kobe. dove ancora si trova.

Mettendo da parte la storia alternativa e passando al romanzo, dobbiamo dire che questo libro si legge bene e  me ne ha ricordato un altro, avente un tema e uno sviluppo simile, che lessi alcuni anni fa. L’autore fu il grande scrittore e sinologo belga, Simon Leys (Pierre Ryckmans), ed era intitolato: “La morte di Napoleone”. Il Leys immaginava la sostituzione con un sosia al Napoleone confinato a Sant’Elena e un suo ritorno, in incognito, in Francia. Dopo varie peripezie, Napoleone è costretto a una vita da “uomo qualunque” dividendo il letto con una ortolana parigina. E, intanto, fra i cavoli e gli ortaggi, lavorava segretamente per compiere le sue vendette, ma infine s’ammalò e morì. Tutti coloro che hanno studiano l’epopea napoleonica restano colpiti da questa bizzarra fantasia del Leys, che ha il merito di aggiunge una nuova sfaccettatura, un nuovo punto di meditazione, su questa figura storica.

Il Mussolini che l’autore descrive è segnato dal lutto e dai sensi di colpa, ha frequenti crisi di pianto. Ripensando alla sua giovinezza da anarchico e squattrinato socialista, pensa che avrebbe dovuto salire sulle montagne come partigiano e poi lottare contro al tedesco invasore, invece di assecondarlo. La sua sofferenza e i suoi rimpianti vengono solo parzialmente leniti fra le mura di un antico tempio buddista, a Nikko.

L’idea dell’autore è assai originale e mai prima esplorata. E con questo scarno libro mostra di possedere una profonda  conoscenza non solo di quell’uomo, ma anche dell’uomo.

Ambrogio Bianchi

 

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Librai asinini a Verona e altrove

Mondadori, Verona, Corso Sant’Anastasia, 7

Nelle librerie Mondadori e Feltrinelli i nostri libri vengono boicottati. Anche se una di quelle piazza un ordine per i libri Gingko, tale libro poi non viene ordinato dai loro uffici centrali che raccolgono tutti gli ordini provenienti dalle loro librerie sparse in Italia. Questo non è complottismo ma un tangibile fatto con il quale dobbiamo convivere. Qualche giorno fa ne abbiamo ricevuto la riprova con la Mondadori di Crema che non  ha ordinato, dopo sei mesi, il libro di Ermanno Bencivenga intitolato “La Grande Paura” pur sollecitati dallo stesso autore, celebre filosofo e che abita a Crema.

Fra i tanti libri che abbiamo pubblicato ve n’è uno scritto dallo storico veronese Maurizio Brunelli, dedicato alla passione, condivisa da Cangrande Della Scala e Dante Alighieri, per gli astri. Era uscito ben due anni fa e speravamo che con l’anniversario dantesco avrebbe goduto di una certa popolarità, perlomeno a Verona. In realtà lo si trova solo nelle librerie indipendenti, come quella di via Mameli e al Minotauro ma non nelle maggiori,  collegate a catene nazionali.

Il motivo da loro addotto è che i loro uffici acquisti centrali, basati a Milano, verso cui dirigono tutte le loro prenotazioni, semplicemente non se li procurano dal nostro agente nazionale, la CDA di Bologna. Queste pastoie burocratiche sono apparentemente invalicabili e dopo l’ennesima discussione con la Mondadori di Verona, in Corso Sant’Anastasia, 7, a due passi da di Piazza delle Erbe, ho deciso di rassegnarmi al mio fato e di accettare che pure in questa libreria, che si trova a duecento metri dal palazzo dove Cangrande nacque e poi visse, i veronesi non possano ottenerne una copia.

Avevo deciso di fare un ultimo tentativo pochi giorni fa. Ma l’antipatica e scortese responsabile della Mondadori di Piazza delle Erbe, alla quale avevo offerto gratuitamente 3 copie del libro di Brunelli (me le avrebbe pagate solo in caso di vendita) mi ha bruscamente avvertito che aveva poco tempo da dedicarmi e che non era la giornata giusta. Dopodiché mi ha ripetuto il solito mantra che già mi aveva recitato l’anno scorso, circa non ben chiariti ostacoli che le impediscono di accettarli. Le ho obiettato che se l’uomo è arrivato alla luna, non è possibile non riuscire a mettere un libro in una libreria.  Alla terza ripetizione della sua storia dell’impedimento burocratico invalicabile mi sono spazientito e me ne sono andato dicendole che non avrei più comprato alcun libro da loro.

Poi si lamentano che Amazon gli fa concorrenza sleale, ma il motivo lo si capisce. Questo libro, per esempio, può essere ordinato su Amazon che lo stampa in Polonia e poi te lo invia a casa per corriere, spesso senza addebitare le spese dell’invio e, nel giro di una settimana, uno se lo trova nella cassetta della posta.

Ecco, alla fine saranno la burocrazia e l’ottusità che provocheranno la chiusura di queste catene di librerie, non Amazon!

Marisa Benini, la più amata libraia di Verona

La libreria Catullo di Verona (oggi Libraccio) in via Roma, era conosciuta in tutta Italia per i bei libri che vi si vendevano e soprattutto per la “Marisona”, un vero calcolatore elettronico vivente.

 

Marisa oggi
Assieme al suo compagno, Bruno Ghelfi, ricordava titoli e personaggi senza mai sbagliare un colpo. Facile alla battuta colta e alla confidenza, ti faceva subito sentire a casa. Reduce da una pesante caduta da una scala nel suo negozio e dalla perdita di Bruno – che seguiva soprattutto le mostre di quadri che organizzavano nel loro scantinato – anni fa decise di cedere l’attività.
Marisa ieri
Nello scorso mese di gennaio ha compiuto 90 anni, ma è ancora lucida e attiva come negli anni della sua gioventù. Gode di buona salute, salvo un problema alla gamba ma legge libri senza sosta e dai giornali che passa ritaglia tutti gli articoli che pensa siano di interesse per qualcuno.
Due mesi fa aveva trovato un mio libro su Leonardo da Vinci, uscito nel 2019, in una libreria nella quale era passata e si era ricordata di me incaricando la nipote di rintracciarmi.
L’ho rivista qualche giorno fa, dopo dieci anni di assenza e come sempre mi ha regalato tanti ricordi, che in lei sgorgano come una fonte dal suolo, e uno in particolare mi ha colpito.
Prestò un manoscritto di Albertini, il vecchio direttore del Corriere della Sera, a un suo cliente abituale, il Primo ministro Giovanni Spadolini e questo non glielo restituì più, nonostante lo avesse pregato di riportarlo.
Nella sua libreria sono passati Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Giovanni Comisso, Carlo Bernari, Eugenio Ragni, Alfonzo Gatto, Paolo Volponi, Carlo Cassola, Indro Montanelli, Piero Chiara, Giuseppe Berto, Giorgio Saviane, Alberto Bevilacqua, Roberto Gervaso, Jean Pierre Jouvet, Gino Colombo, Mario Pomilio, Melo Freni, Vincenzo Consolo, Aldo Busi, Tonuti Spagnol, Silvio Pozzani, Arnaldo Ederle, Franco Casati ed altri. Non si contano i pittori con le loro mostre, che gestiva Bruno, fratello del noto gallerista Giorgio Ghelfi e nipote del vescovo Fogolla, trucidato in Cina dai Boxers nel 1900.
Le libraie come Marisa, che leggeva sempre prima di consigliare un cliente, sono ormai in via di estinzione, sostituite da commessi senz’anima che non leggono nulla e da Amazon, e dai suoi algoritmi. Non progresso ma regresso.

L’importanza del fattore C. nella Storia e nel Costume

Esiste una larga parte del nostro corpo, comune ai due sessi, della quale si parla spesso con discrezione misto a imbarazzo, oppure la si usa come invettiva, o termine di paragone, attribuendogli sia significati positivi che negativi. Stiamo parlando del lato B, del sedere…del culo. Questo nome fa la sua comparsa anche nella Divina Commedia della quale tutti parlano quest’anno, ma che pochi hanno letto.

Prima del libro di Samuel Ghelli “Questioni di Culo. Guida Ragionata all’uso di un vecchio tabù nel linguaggio figurato” pubblicato da Gingko di Verona, non esisteva nulla di sistematico nell’uso e abuso di questa parola. Si tratta di una silloge di modi di dire che nella lingua italiana si costruiscono attorno a questa parola. Il numero di espressioni nella lingua corrente è davvero imponente, stiamo parlando infatti di un libro di 253 pagine, diviso in capitoli tematici e ricco di un indici dei nomi e di una bibliografia. Ogni espressione è corredata di varianti regionali e vien discussa la  derivazione, infatti l’autore, Samuel Ghelli, è un giovane docente di lingua e letteratura italiana presso alla City University di New York. Egli, dunque, viene da un paese in cui l’espressione “ass” culo è già stata sdoganata, ma il “range” dell’uso americano è assai misero. Non hanno la fantasia che possediamo noi italiani.

Diamo qui un estratto del solo Capitolo 18, sui 35 totali, dedicato ad “Allegria, felicità, euforia, stravaganza”.

“Aver visto il culo a Caterina”

SIGN:  mostrare insolita euforia; passare da uno stato di apatia ad improvvisa allegria. La locuzione vuole specialmente sottolineare quello stato di inconsueto godimento e inaspettata beatitudine che talvolta si legge nel volto e nei gesti di chi conosciamo invece come carattere cupo e affatto incline a manifestazioni di giubilo (“Hai visto Giovanni oggi? Irriconoscibile, tutto un sorriso. Pare abbia visto il culo a Caterina”). L’espressione è assolutamente d’origine fiorentina. Infatti la ragazza chiamata in causa non è una Caterina qualunque, ma la “duchessina” nata a Firenze da Lorenzo II dei Medici (“il Magnifico Merda” come lo chiamavano i fiorentini per rimarcare la differenza con l’illustre predecessore) che andata in sposa a Enrico d’ Orléans fu poi regina di Francia. All’origine del modo di dire che la ritrae con il culo in bella mostra pare esserci una bizzarra usanza in voga a quei tempi fra personaggi di certo lignaggio: trascorrere la prima notte di nozze alla presenza di qualche autorevole testimone. All’incontro amoroso dei giovani sposi si narra abbia infatti assistito un nutrito numero di cortigiani ed un posto d’onore sia stato addirittura riservato al papa Clemente VII che, per ragioni di stato, voleva assicurarsi che di fatto il matrimonio venisse consumato. I due ragazzi sapevano cosa fare e lo hanno fatto a dovere, consapevoli di offrire un gran bello spettacolo con piena soddisfazione dei guardoni di turno ai quali non poteva che tornare almeno il buonumore.

“Essere fuori come un culo”

SIGN: essere stravaganti; mostrarsi particolarmente su di giri. L’espressione indica una persona dal comportamento piuttosto balzano e può essere impiegata tanto per definire un’effervescenza di spirito che fa parte del bagaglio genetico di un individuo (“Simpatica, ma… è fuori come un culo”), quanto per alludere ad una euforia legata all’uso di droghe e alcol (“L’ho visto ieri sera ed era fuori come un culo”). Oggi è facile reperirla un po’ ovunque in rete e, seppure non trovi menzione nei dizionari ufficiali, è perfino indicata ad uso e consumo degli stranieri che studiano la nostra lingua nell’audace volumetto Hide this Italian book, pubblicato per la prima volta dalla Berlitz nel 2005.  La locuzione, che fa parte esclusivamente del gergo giovanile, è costruita sul modello di formule simili e precedenti quali “essere fuori come una campana”, “….come un balcone”, “…come un cartello” a cui aggiunge solo un pizzico di volgarità. Anche nella circostanza ci troviamo così di fronte ad una semplice e semplicistica rielaborazione di modi di dire preesistenti da parte di certi ragazzi ancora in età scolare che nella parola culo, nonostante il libertinaggio di costumi e di ben altro linguaggio a cui sono avvezzi (non di tutti, per carità!), dimostrano di trovare ancora una fonte preziosa di trasgressione. E la cosa un po’ sorprende.

“La camicia non gli tocca il culo”

SIGN: essere così euforici da perdere il controllo. Il detto ha davvero origini lontane e gloriose. Merita pertanto di essere ricordato anche se forse ultimamente è un po’ caduto in disuso. Lo registrano già Boccaccio (Giorn. IV, Nov. 2) e il Sacchetti (Nov. 123), e a partire dalla terza edizione lo accoglie persino il Vocabolario della Crusca fra le sue espressioni da consegnare alla storia.  Ma da dove nasce l’associazione fra il proverbiale indissolubile binomio culo-camicia e l’idea del ridicolo? La cronaca del tempo e la memoria di antichi costumi ci aiutano a comprendere chiaramente la logica che sottintende all’accostamento indicato e quindi a svelare il significato figurato dell’espressione. Bisogna ricordare infatti che almeno fino a tutto il Cinquecento era uso comune portare abbondanti camicioni a diretto contatto con le nudità del sedere e che di conseguenza poteva accadere che movimenti scomposti del corpo finissero per scoprire proprio ciò che l’indumento avrebbe invece dovuto celare. A stare alla testimonianza dei celebri autori sopra nominati, un’esuberante, incontrollata e quindi biasimevole allegria era all’origine di questa imbarazzante esperienza in cui a nudo erano messe le rotondità delle natiche e alla berlina il loro titolare. In fondo esiste un altro detto in italiano, forse meno autorevole (il Lippi non è il Boccaccio) ma sicuramente più esplicito per i nostri orecchi, a conferma dell’associazione fra un eccesso di giubilo e un disordine nell’assetto: “non stare più nei propri panni dalla gioia” (Malmantile).

“Pisciare dal culo”

SIGN: farsela addosso dalle risate

La locuzione è linguisticamente interessante e in parte sorprendente. A prima vista sembrerebbe infatti riprodurre nel significato le espressioni scatologiche che qualificano un improvviso spavento, identificando naturalmente con la piscia non altro che la merda liquefatta. Eppure, come ci dice David Jaccod che si è occupato del linguaggio delle chat, l’espressione non è costruita per analogia su formule simili che associano il culo e la cacca alla paura, ma su tutt’altro modo di dire che chiama in causa direttamente l’urina in quanto tale per alludere al buon umore e alla risata, vale a dire “pisciarsi addosso dal ridere”. In questo modo, secondo Jaccod, gli autori della rete dimostrano di non accontentarsi delle frasi fatte ma, di fronte a espressioni consunte di cui si è oramai smarrito l’originale valore interdetto (nessuno infatti si scompone più a dire o sentir dire “farsela sotto dalle risate”), compiono uno sforzo attivo per ottenere qualcosa di nuovo che possa ancora colpire e divertire. Il culo in questo caso è quindi messo in gioco per dare nuova forma ad un significato preesistente. Che poi lo si sorprenda anche specializzato nella minzione a dire il vero non stupisce molto visto che lo sappiamo multifunzionale e capace di ben più difficili ed articolate mansioni.

“Ridere il culo”

SIGN: godere delle disgrazie altrui

Necessario innanzi tutto chiarire la costruzione: il culo è qui soggetto posposto al verbo, quindi è lui direttamente, non altri, a sghignazzare delle sventure del prossimo. Siamo di fronte all’ennesima personificazione del nostro posteriore che si fa protagonista della scena riducendo il suo portatore, colui al quale il culo ride (“Mi ride il culo che Giovanni non possa andare in vacanza”), a semplice appendice.  C’è di più! In questo caso il nostro sedere dimostra non semplicemente di essere corpo, ma anche di avere un’anima. Il riso infatti non è provocato da una sensazione fisica, ma da un’emozione pura. La spontanea e improvvisa allegria che contrae i muscoli in una smorfia di piacere e fa emettere suoni vivaci e soddisfatti è frutto di un godimento tutto platonico che penetra lo spirito e non la carne. Che poi il culo si bei dell’infelicità altrui è cosa poco nobile ed anche piuttosto grezza, ma anche questo rientra nella sua fenomenale natura.

“Toccare il culo con un dito”

SIGN: essere al massimo della felicità

La presente locuzione è suggerita la prima volta da Alberto Arbasino in Fratelli d’Italia (1963) dove una banda di compagnoni si diverte ad elencare una serie di frasi contenenti la parola “cielo” immaginando mentalmente di sostituirla con culo. Il gioco sarebbe forse finito lì se lo scrittore non ci avesse preso gusto, riproponendo qualche anno più tardi in Super Eliogabalo (1969) più o meno lo stesso divertissement, ma in maniera più scoperta: “Bella la vita in tempi interessanti!… Quando grande è la confusione sotto il culo… Il culo stellato sopra di te!… Culo e mar… Culi bigi… Culi a pecorelle… Apriti cui!… La manna dal cui!… A noi si schiude il cu?… Ma per l’amor del culo!… Son cose che non stanno né in culo né in terra… Anche se vi pare toccare il culo con un dito!” Qui si chiude la lista, in un crescendo che dalla bassa cagnara innalza il culo fino a renderlo oggetto sommo del desiderio umano, come il cielo appunto, con tutte le sue intangibili bellezze che sanno regalarci impareggiabili felicità.

Il lodevole intento dell’autore, che ha compiuto una encomiabile ricerca, durata anni, è certamente di tipo accademico, ma proprio per questo motivo è difficile non piegarsi in due dalle risa, a causa di certe definizioni, che ci riportano ai bei tempi delle nostre scuole medie, quando venivamo colti dalla ferale e infettiva ridarella, che faceva imbestialire i nostri cari professori.

 

Angelo Paratico

 

Questioni di Culo

Un libro uscito nel 1976 e non più ristampato, ora è disponibile su Amazon.

L’Anonimo Nero che lo pubblicò nel lontano 1976 aveva del coraggio da vendere, come pure l’anonima casa editrice. Questo libro ormai introvabile non ha il numero di ISBN ma solo l’indirizzo della tipografia. E’ un libello più che un libro.

Tutti i celebri personaggi che vengono passati in rassegna, devoti e fidati  fascisti durante il ventennio, erano ancora in posizioni apicali di potere nel 1976 e dunque ben in grado di reagire con violenza al disvelamento dei propri trascorsi.

Giulio Andreotti, Michelangelo Antonioni, Domenico Bartoli, Arrigo Benedetti, Rosario Bentivegna, Carlo Bernari, Libero Bigiaretti, Giacinto Bosco, Paolo Bufalini, Felice Chilanti, Danilo De’ Cocci, Galvano Della Volpe, Antigono Donati, Amintore Fanfani, Mario Ferrari Aggradi, Massimo Franciosa, Fidia Gambetti, Alfonso Gatto, Giovanni Battista Gianquinto, Vittorio Gorresio, Luigi Gui, Renato Guttuso, Ugo Indrio, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Carlo Lizzani, Carlo Mazzarella, Milena Milani, Alberto Mondadori, Elsa Morante, Aldo Moro, Pietro Nenni, Ruggero Orlando, Ferruccio Parri, Pier Paolo Pasolini, Mariano Pintus, Luigi Preti, Giorgio Prosperi, Ludovico Quaroni Tullia Romagnoli Carettoni, Edilio Rusconi, Eugenio Scalfari, Giovanni Spadolini, Gaetano Stammati, Paolo Sylos Labini, Paolo Emilio Taviani, Arturo Tofanelli, Palmiro Togliatti, Marcello Venturoli, Benigno Zaccagnini, Cesare Zavattini erano tutti riusciti a passare indenni attraverso la guerra, che loro stessi avevano provocato (ciascuno per la sua parte) evocato e applaudito, ma poi si erano riciclati a  sinistra e al centro, dando spesso contro ai vecchi camerati e negando di esserlo mai stati.

Il loro problema fu che scrissero su giornali e riviste usando il proprio nome, per questo motivo la loro militanza fascista resta innegabile. Uno solo di questi personaggi è ancora vivo, Eugenio Scalfari. Tutti gli altri staranno cercando di imbrogliare San Pietro, ma non lo vediamo un compito facile o agevole.

In fondo tutti quanti avrebbero dovuto essere esclusi da cariche pubbliche nella Repubblica Italiana, in quanto profittatori del regime, ma le cose sono andate altrimenti, come ben sappiamo. E proprio per questo peccato originale stiamo ancora scontandone il prezzo

Il linguaggio usato dall’Anonimo Nero è sottilissimo e raffinato, usa il fioretto e non la spada, mette in contraddizione le loro stesse parole, rendendoli ridicoli. Per via del suo stile all’inglese crediamo che l’Anonimo Nero sia stato Nino Tripodi (1911-1988), nobile intellettuale, parlamentare e presidente del MSI. Abbiamo aggiunto alcune notte e fatto microscopiche correzioni, aggiungendo anche delle note sul fascistissimi Cesare Pavese, Giaime Pintor e all’ex presidente del Tribunale della Razza, poi diventato ministro e assistente di Togliatti, Gaetano Azzariti.

Questo è il link per acquistarlo su Amazon (prima che venga censurato)

Amazon.it: Il Paese dei Voltagabbana – Anonimo, Anonimo – Libri